racconti e fantasie erotiche

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"Tranzilvania, Tranzilvania bitteee!"
"Svelte, svelte, via tutte che arriva!..."
"Arriva chi?"
"Via, sgombrate prima che vi trovi qui..."
"Ma chi?"
"Dai, forza... alla svelta!..." ripeteva con un accenno di affanno nella voce, standosene impettito a picchiettare in terra col lungo bastone della ramazza. Attorno, gli si era fatto il caos in un momento e tutte saltavano e sparivano come faville da un fuoco, senza cognizione di quel che facevano.
"Shhh... ascoltate..." disse piegando leggermente il busto nella direzione di un cupo rumore indistinto, e la confusione divenne allora panico incontrollabile e poi tutto si tacque.
Solo in uno spazio vuoto, stette ad ascoltare quelle basse vibrazioni di sottofondo mutarsi prima in un tonfo cadenzato e poi in passi pesanti.
"Buongiorno Jack" disse l'informe rugosità accovacciandosi gravemente al centro della stanza.
"Buongiorno... buongiorno..."
"Anche oggi di ramazza, eh?"
"Qualcuno lo deve fare. Ci vuoi pensare tu?"
"No no grazie... vedo che ti riesce bene. Sennò poi che fai? Ti annoi?" e nel mentre scaricò sul pavimento a scacchi giusto giusto tirato a lustro uno stronzo di dimensioni ragguardevoli, proporzionato alla sua taglia gigantesca, che prese subito a sfaldarsi come un castello di sabbia troppo bagnato.
"Ohooo... mo' stiamo apposto..." Jack, poggiata l'ascella sul manico dell'arnese e il mento sull'avambraccio, guardava sconsolato quella massa che lo sovrastava di parecchio e pensava a quanto avrebbe faticato a portarla fuori secchio dopo secchio.
"Ciao Jack, alla prossima. Buon lavoro..." Il suo grosso e grasso corpo molliccio lumacò verso dov'era venuto lasciandosi dietro una lunga scia marrone.
"Domineddio, se ne ha fatta oggi! Ce ne sarà da spalare..."
Jack non esiste; o meglio, Jack esiste ma in negativo, è un vuoto, un'assenza: è la mia mancanza di morale. Avrei potuto evitare di antropomorfizzarla o magari darle un nome più consono, che suonasse meno States e più roba nostra, ma tant'è. Quel che è fatto è fatto.
La mansione di Jack è quella di ripulirmi la testa da quanto vi evacua – appunto – la mia morale, tanto per appestare l'ambiente e dare ingombro... tanto per rompere il cazzo, insomma, perché la morale (o almeno la mia, credo) non ci appartiene: viene da fuori, è il risultato di accumulazioni di generazioni innumerevoli, un ammasso inintelligibile che ad un certo punto ci è stato inserito dentro e che dentro è cresciuto parassitando l'ospite. Materia e antimateria.
Fortunatamente, Jack è bravo nel suo lavoro: pulisce tutto in fretta consentendo ai bei ricordi pay di tornare a ronzarmi in testa. Senza di lui, la coscienza li fagociterebbe facendone cacca.
Jack è un brav'uomo, ma è di quelli cui piace lamentarsi e piangersi addosso.
"...e io giù a spaccarmi la schiena per spazzare"
Jack, ringrazia il cielo piuttosto che non hai da pascerti di quella merda ma soltanto da toglierla via.
Spazza Jack, spezzati la schiena a spazzare e richiama indietro quanti ne ho di bei ricordi a pagamento: che mi venga voglia d'infoltire la compagnia, di dar loro nuove amiche.
"Avanti, su... dai, che il puzzo è quasi svaporato" abbaia Jack schioccando le dita in aria.
La prossima volta, forse, anziché fargli fare l'inserviente gli metto il grugno di un cane pastore e lo chiamo Fido, o Lessie, o Pallino. Sì, Pallino. Pallino mi sembra appropriato... e poi, i cani se la mangiano di gusto la cacca. In un modo o nell'altro, anche loro la levano di mezzo.
Leggere, tornano a far gruppo assieme piroettando dai quattro canti della scatola cranica.
Ce n'è di alte e di basse, di belle e di brutte e via discorrendo, e ognuna ha il suo pregio a distinguerla dalle altre: l'affusolata e la piccolina col sedere che son due pietre levigate, il viso più dolce e l'altra per cui ingoiare equivale a respirare, la più giovane (anch'esso rappresenta un bonus) e la passionale che quasi non m'avrebbe lasciato andar via, e ancora quella di buona chiacchiera e l'industriosa di lingua e l'ostinata del doppio sparo e l'intrattenitrice che s'interessa d'arte... Agesandro, Atanodoro e Polidoro...
Venite, venite... anzi, già che siete qui restate, restate, restate come siete, impettite e pettorute, e fate che con la mente possa carezzarvi ancora. A pagare vi ho già pagato, ma all'ombra del ricordo posso godervi quante volte voglio.
Ah, potessi trovarne una che sommi ogni perfezione invece di feticizzare un particolare di ognuna, potessi fare come Frankenstein e dare al meglio di tutte un'unità... ma Frankenstein ridava vita a carne morta e io, cosa faccio? considero persone tagli da macelleria... non si può rifare un bue col filetto, due fracosce e una suola di scarpa, neanche ad averci le animelle e tutto il resto.
Via, sciò... lasciatemi in pace almeno oggi.
Vorrei venisse la notte buia ad oscurare i miei pensieri.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio.
 
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"Tranzilvania, Tranzilvania bitteee!"
In Amazzonia col 19

Stava M. accasciato da certi suoi pensieri che quasi mai lo abbandonavano. Quel giorno, per togliersi di dosso quelle ambasce per almeno una mezz'ora, prese per buona e conveniente la risoluzione d'incontrare una signorina: per buona, perché gli pareva un modo divertente e affatto nuovo per distrarsi; per conveniente, perché valutava gli sarebbe venuta a costare meno delle visite specialistiche e delle medicine di cui s'imbottiva di solito per sentirsi un poco meglio. E poi quella mattina, proprio quella mattina, quella mattina precisa precisa, s'era svegliato con un formicolio sulla punta del cazzo che non sapeva come farsi passare in altro modo. Ancora in pigiama, allargava l'elastico stracotto dei pantaloni e se lo guardava e se lo rigirava per le mani e quello stava sempre lì e sembrava gli dicesse "ti prego, ti scongiuro, ficcami da qualche parte almeno oggi o non ti darò pace né oggi né domani né dopodomani e quanti altri giorni pensi ancora di campare".
M. non amava uscire di casa se non per andare al lavoro e al lavoro ci andava perché obbligato ad andarci altrimenti ne avrebbe fatto volentieri a meno. Prende un annuncio, prende il telefono e prende un appuntamento. Piano s'infila i vestiti, si abbottona il gilettino di lana a motivi scozzesi e si richiude dietro la porta. Il nome della via non gli suona nuovo, non perché sia già andato lì da una puttana (che anzi dall'andare a puttane sinora si era sempre trattenuto) ma perché a fare il messo comunale la città la si impara a conoscere a fondo e alla fine si può dire di conoscerla meglio di chiunque altro, meglio dei tassisti, meglio dei colleghi dell'ufficio toponomastica, meglio anche di chi la città l'ha costruita.
L'ultima occhiata che tollera è quella del portiere del suo stabile: ogni altra, di lì in poi, gli pesa come una patente d'anormalità. Non è per via della sua tonda e pingue pancia che lo precede di mezzo metro almeno e che lo obbliga, per compensazione, a flettere il busto all'indietro e a guardar tutto dall'alto in basso spostando la punta del mento; non è neanche a causa dell'andatura incerta che gli impone la sua gamba offesa, che neanche è di quelle belle andature fluide, circolari, che hanno taluni che sembrano dover caracollare a terra da un momento all'altro ma che ripigliano l'equilibrio ad ogni passo e che lui è arrivato persino ad invidiare nella sventura: è di quelle rigide e sforzate dacché l'articolazione del ginocchio, calcificata tre decenni prima, lo costringe a tirare avanti la gamba tutta distesa dopo ogni movimento di quella sana.
Più che altro – rifletteva – gli pesano gli sguardi dei passanti sul suo di sguardo, e le facce sbigottite, talvolta atterrite, che vede coll'occhio buono perché l'altro è una palluccia dall'apparenza vitrea (ma di quei vetri opachi e zigrinati che si usano mettere alla finestra del cesso) ma consistente come una pappa gelatinosa. Dell'iride e della pupilla è rimasta solo una chiazza appena appena più scura ma ben definita e le poche volte che se lo guarda da sé, allo specchio, quand'è meno triste e gli rivien voglia di esserlo (dato che le abitudini si rincorrono sempre, anche le spiacevoli), si stupisce ancora di quanto somigli all'occhio di un pesce cotto in forno.
"Ar pesce nun je piace d'esse pescato" diceva sottovoce il dirigente ogni volta che M. usciva di stanza per le consegne di giornata e così si tirava dietro i ridolini di mezzo ufficio, attento però a non farsi sentire dall'interessato. L'interessato lo sentiva eccome perché, se è vero che ci vedeva a metà e camminava a scatti, a sentire ci sentiva benissimo ma non gli andava di far polemiche e meno ancora gli andava di restar chiuso lì dentro a far polemiche e a fare l'offeso perché offeso lo era già nel corpo e c'era poco da fare. S'erano tutti stupiti il suo primo giorno di lavoro vedendo chi era stato fatto messo comunale e un vocio di sottofondo domandava e si domandava collettivamente come avrebbe fatto uno che ci legge poco e che cammina peggio a consegnare per tempo a chi di competenza quello che c'era da consegnare e a far firmare al posto giusto quello che c'era da far firmare.
A M. piaceva dire che a fargli girare la città da una parte all'altra non ci pensavano le sue gambe ma la municipalizzata dei trasporti e che, se pure un occhio era andato, all'altro dieci decimi ci aveva o quasi e che per appuntare una penna non gli serviva la vista bifocale che mica doveva tirare alle quaglie con la carabina o far saltare con la fionda la coda alle lucertole. E poi... e poi... e poi... chissenefrega dei colleghi e di quello che pensano: la legge lo protegge, la legge gli ha dato un posto e lui se le tiene stretto quale che sia che non ci si diverte ad essere orbi e zoppi e non lo si sceglie... anche se "'sto posto m'è costato un occhio" ogni tanto diceva per farsi simpatico agli altri e "non prendetemi sottogamba" aggiungeva facendo un disinvolto occhiolino... vien da sé, con l'occhio buono.
Neanche a sera M. si toglieva gli occhiali scuri cosicché, mentre il tram scorticava il bordo delle rotaie, qualche difficoltà la aveva a distinguere a che altezza si trovasse. Faceva conto, soprattutto, sulla memoria e sulla routine per calcolare la distanza percorsa e quella restante, e sui semafori e sulle insegne maggiori perché tutto il resto galleggiava nel nero nevrastenico di un quartiere in disperante coda per rincasare all'unisono. M. fretta non ne aveva ed era uscito per tempo, anzi con buon anticipo, rispetto all'ora con cui s'era annunciato alla puttana. Per quel che lo concerneva, poteva metterci anche un millennio e mezzo a tornare a casa sua che tanto ad aspettarlo non c'era anima viva: né una moglie, né un figlio, né un gatto o un canarino o un pescetto rosso. Di tenere un pesce, poi, per carità... non c'era neanche da parlarne. Gli sarebbe parso di avere un parente sotto vetro a guardarlo come lui guarda il mondo: male, di sbieco e con muto rancore.
Un'ora e cinquanta di percorrenze, tre cambi di mezzi, otto piedi calpestati, cinque "mi scusi" detti, tre "nun fa gnente" e tre insulti ricevuti, nessun sorriso, nessun controllo del biglietto: meglio così che l'esenzione gli era scaduta già da un pezzo e, pur di non uscire di casa, non l'aveva rinnovata ancora. Non che temesse una contravvenzione perché gli spettava di diritto di non pagare ed il resto è solo formalità burocratica. Sarebbe bastato tanto poco a far ricredere un controllore, per quanto severo e fiscale: un passo nella sua direzione e un'alzatina degli occhiali e via... altro che multa! pure le scuse gli avrebbe fatto il tizio... e allora si sarebbe sentito una volta di più un membro rispettato della società anche se, forse, avrebbe preferito esserlo in virtù di qualche merito personale e non per quelle sue manchevolezze, congenite alcune e sopravvenute altre, per le quali c'era poco da farsene un vanto.
M. giunse non senza impaccio al civico indicatogli, traversò il portone, scese pian piano, una gamba alla volta, la mezza rampa di scale che dava aria al seminterrato e s'avvicinò cauto ad una porta (semichiusa o semiaperta a seconda di come si preferisca guardarla). Ci ticchettò sopra con l'anello che portava al medio e questa gli fu aperta da Carmen che ristette due secondi a squadrarlo da capo a piedi ma, non trovando lì per lì nulla che la inquietasse in particolare, gli fece cenno di entrare e accomodarsi. Fu in quel momento, quando l'uomo le sfilò lemme lemme affianco nel corridoio, che notò una prima, una seconda, una terza peculiarità cui all'istante non aveva fatto caso ed erano l'incertezza del passo, la spaventosa rotondità ventrale e il suo procedere a tastoni nonostante la lampadinetta da 20 volt dell'applique (compagna di un'altra lampadinetta morta da tempo) rischiarasse il giusto necessario.
Nella cameretta di Carmen (letto, comò, seggiola con funzione di comodino) M. prese a togliersi la sciarpa srotolandosela da attorno al collo, e nel mentre guardava la posizione dei mobili: gli davano sicurezza. Si rendeva conto di aver avuto difficoltà all'ingresso e se ne vergognava, ma non riusciva comunque a rimproverarsi. Colpa del pavimento, di quel maledetto seminato alla veneziana che tanto piaceva negli anni '50 perché le porcherie in terra le camuffa bene ma che non offre linee dritte da seguire... "che avrà pensato di me la ragazza? che penserà di me?"... e la mano prese a tremargli tanto da non riuscire ad afferrare la stecca degli occhiali per levarseli di dosso e quando la afferrò pure gli occhiali presero a tremolargli vistosamente sulla gobba del naso e la stecca gli dava noia all'attaccatura dell'orecchio e sembrava incastrata a quel foglio di cartilagine sporgente. Ci rinunciò e se li tenne.
Carmencita pareva smarrita, perplessa, spaventata anche e se ne restava a quattro passi da lui impettita, con le manine cicciotte legate una all'altra e poggiate sull'inguine. Chissà perché, M. se le era immaginate tutte donne di polso quelle che fanno quel mestiere lì e invece la meticcetta india tutto sembrava fuorché di polso. "Allora?" le disse ma Carmen non gli rispondeva e se lo guardava paurosa e M. ringraziava allora l'impaccio che gli aveva fatto tenere gli occhiali ed entrambi bestemmiavano in cuor loro la situazione in cui erano e ognuno ne faceva una colpa all'altro. "Quanto vuoi?"... "Sinquenta" fece Carmencita guardando finalmente dabbasso. M. se ne sentì sollevato (dell'essersi scaricato di quello sguardo) e all'istesso tempo gravato d'oppressione... possibile mai una cifra del genere? no, non se l'immaginava possibile lui che per pigliarla in busta paga gli toccava girare un giorno e mezzo con la borsa a tracolla e pagarci su le trattenute. "Giuro che una confezione di Raspuzin Beta mi costa tre volte di meno e la pago a mezzi con la mutua e dentro ci stanno dodici fialette e ci sto a posto per quasi due settimane" fece all'indirizzo di Carmencita. "Eh?" venne di rimando dal fior di Colombia.
"Niente... dicevo che... vabbè, tieni" e tirò fuori dal portafogli venti, dieci, dieci e cinque euro e se lo rimise in tasca. Armeggiò nel taschino e fece cadere sonoramente sopra al taglio maggiore una manciata di monete che, sommata, faceva la cifra tonda... diceva fra i denti digrignati che era cavar sangue dai sassi ma Carmencita non lo capiva. Era tornata ad osservarlo, restando col capo reclinato, e le si vedevano le pupille fatte a mezzi dalle palpebre truccate. Da sotto il gonnello (un'ibridazione fra veste da camera e da campagna) le sporgevano all'infuori le cosce brozzolose cui si attaccavano due forti polpacci e due piedoni calzati nelle infradito di plastica turchina taiwanese (che era di miglior qualità di quella cinese, o così almeno le avevano detto sulla spiaggia dove le aveva comperate per non scottarsi la pianta benché callosa e tozza molto). Sulla prima falange dell'alluce e così per le altre dita, ma via via sempre più radi spuntavano lunghi peli neri che il contrasto col colore vivace della calzatura esaltava oltremaniera.
Tanto amabilmente paffute aveva le guanciotte che la sua giovane testolina aveva le sembianze di una rosada o di una decana del comizio come M. le aveva viste sui banchi dell'Esquilino quando s'era convinto a curarsi il mal di testa con lo zenzero grattugiato e se l'era andato a cercare fresco: larga sotto e stretta sopra. Un po' c'era rimasto male di non aver trovato la ragazza delle foto, una venere caraibica con due mammelle giganti e le labbra chiarificate su una pelle cioccolatosa, e si forzava a credere che fosse lei stessa in gioventù ma avvedendosi che giovane lo era anche adesso aveva presto rinunciato a cercare le somiglianze. Tel quel... così com'è... questo c'aveva e questo si teneva... nonostante la pancia, premendo sulla vestaglia e rilassandosi la stoffa al centro per breve tratto, lasciasse percepire che proprio lì in mezzo c'era, fra l'adiposa sedimentazione del cibo, l'ombelico, tondo su tondo, semisfera piccola rigirata entro una semisfera grande... perché da qualche minuto, da quando era entrato in quella casa, aveva ricominciato ad avvertire quel formicolio leggero ma insistente sulla punta del cazzo che l'aveva tormentato in mattinata.
Lo rasserenò pensare che ad entrare a casa di sconosciuti il lavoro, per forza di cose, ce l'aveva abituato. Si sedette di peso sul bordo del letto, a metà, e questo gli fece conca attorno... "scusa ma non ce la faccio a stare in piedi tanto"... spostò a forza di braccia la gamba offesa, tirò via il cappello e, concentrandosi sul gesto, riuscì a togliersi gli occhiali. L'occhio di pesce fece stendere a Carmencita le palme delle mani in avanti come a preservare la sua persona da un pericolo incombente. Cominciò a muoverle ruotandole asincrone a semicerchio attorno al fulcro del polso blaterando frattanto agitata "no se puede... no se puede señor... no no..." e il cuore le sballonzolava nel corpetto stretto stretto e il fiato le mancava e lo sguardo le si era fatto terreo... "yo no puedo... disculpame señor... disculpame... discu..." e un terror panico le stringeva la gola disseccata dall'affanno. "Ma che c'hai, 'na sincope? nun te sturbà... nun me collasserai mica?"... le faceva M., preoccupato più delle spiegazioni che avrebbe dovuto dare ai paramedici in caso di mancamento della signorina che della buona salute della stessa.
Quel che M. non sapeva è che nel villaggio di Carmencita, quand'ella era bambina, una pestilenza fece tanti morti quanti poteva benedirne ogni giorno il prete. Non se n'era mai capita la causa. Si sapeva soltanto che a quelli che venivano infettati si gonfiava il ventre come agli annegati rimasti in acqua per tre giorni e in tre giorni precisi se ne andavano e certi vermicelli bianchi e fini, quasi trasparenti, cominciavano a mangiarseli da dentro quando ancora potevano biascicare le novene tenendo il rosario in mano. Al terzo giorno, una paralisi li prendeva tutti alle braccia e alle gambe che s'irrigidivano, e allora restavano stesi come tante bamboline di legno a guardare con fissità il soffitto delle capanne loro, tutte di frasche e foglie di palma, e il diavolo se li portava in poche ore così: gonfi, pietrificati, con l'espressione attonita e spenta. Che se li portasse via il diavolo lo dicevano tutti ma lo pensavano in pochi. Era credenza comune dei villaggicoli che si trattasse della vendetta di una divinità irata, di un dio degli antenati o della foresta, di una potestà atavica che davanti al prete non la si poteva nominare perché i preti sono uomini di città e gli uomini di città certe cose non le capiscono o non le vogliono capire.
E se gli uomini di città fingono sempre di non capire le credenze degli uomini della foresta impenetrata, che per loro son verità palpabili al pari del fiume, del giaguaro e delle formiche, come può Carmencita spiegare le sue paure al pingue signore che le ha occupato il letto? come fa a dirgli quanto il suo addome enfio, il suo arto bloccato, il suo occhio senza luce le ricordino le decine di morenti della sua infanzia? anzi: non soltanto le ricordano quelli... Carmencita è fatta convinta che quella stessa malattia l'ha già preso e se lo sta portando fra i più, lo sta trasportando senza farsene accorgere affianco a suo padre, affianco al padre del padre, assieme ai familiari suoi defunti per riunire il clan totemico cui il suo spirito appartiene per diritto – o per dovere – di nascita. Ha paura Carmencita: ha paura dei ricordi, ha paura che la divinità che in quei giorni lontani era parsa dimenticarsi di lei torni a reclamare anche il suo, di spirito. Non teme i germi che non vede e non conosce, non teme il contagio su cui tribolano i medici... o almeno non quel tipo di contagio: teme la contiguità delle anime, fluttuanti nei corpi e nelle cose come gas in un involucro teso... e si tiene lontana da M.
M., che è uomo di città, che non è stato partorito in un giaciglio di verdi e larghe foglie, che non ha mai dormito in un'amaca, che non ha dato la caccia alla scimmia sui rami alti con la cerbottana piumata, non capisce, non capisce proprio la reazione della puttana. Non è un bell'uomo,ovvio; è anzi ben lontano dall'esserlo, e anche questo è acclarato. Il suo aspetto può destare sorpresa, in tanti genera disgusto ma il terrore, il terrore che legge in faccia a quella figlia amerinda no, quello proprio non se lo spiega. E gli pare scortesia. Acciuffa sciarpa, occhiali e cappello, si rizza a forza di gomiti, sciancheggia di qualche passo, raccoglie gli spiccioli dal comò, s'infila in tasca le banconote accartocciate come un cespo d'insalata e prende la porta. Dovendo passare nelle vicinanze di Carmencita, questa gli si discosta tenendosi lontana sempre della stessa identica distanza. A riguardar la scena dall'alto, come affacciandosi nanerottoli dalla plafoniera sul soffitto, parrebbe un gioco di calamite e di magnetismo contrastante, il loro. Uno sfila e l'altra si defila. Posto piede nel corridoio, M. sente sbattere con fragore la porta alle sue spalle e dare un paio di mandate a chiave. Sente anche parole di cui non afferra il significato, quasi suoni scomposti: è Carmencita che recita gli scongiuri tribali che le aveva insegnato, a suo tempo, la nonnina.
M. distende le braccia ai suoi lati, prima una poi l'altra, per toccare con la punta delle dita i muri del disimpegno tappezzati di vecchia carta cremisi... benché al tatto egli non possa avvertire il colore dei parati. Non trova l'interruttore per far luce e neanche schiaffeggia le pareti all'altezza del suo ombelico (altezza cui solitamente sono posti tutti gli interruttori in tutti gli angoli inciviliti del pianeta) che di tempo ne ha scialacquato fin troppo: ha soltanto una gran voglia di andar via da quella casa e gli sembrerebbero secondi male investiti quelli spesi nella palpazione delle verticali dell'appartamento. Il tragitto fra la camera di Carmencita e il portoncino che dà sulle scale comuni è brevissimo per chi conosce a menadito la disposizione dei mobiletti sconocchiati, per chi vede e per chi cammina con andatura consueta; a M., che in quella casa mai era stato prima e che pure si strascica nel buio accecato una gamba inerte, ritrovare l'uscio costa invece gran fatica e qualche apprensione ed è con piglio d'eroe che stringe la maniglia e si tira addosso il portone e stringe ancora il corrimano e tira sopra agli scalini la gran pancia, la gamba guasta e l'occhio cieco, rumoreggiando per tutto il caseggiato con lo sbattimento della suola rialzata sul marmetto da quattro soldi.
Ritrova l'andito condominiale in piano con la strada e dunque la strada. Serra il cappotto, stringe la sciarpa attorno al gozzo e inforca gli occhiali mentre la caotica folla delle creature si urta e cozza con brutta dissonanza tutt'attorno e pensa a quanto aveva fatto bene a tenersi lontano dalle puttane tutta la vita e a quanto sono gente strana e che non buscano una lira se non s'accontentano di quelli che capitano loro in casa che non tutti si nasce belli e perfetti e che magari qualche qualità la si ha comunque fra certi difettucci fisici o almeno un portafoglio pieno dovrebbe compensarli quei difettucci e che sarebbe il mestiere loro quello di non farci caso invece di castigarli col rifiuto e con lo schifo; che poi io pure da signore mi sono comportato che non gliel'ho detto mica che non era quella delle foto, che un sacco di tempo mi aveva fatto sprecare e che doveva pagarmelo quel tempo buttato e siccome anch'io dovevo pagare lei potevamo pure aggiustarci a scopare aggratis come sarebbe stato giusto.
Nel frattempo, nella sua stanza semisotterra Carmencita, ginocchia a terra e gomiti sul letto, questo cantilenava a labbra contratte: "Spirito adirato, quietati e lascia a noi che ti portiamo rispetto il respiro e la forza di pescare il pesce dalle carni grasse e di cacciare il tondo pecari con braccio e passo sicuro; rinsacca i denti aguzzi del predatore e se sete di sangue hai ancora, cercane silenzioso dai nemici del grande fiume e fra quanti non abitano il verde sterminato e la terra che s'inonda una volta l'anno poiché noi siamo il tuo popolo e il tuo popolo è il tuo mondo. Dunque saziati degli altri, paralizza le membra loro con la scarica dell'anguilla, schiaccia loro la testa come fa il tucano con la noce e lascia che dalle viscere straziate volino agli antenati le entità che vuoi riunire acciocché noi che osserviamo la sacralità dell'animale possiamo vivere e vivendo prosperare perché ben sai che, quando invochiamo il santo spagnolo, in realtà è la protezione del totem che imploriamo contro le avversità e quando ci segniamo è altro legno che quello della croce quello in cui ci riconosciamo tutti".
M. spazientito, deluso, rattristato oltre il solito, guardava a sinistra e a destra quanta gente gli passeggiasse vicino e, trovando il loro numero di sopravanzo, risolse di rattrappirsi al più presto in fondo al primo tram. Aveva tutta una città da attraversare di nuovo. Riguardò a sinistra, riguardò (inutilmente) a destra e tagliò le tre corsie della Prenestina mentre la sua testina, per via dell'andatura disarticolata, disegnava nell'aria una curva sinusoidale; sotto un pino che ombreggiava la luce già fioca del lampione, s'infilò abbastanza svelto nell'apertura fra due tratti di guard rail per acchiappare il tramvai grosso, verde e vecchio che sopravveniva nell'altro senso, incurante di quello che lo schiacciò all'istante senza avere tempo di scampanellare: la sua pesante scarpa ortopedica rimase infissa nello spacco fra rotaia e asfalto mentre il mezzo si portava dietro la gamba tranciata, il corpo ruzzoloni col ventre aperto e la testa frantumata dal peso di una ruota da cui era esploso fuori un occhio... quello a posto. Niente di quanto rimasto era buono per l'espianto. A pochi metri, in un seminterrato uguale a tanti, un visetto indio era subito tornato a sorridere.
 
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Nooo... pensavo che di lì a poco gli sarebbe arrivata la tredicesima e se la sarebbe spassata con la meglio russa sulla piazza...
Spero che stavolta, in questa storia, non ci sia il fondo di verità di cui si parlava in altro racconto.
Complimenti davvero.
Ossequi.
 
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"Tranzilvania, Tranzilvania bitteee!"
Il pasticcio

Casimiro Trequarti, detto Sganga, ebbe natali nel 1967: l'anno del golpe dei colonnelli, della guerra dei Sei Giorni e del suicidio Tenco. Nacque prematuro sull'altopiano di Arcinazzo, in un ricovero di fortuna dove suo padre – pastore di un nutrito gregge – ebbe l'idea di portare la moglie gravida per sollevare le sue pecorelle dall'incombenza di servirgli da sfogo, abitudine che molte aveva ridotto in stato di patimento e fatto ammalare. La venuta al mondo di Casimiro aveva guastato le sue intenzioni. All'occasione, avrebbe sempre fatto pesare sul capo del fanciullo la mezza dozzina di ovini che quella nascita intempestiva aveva condannato a morir di trauma.
Non importa descrivere un'intera vita e le vicissitudini per cui ritroviamo Sganga, all'età di 49 anni, impettito di fronte ad un cancello rococò di dubbio gusto nell'estrema periferia romana, nel mezzo di uno di quegli insediamenti abusivi cresciuti in piena campagna nel dopoguerra, costruzioni in economia distanziate una dall'altra da qualche lotto di terreno lasciato incolto o adibito a deposito di ferrame e mattoni per sopraelevazioni da farsi e mai fatte. Attorno a lui, tutto racconta la storia recente della città: la campagna che smette di essere campagna per mano di pastori abruzzesi e ciociari venuti a vendersi come manovali e che hanno messo in piedi, pian piano, baracche, casupole, casette e infine palazzine ineguali, sognando di costruire un giorno un piano in più per i figli... tutto racconta di uno Stato che garantisce l'impunità al denaro e a quanti si comprano la periferia, un pezzo dopo l'altro... se non tutto, molto racconta il gusto osceno e ridondante di chi incrosta di marmi e dorature le catapecchie di una volta per ostentare la propria ricchezza, la propria presenza, il proprio potere... e allora – lo si capisce bene – lì attorno si piangono i tempi in cui i nomadi erano nomadi davvero... tutto racconta di mutamenti recenti, di nuove immigrazioni, di cingalesi, bulgari e rumeni (rumeni soprattutto) che rimpiazzano gli abruzzesi e i ciociari di una volta
Eppure, un tempo questo era un tratto nobile dell'agro romano: su un lato della piana, qualche sasso racconta ancora di una città più antica di Roma che – tradizione vuole – insegnò la scrittura agli stessi Romolo e Remo... ma di questo, Sganga se ne fotteva e strafotteva e pensava, casomai, al traffico che l'aveva snervato sulla consolare e a sfogarsi con una puttana. L'aveva pizzicata giovane: una gnappetta tinta col grugno da zingara... ma che pure non è di quelli... è roba estera, robetta dei Balcani, giovane giovane. Per telefono, a parlare parla bene... speriamo che scopi bene uguale... me l'ha fatto venire duro con quella vocetta da zozza... zozza ma remissiva... che se prooccupa se vado, se nun vado... ma nun te sta a preoccupà! che pe' famme 'na pelle arivo 'n culo a ddio figurate in quer posto der cazzo.
Sganga, cresciuto a botte e vino, è uno di quelli che pensa di non aver nulla da temere da nessuno. Guarda il citofono, guarda i nomi sul citofono e fa un passo indietro, due passi, si gira e rovista nella tasca dei pantaloni: cerca le chiavi della macchina per andarsene. Poi ci ripensa. Gli torna a mente la telefonata che aveva fatto alla ragazza, le sue risposte dolci, la sua parlata accomodante, spontanea... persino certe sue punte di dubbio... mo' me vado a perde 'na bella scopata pe' 'na paura der cazzo... io... io... che nun c'è d'avè paura de 'n cazzo perchè se stà llà è pe' lavorà... e mica rompono 'r cazzo a quelli che glie vanno a portà li sòrdi 'mbocca... anzi. E tanto pensa, tanto si tranquillizza. Intasca la chiavi e suona alla porta. Lo aspetta un giardinetto in prato inglese curatissimo che enormemente contrasta con quanto gli è vicino lungo la strada, lo aspetta un palazzetto tirato a lucido fuori e dentro, ferri battuti, legni masselli, marmi di Carrara... non il travertino con cui si fanno belle a poco prezzo le cose brutte... il bianco statuario che avrebbe fatto gola al cavalier Bernini che non ne disponeva a desiderio quand'anche doveva ritrarre pontefici e cardinal nepoti.
Sganga trova la porta e, dietro la porta, la ragazza ad aspettarlo. Le getta un rapido sguardo e si ferma ad osservare quel tratto di casa muovendo la testa da destra a sinistra e poi ancora a destra, come se stesse ammirando un vasto panorama dall'alto di un picco... ma è un panorama di desolatezza quello che vede: nel mezzo del salone-cucina un grosso divano-letto aperto e disfatto galleggia su un mare di rifiuti... bottiglie di birra, cicche di sigarette in terra, piatti di plastica smerdati di sugo... o sò profughi o se sò divertiti 'mbotto ieri... pensa, ma la prima intuizione spesso coglie nel giusto. La ragazzetta l'indirizza svelta nella camera affianco per risparmiargli, quanto possibile, lo spettacolo di squallore. Di qua dalla porta, mobili del ventennio yuppie e un letto – quello almeno – in ordine. Sganga fa cigolare la rete sedendosi e guarda finalmente la sua preda un poco meglio: se ne sta ritta, le mani in tasca nella grossa felpaccia di un paio di taglie più grande della sua, fuseaux in tinta (ma tutti i grigi sono in tinta un con l'altro) e ciabattone pelose. Ha i capelli sciolti, tinti di biondo e sfibrati, la cui vistosa chiazza di ricrescita nel centro del cranio si intona meglio del resto alla sua carnagione olivastra, un marroncino tenue che ricopre i suoi tratti stondati.
Quanto vòi?... cinquanta ma c'è pure amica mia che fa uguale cinquanta... e Sganga ci rimane perché non gli era capitato mai che una mignotta cercasse subito di sfilarsi in favore di un'altra. Nell'immediato, sente il suo orgoglio ferito: si credeva, se non un bell'uomo, almeno un uomo decente, decoroso senz'altro, ma la ragazzina pare volerlo evitare. Nel volgere di un attimo, questa sensazione spiacevole muta immancabilmente in curiosità... curiosità per come sarà questa amica... come sarà mai... magari è meglio de questa qua... prima fammela vedé l'amica tua... e la ciotoletta se ne va di là a fare le ambasciate. Torna dicendo che per l'amica cinquanta va bene... ma Sganga questo l'aveva già capito, già lo sapeva... no, fammela vedè 'st'amica se mme piace... e ruzzola di nuovo fuori a far da tramite. Sganga smette di rotolare le chiappe nel letto che fa rumore e appizza le orecchie... e sente una voce maschile... e crede che oltre alle ragazze ci sia qualcun altro a dirigere le trattative insolitamente lunghe. E si preoccupa.
Ritorna la gnappetta con l'insolita nuova... l'amica mia dice che è trans... ma è scema questa? ma che nun ce lo sapeva prima ch'è 'n trans? ecco il perché di quella voce maschile. E si preoccupa il doppio. Non che abbia paura dei trans: ha paura dello strano abbinamento. In una casa di trans a Centocelle, al Pigneto o a Torpigna, in un appartamento pieno zeppo di trans da non potersi sedere a terra, si sentirebbe un pascià in un giardino di delizie e di piaceri... ma lì, in quella casa, con quella ragazzina, gli pare innaturale... innaturale e pericoloso... no, vabbè... vai bene te... tiè... e le molla cinquanta euro che la piccoletta, lesta lesta, s'affretta a portare nella stanza accanto, al trans.
Quando si riaffaccia, ci tiene a mettere le cose in chiaro... no me levo la parte sopra che ce lo fredo... dai mica fa tanto freddo, qua se sta bbene... no io ce lo fredo no tolgo... e Sganga allora la guarda meglio, infagottata in quella felpona consunta, e gli viene il dubbio che abbia qualcosa da nascondere, qualcosa di cui vergognarsi. Puttanella, perché fai tanti problemi? perché tieni gli occhi bassi?... pensa Sganga e, nel mentre lui armeggia con zip e bottoni, lei litiga col profilattico imbustato e solo allora vede... vede... nota... per la prima volta... e capisce... che qualcosa non va in lei. Le mani che ha finalmente tirato fuori ambedue dalle tascone laterali non sono come dovrebbero essere, non si muovono liberamente... così le braccia, che paiono bloccate nelle articolazioni ad angolo retto... un arto più piccolo dell'altro ed entrambi più piccoli della norma in rapporto al resto del corpo.
Sganga, bocca tralasciata aperta per lo stupore, guarda fisso quelle manucce pietrificate nel gesto di Pulcinella che unisce le punte delle dita alla punta del pollice... o nel gesto del maschio che vuol ficcare tutta la mano in una fica... guarda quelle manine malformate tentare, con difficoltà, di strappare la bustina del preservativo e la ragazzetta scuotere i gomiti ottusi a destra e a sinistra perché manca loro il movimento, così come ai polsi... e gli viene da pensare che... no... una mignotta handicappata non gli era mai capitata... proprio mai... e non se lo aspettava e non poteva aspettarselo... e gli passava per la testa come cazzo aveva fatto a finire in quella casa con un trans e una focomelica e gli passava la voglia di far qualsiasi cosa e voleva soltanto andarsene da lì... no, guarda... lasciamo stare... me ne vado... ridamme i sòrdi che me ne vado... e più la guardava, più si fissava su quelle braccette che sembravano alucce di pollo, pari pari a delle alucce di pollo, e tutta la ragazza – con la felpona gonfia e le braccia a zigo-zago – gli sembrava un pollo spennato come si vende al supermercato... una vittima.
Soldi no se ridàno... dai, su... tiette venti euri pe' 'rdisturbo che me ne vado... soldi no se ridàno, tu me ai disturbato tu sei venuto qua e soldi no se ridàno niiiente... e Sganga perde anche la voglia di discutere e non ha interesse a discutere. È dove è, affianco c'è chi c'è, davanti ha chi ha davanti. Gli viene rabbia e gli viene pena, una gran pena... per quella situazione, per quella ragazzina malforme... soprattutto per lei. Non dice più una parola: si fa aprire (e sa che i cinquanta euro sono il prezzo per il click del cancelletto elettrico) e fila via guardandosi le spalle. Rivede i marmi, rivede l'erba rasata e verdissima da cartolina, rivede la sterpaglia al bordo della strada, s'appoggia col braccio steso ad un muretto e vomita in terra tutto quello che ha in corpo. Rivede anche il pasticcio di patate e carciofi che tanto gli era piaciuto.
Per andare a mignotte ci vuole buona vista e un gran pelo sullo stomaco. A Casimiro, una manca e l'altro gli è caduto.
 
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OscarDabagno

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Il Bukowsky der buco Capitolino che ci mostra l'estrema propaggine dello squallore punteristico!!!
Spettacolare anche l'analisi sociologica del tessuto urbano periferico.
Io mi levo il cappello e son sicuro che stavolta la storia ha ben più di un fondo di verità.
Saluti,
Oscar
 
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"Tranzilvania, Tranzilvania bitteee!"
Il silenzio è d'oro

Guardandosi allo specchio, l'uomo dà due veloci colpettini di dita ai capelli appena sopra l'orecchio, prima il destro, poi con più decisione il sinistro. Allarga un poco le narici, reclina appena il capo per guardarci dentro perché aveva sentito qualcosa dargli fastidio e tuttavia si trova in ordine. Si slaccia e poggia l'orologio sul comò. Tolta la giacca, si sbottona la camicia partendo dall'alto. Volta le spalle alla stanza; volta le spalle alla ragazza che se ne resta nel centro della stanza, a distanza, le braccia calate, le mani strette l'una all'altra all'altezza del pube. Non sa che farsene, adesso, di quelle mani che poco prima aveva steso verso lo sconosciuto in segno di saluto mentre gli si presentava sorridente e civettuola e l'invitava ad accomodarsi. Una cosa aveva ben chiara e l'aveva appresa in quegli anni di mestiere: l'immagine che si rende di sé nei primissimi secondi di un incontro è decisiva. In quell'interstizio di tempo in cui la porta si apre e ci si guarda, il cliente sceglie consciamente o inconsciamente se restare o tornarsene per i propri passi; tutto sta a fargli fare qualche passo in avanti, a toglierlo di lì, a non inquietarlo, indispettirlo, deluderlo o cos'altro passa nella testa di un puttaniere in quei millisecondi. Aveva anche imparato che si può essere belle o bellissime femmine da squarto, arrivate fatte e perfette a vendersi a qualche uomo, ma quello che rendono in soldoni sonanti due sedute dall'estetista non lo rendono due sorrisi messi al momento giusto. Un po' di savoir-faire ci vuole – pensava – ed è con questa intenzione che aveva rimesso in scena il proprio canovaccio di presentazioni cordialissime, magari un po' meccaniche, magari un po' affettate ma comunque semplici ed efficaci, anche con quest'ultimo cliente. L'aveva affinato, smussato, levigato in decine e decine di incontri fino a farne un insieme compatto e inattaccabile di convenevoli buono per tutte le stagioni: il giovane, l'attempato, l'uomo di mezza età; buono per l'impiegato e per lo sfaccendato, per quello che si presenta in tuta per trasandatezza o per fingere tonicità come per l'incravattato che va a trovarla appena staccato dall'ufficio. In decine e decine o centinaia di incontri – non che abbia mai voluto contarli – non uno che avesse trovato da ridire sulle sue maniere; l'incontentabile o il sognatore di non so quale porno-porcata lo si trova sempre, per carità, ma contro i miei modi proprio no, nessuno nessunissimo.

Su questo rifletteva la ragazza, composta e conserta, mentre strato a strato lo sconosciuto si toglieva i panni di dosso, e su come avesse risposto al suo caldo «ciaaaaao» in tonalità media – né troppo piano da far trapelare insicurezza, né troppo forte da rimbombare fra i pianerottoli – con uno sguardo che non saprebbe descrivere se d'angoscia o di stupore; forse di fastidio, sì, senz'altro di fastidio pensava, altrimenti non se ne starebbe lì ammutolito a piegare e a riporre in piano il vestiario come un prete fa col tovagliolo delle ostie dandomi la schiena... pelosa... uff... mai uno che si tenga come si deve, e io che per far reggere le chiappe devo strasudare in palestra due volte a settimana e non sai quanto ci rimetto che non posso fare incontri... ma se non lo facessi verebbero in meno a trovarmi e allora sì che ci rimetto... e mentre i suoi pensieri si mordevano la coda, la ragazza ragionava sulle minutaglie di poco prima, su come quell'uomo fosse rimasto fermo entro gli stipiti e su come si fosse mosso soltanto quanto, ritratta la mano fra perplessità e frustrazione, si era di poco accostata al muro. L'aveva scartata in velocità senza volgerle la faccia, puntando filato all'ultima stanza come se conoscesse già dove andare a parare eppure – giurava e spergiurava in cuor suo – era la prima volta che quell'uomo le entrava in casa... ma forse che le case delle prostitute non sono tutte uguali? ma forse che il cesso non è sempre l'ultima porta a destra? e la stanza del trombo (il gergo un po' la stomacava ma ormai non poteva fare a meno di pensare in certi termini dopo averli letti e riletti e riletti ancora) è sempre quella in fondo al corridoio, la meglio illuminata se non l'unica illuminata. E allora si tranquillizzò, o almeno si sforzò di farlo. S'accorse allora che le dita, che teneva contratte forte forte per il nervosismo, iniziavano a gonfiarsi. Sentiva stringere gli anelli. Inspirò profonda e sospirò. Infossò col proprio peso un bordo del materasso mentre l'uomo, rimasto in calzini e mutanda, faceva lo stesso sul bordo opposto rotolandosi poi supino.

Il respiro gli muoveva appena il petto incavato, cosparso di pelame nero ravvoltolato, ma il ventre – quello sì enfio, glabro, prominente – glielo sommuoveva letteralmente cosicché la ragazza guardava ipnotizzata il montarozzo gonfiarsi e sgonfiarsi e le pareva di assistere una gestante alla fine del suo tempo ma senza i complimenti o il cordoglio per la riuscita o la malriuscita, senza i sudori, gli stremìpiti e i tremori... almeno per ora e così si augurava anche per il prosieguo perché nella lista delle secrezioni dei suoi clienti che maggiormente le ripugnavano il sudore era appena dietro lo sperma e poco sopra la saliva dal momento che di gente che in quei momenti facesse la cacca ancora non le era capitata mai e meno male – pensava – che ci manca solo quello che già il lavoro è quel che è e bisogna avere lo stomaco forte per sopportarlo, e il pelo sullo stomaco per tirare avanti e farlo.. e fare... ma cosa? se questo non parla e non dice cosa vuole, che gli faccio? Il mestiere tuttavia lo conosceva bene, gli uomoni pure e il da farsi era più o meno sempre lo stesso: una mano là, un po' di bocca, un paio di posizioni e come vengono vengono... e aivoglia se vengono... è quando non vengono che è un problema, che magari all'età loro si sono sofisticati con qualche pillolina e allora tocca perderci tempo a smucinare, baciare, toccare che alla fine mi si indolenzisce il polso e mi si guasta l'umore per tutto il resto della giornata. Gli toccò il pacco fino a sentire qualcosa di duro, gli calò gli slip – orribili quanto mai e sudici, o almeno così le sembravano – e smozzicò l'angolino della confezione del preservativo per tirar fuori l'unica cosa che nella stanza profumana... oltre a lei, ovviamente... ne allargò l'orlo inferiore con quattro dita per calzarglielo a schiocco, ne strofinò la punta con un fazzoletto come Aladino con la sua lampada e gli mise le labbra attorno. Quanto avvenne dopo non si discostò in nulla da quanto s'era immaginata di fare o dover fare: a cavalcioni, a quattro zampe, schiacciata dal peso altrui. Niente di nuovo. Niente di strano.

Niente di nuovo. Niente di strano. ...se non fosse che tutto s'era svolto in un silenzio raro e inverosimile che rendeva cristallina l'aria nella stanza e che le straniava la mente. I suoi primi mugolii di circostanza non avevano avuto l'accoglienza che sperava, si era adattata a quelli che credeva fossero i desideri del cliente e s'era quindi fatta muta, totalmente muta, e stando a cavalcioni le era sembrato di galleggiare nell'inconsistente atmosfera lunare, e restandosene ferma sotto il peso di lui si era sentita come compressa dalla gravità di un qualche gigantesco corpo planetario esterno al nostro sistema il cui nucleo di vorticoso metallo fuso la richiamasse a sé. Impedita a muoversi, aveva fatto fare e adesso che è tutto finito rassetta il letto, spiana le pieghe del lenzuolo, sprimaccia i cuscini mentre ascolta lo scroscio inframmezzato dell'acqua dal rubinetto nella stanza affianco e ripensa al cigolio delle molle e al respiro strozzato che tratteneva in gola e rimpiangeva quasi d'aver messo i doppi vetri alle finestre così privandosi del chiasso e quindi della vita veritiera della strada... per riservatezza e coscienza, certo, più che per il consumo dei caloriferi... ma due colpi di clacson e un vociare confuso le avrebbero alleviato non poco quel senso d'alienazione che ancora si sentiva addosso guardando (o meglio, sentendo) l'uomo rivestirsi con movimenti cadenzati... una zip che si chiude, il tenue clangore della fibbia, il tintinnio delle chiavi afferrate e rificcate in fondo ad una tasca... e le stecchette degli occhiali che pigolano nel riaprirsi. Un gesto, un cenno... sì, forse è un cenno di saluto quello le fa con la man destra prendendo l'uscita... o forse un tic... in fondo le piace di più crederla una forma larvata di commiato: le solleva l'animo.

La solita routine, le solite sgroppare, il solito sesso... a volte smielato, a volte forastico, incipriato, parruccone, teatrale di bassa lega, di buona lega, resistente flaccido collerico svogliato metronomizzato ficcante scialbo; due, sette, quindici facce nuove e meno nuove, scoperte, scopate e rivisitazioni sul tema... vattele a ricordare tutte che sempre due occhi, un naso e una bocca c'hanno... e due borraccette da vuotare... fortuna vuole, con me. Ma non solo fortuna. Impegno ci metto... se non passione, impegno... è innegabile e nessuno me l'ha mai negato. Un'altra visita, un altro ingresso, un altro volto... il solito caldo «ciaaaaao» della ragazza riversato nell'aere in tonalità media – né troppo piano da far trapelare insicurezza, né troppo forte da rimbombare fra i pianerottoli – rimbalza su uno sguardo che non saprebbe descrivere se d'angoscia o di stupore; forse di fastidio. «Come l'altra volta va bene». La connessione mnemonica fu immediata: si ricordò quella faccia... no, sarebbe insincera: la faccia proprio non se l'era ricordata... si rammentò quel silenzio... no, è impreciso: le venne alla mente più che altro il suo imbarazzo... si ricordò che doveva starsene zitta se voleva conservarsi buono il cliente, ecco cosa si ricordò. Non sciorinare smancerie, non intavolare discorsi, non fare domande: soltanto fare, fare e basta. Come la volta prima. Come le volte dopo, quando quell'uomo verrà a trovarla a cadenze regolari per consumare e consumarsi, entrare spingere e schizzare, lavarsi vestirsi e andarsene. Se sulle prime la ragazza l'aveva giudicato con timore, una specie di demente o di pervertito o di maniaco, pian piano aveva preso confidenza con quella sua assoluta mancanza di confidenza e se ne restava reclinata placida sul letto ad osservare certi rituali di ritiro ed il modo tutto suo di rimettersi in ordine e di riappropriarsi degli oggetti che gli pesavano nei vestiti.

E se da principio i pensieri della ragazza erano tutti volti con preoccupazione alle anomalie di quel cliente, a indagare con l'occhio fisso qualche segnale esteriore che potesse rivelare il mondo delle intenzioni, delle emozioni o – perchè no? – degli affetti che si teneva pigiati dentro, pian piano rigirò sempre più l'attenzione su se stessa cosicché quei cigolii, quelle improvvise collisioni ciaffettanti di pelle, quei tintinnii di metallo presero a stimolarne l'introspezione come fossero mantra involontari e allora si chiedeva e si domandava e valutava cosa l'avesse condotta dove era. Ne cavava poche risposte o forse nessuna – nessuna risolutiva senz'altro – ma il riconoscersi per domandarsi le sembrava di già una conquista positiva e se guardandosi indietro ancora non ritrovava il crinale da cui era scivolata sin lì, di lontano scorgeva i frastagliati contorni dello spartiacque come immersi in un bagno capovolto di nuvole. Se non passasse, il tempo non sarebbe tempo ma un momento eternizzato: giorni, settimane, mesi – speranze, scadenze, realizzazioni – e quando l'uomo bussò alla porta che gli era divenuta familiare una prima, una seconda e una terza volta con più insistenza, nessuna rispose e nessuna aprì, nessuna lo invitò ad entrare e nessuna gli si offrì in un silenzio piombato. Uscendosene dalla palazzina, rigiratosi con l'umore rigirato e fatto il rapido calcolo dei piani e delle distanze, adocchiò ad una delle finestre che aveva preteso fossero sempre chiuse lo striscione AFFITTASI di un'agenzia immobiliare. Il chiasso della via lo irritava più di quanto già non fosse; per occupare quel tempo che non doveva avere libero, non trovò di meglio che comprare un kebab di pollo – molto piccante e senza salsa yogurt – e andarselo a mangiare sull'ultima panca di una chiesa. All'ora debita, chiamò un taxi per andare al lavoro.

Presentò l'accredito, ritirò il pass, prese posto, provò schermi e cuffie, verificò fruscii e rimbombi di ritorno e tirò fuori una piletta stropicciata di appunti che stiracchiò lento sul banco premendola da sinistra a destra col palmo della mano, e quando dovette iniziò «grazie Ciarfoli, un saluto a tutti i radioascoltatori dallo Stadio Arechi dove fra pochi minuti prenderà avvio il posticipo pomeridiano del campionato di Serie B fra la Salernitana e l'...» sentiva il palato disseccarsi, spremeva a forza i polmoni col diaframma prima di riprendere finalmente fiato ma per un millisecondo soltanto «...a sorpresa Santomartini schiera in porta Cravetti; la difesa è formata da Castroni Martini e dall'ivoriano Fenghò con Mastironi a supporto della mediana di centrocampo in cui Ruffo opera da perno per i compagni Gialletti e Cur...» e avvertiva ogni parola come un peso, come un grumo di catarro che tocca sputare fuori ma che, per quanti sforzi si facciano, rimane attaccato al fondo della gola invischiando le mucose «...intercetta il bel filtrante di Versaccia e smista rapido la palla al compagno...» roteava gli occhi per seguire il gioco, li abbassava rapidissimi per consultare gli schemi e le statistiche che si era appuntato con diligenza, ma il sottofondo di cori, grida e mortaretti che gli arrivava ai timpani attutito dalle cuffie gli strigliava i nervi «Sorgolon si accentra e rilascia un tiro potente quanto eccentrico che sfila di un paio di metri a lato dell'attento port...» non ne poteva più del vociare delle panchine, degli incitamenti dagli spalti, degli strepiti... soprattutto, non ne poteva più di ascoltare la propria voce recepita, masticata e riversatagli nelle orecchie dalla macchina cui stava attaccato...

...non ne poteva più degli odori di zolfo e combustione chimica, delle gocce che sentiva cadere sugli avambracci e che non sapeva se essere pioggia o sputi, delle mosche che gli tormentavano la pelle poggiandovisi sopra alla ricerca di calore o del mangiare «...le due squadre si affrontano maschie attorno al cerchio di centr...» e pensava a quanto fossero invadenti le mosche a fine stagione, peggio che d'estate, molto peggio, perché sentono avvicinarsi l'ultima ora e si fanno frenetiche, ingorde di vita fino allo spasimo, fino a morire di quella voglia di vita «...rendo la linea allo studio per la messa in onda del primo brevissimo spot pubblicitario». Aveva un minuto scarso per ripigliare fiato: gli sembrava un patrimonio e iniziò ad assaggiare l'ossigeno e a goderselo e a prenderselo a manciate allargando il torace quanto più poteva. Sul banco, una macchiolina nera gli colpì l'occhio. Arrotolò gli appunti, alzò il braccio lento come la statua d'Ercole con la clava e lo calò con tutta forza «fanculo stronza» disse al grumo di zampette attorno ad una goccia gialla viscosa, ma non era di una mosca soltanto... erano due, una attaccata al culo dell'altra... una vita intera a girare a ronzare e a dare fastidio agli altri – pensò – e l'unico momento in cui stanno buone per i cazzi loro è quando scopano... e gli dispiacque di non averle lasciate fottere in santa pace «...nel periodo non collegato, Gialletti ha raccolto il suggerimento sulla sinistra di un compagno scattando...» e nuovamente si sentì in debito d'ossigeno e presto si sentì in debito col Padreterno per la casa che gli aveva sporcato di macchie di grasso ostinato e per le creature che gli aveva ucciso mentre si stavano amando e moltiplicando secondo la sua volontà. Il rumore gli divenne insopportabile, la sua voce anche gli divenne insopportabile «...su cui mai il pur bravo Cravetti sarebbe potuto arrivare scheggia il legno...» e sperò e sognò che il mondo tacesse all'unisono, lui compreso, in un gigantesco silenzioso amplesso.
 
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Pane al pane

«a mme me ce metti i pomodori secchi, du' melanzane, 'oolive snocciolate, 'mpo' de' funghetti e... crauti cipolline... abbonda! cch'è qu'à micragna? daje... checiapmaionesessenape enoschizzodetabbasco»
Quattro euri. Prima lo faceva tre euri e cinquanta. Una volta costava cinquemilalire.
Franco pensava a cosa potesse essere cambiato nel frattempo. Forse che c'è stata una morìa di piantine di pommidoro o che il sole ha seccato le melanzane, ma se il sole era forte le olive dovevano essere tante e a poco prezzo, con risentimento tuttavia dei funghi che pretendono l'umido; o magari un qualche cataclisma ha spazzato le pianure tedesche e polacche ma di notizie del genere non se ne ricordava e se è vero che legge solo il Corriere (e a Roma il Corriere è quello dello sport e basta) se c'è qualche disgrazia il Corriere un appello o un'iniziativa o una colletta spesso la fa e se non ci aggiusta i guai del mondo almeno una mezza pagina ce la riempie quando non c'è altro di cui parlare e comunque in curva uno striscione per le gemellate l'avrebbero fatto e bello grosso che si sarebbe visto pure negli highlights.
Dieci metri sopra la sua testa, treni sferragliavano sulle rotaie ruzzonite per chissà dove. Non li vedeva ma li sentiva, sentiva il riverbero metallico dei cavi grattati dal pantografo, rumore cui mai s'era abituato e che sempre lo sbalordiva per la sua innaturalità e ogni volta si chiedeva se dipendesse dall'alta tensione che ci passava attorno o dai tensori o da quegli altri aggeggi che sembravano grossi fusilli ma di plastica e si domandava se staccando la corrente facessero lo stesso rumore oppure no ma si rispondeva pure che senza corrente il treno non si muoveva e i cavi neppure si muovevano ma gli restava la curiosità, un giorno, di fare la prova e spingerci a forza una locomotiva per separare una causa dall'altra e scartare quella sbagliata perchè questa è una cosa che magari uno scienziato non s'è mai chiesto (o almeno Franco non l'ha mai saputo) ma che merita di avere una soluzione chiara e definitiva.
Una zampa mezza sollevata, appoggiata la suola sul paracarro, Franco morsica la pagnottella che schiuma salse e sbratta olivette e gambi di champignon. Due rivoli arancioni gli colano su un lato e l'altro del polso destro mentre il mignolo della sinistra, tenuto alzato, pare indicare la sfilza d'arcate a tutto sesto dell'antico acquedotto dei romani. Forse è aumentato il gasolio che manda avanti il generatore e col generatore le lampadine e le piastre per le salcicce, pensa non dandosi pace per quel che gli è costato lo spuntino, o forse si è impennata l'assicurazione del furgoncino o i costi della licenza se una licenza ancora esiste per questo genere di commercio da strada o ha dovuto impolpare le tasche di qualche impiegato dell'ufficio d'igiene se c'è un ufficio d'igiene e se è tenuto a fare controlli e a contare quanti diti di zozzuma ci sarebbe da raschiar via dal linoleum colle bolle antisdrucciolo che a malapena s'indovina se ci si affaccia dalla porticina che sta dietro.
L'asfalto è tutto puntinato di larghe chiazze chiare irregolari e Franco si chiede se siano più quelle dei passanti del giorno che buttano a terra la cicca da masticare o quelle dei perdigiorno della notte che sputano la gomma prima di addentare un panino come il suo o meglio del suo perché adesso non è poi tanto sicuro che il paninaro sia lo stesso da cui è sempre andato perché quello i panini gliela faceva a treeuroecinquanta mentre questo vuole quattro euri e non è che uno può alzare i prezzi così, da un giorno all'altro, anche se in verità erano almeno tre anni che Franco non ci metteva piede a Porta Maggiore che poi è quello che succede sempre in città, che uno pensa di conoscere tutto ma poi non ci va mai convinto che tanto già conosce tutto e non è che si rubbano la piazza che tanto quella sta sempre là e se uno vuole andarci basta che ci va e la trova para para a come l'ha lasciata.

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«cinquanta boccafiga, boca senza setanta, culeto centocinquanta... culeto fa male, no facio meno... venire su corpo o tete, no facia no boca... setanta faceamo una cosa trancuilaesensafreta»
Settanta euro. In strada lo faceva per trenta euro. Una volta chiedeva cinquantamilalire.
Iasmina pensava a cosa fosse cambiato in meglio nella propria vita da quando, dalla strada, aveva fatto il grande salto all'appartamento. Forse le ginocchia le fanno adesso meno male, i piedi non sono più gonfi come prima e il freddo lo patisce meno, sempre un po' lo patisce perché il riscaldamento costa caro e la stufetta elettrica l'accende solo quando qualcuno viene a scoparla e allora la punta dritta dritta verso il bordo del letto ma un po' le manca l'aria fina della notte, quando il traffico è sparuto e i camion hanno smesso di sgasare e le persone non sono più persone ma lucine che passano e ripassano e galleggiano nel buio profondo e che sfarfallano lontane dopo essere venute vicine, per curiosità o perché all'ultimo momento manca loro il coraggio d'accostare e far vedere la faccia – la faccia vera e non solo la targa – e parlare di cifre.
Poggiati gli avambracci sulla balaustra, le mani le penzolano nel vuoto come due fioriture di glicine mentre guarda dabbasso la piazza rafferma, svuotata, solcata dai binari del tram come rughe di un volto, e nel mezzo le mura incupite di mattoni che disegnano archi nel cielo dietro cui corrono a nascondersi le nuvole che l'oscurità della notte non nasconde abbastanza e anche lei vorrebbe correre e correre, non a nascondersi ma a mostrarsi a tutti sfavillante e desiderabile e invece le tocca starsene rinchiusa ad aspettare una telefonata e aspettare e aspettare ancora e respirare l'aria della stanza seccata da una serpentina rossa incandescente e guarda e vede lontano i treni passare filati coi finestrini illuminati che le sembrano uguali alle pellicole che giravano a vuoto alla fine del film quando c'erano ancora le pellicole e quando la sera poteva ancora uscire a divertirsi.
Imbambolata, poggia il mento su un palmo e ci sente sopra l'odore acre dello sperma dell'ultimo cliente e pensa che se non riesce neanche a lavarsi per bene le mani difficilmente riuscirà a ripulirsi la coscienza da quello che fa per campare e un giorno lasciarsi tutto alle spalle e tornare ad essere donna per le altre donne e moglie per suo marito e soltanto una donna, una donna soltanto, agli occhi del mondo che per quanto ruzzola inconsapevole nell'eternità dell'universo la squadra in cagnesco – o così le pare – pigola, giudica e condanna come se le anime non dovessero sperdersi come cenere al vento o fondersi al nulla ed essere nulla ma ripopolare di battibecchi pure il cosmo incorporeo che dev'essere poi l'idea della signora del terzo piano che a furia di lamentarsi col padrone di casa gli ha dato una bella scusa per aumentarle la pigione.
All'angolo opposto di quel grosso vuoto su cui gravita Iasmina, gente di ogni razza a tarda ora si riempie la pancia davanti a un camioncino. Si ricorda di quanto cenava quasi ogni sera allo stesso modo, davanti alle stesse luci che seppure non erano quelle precise erano simili in tutto, e quand'era stanca o troppo impegnata o non trovava un passaggio all'ora giusta qualcuno immancabilmente le si presentava con una pagnottella ravvolta nella sua carta oleosa, bianca/trasparente e sgocciolante, un po' per chiaroveggenza, un po' per telepatia, un po' perché a forza di lamentare la fame e la debolezza e i brontolii di stomaco con tutti i clienti della sera un ometto che si muovesse a tenerezza alla fine scappava fuori e se per qualcuno era un modo d'ingraziarsela nella speranza di farle fare qualcosina in più o di pagare qualcosina in meno, per Iasmina era un dono che accoglieva famelica senza sentirsi in debito di nulla.

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Il telefono di Iasmina squillava ma, assorta com'era e annoiata e stanca com'era, non se ne curava affatto. Per quella sera, per quella sera almeno, aveva chiuso bottega.
Franco, buttata nel cestone la pallottola di carta acetata, chiamava e richiamava una puttana che non gli rispondeva. Per quella sera si rassegnava a non fottere.

A Iasmina era venuta voglia di riabbracciare il passato. Vestita alla male e peggio, inforca gli occhiali e prende l'ascensore per filare dritta dritta dal paninaro.
Franco sente il bisogno di allungare la broda di una serata amorfa con un'altra birretta. Gli scoccia più quel che deve fare (andare a casa) che quel che non ha potuto fare (scopare).

Li ritroviamo entrambi in fila davanti alle luminarie del bancone di vetri impataccati: carciofini li guardano affogati nell'olietto di certi barattoloni che a snasarli fanno senso; zucchine grigliate a striscio nei loro vassoi di plastica e cipolle fatte a fette su un tagliere annerito si fanno beffe di loro e dell'insalata sconcia finché tutte non finiscono ad imbottire il panino di Iasmina assieme a una salsiccia i cui fumi s'alzano, si piegano, giravoltano oltre il tendame dopo aver sbuffato in faccia al cuciniere e a Franco che non trova il tempo di chiedere la sua birra. Trova però il modo di guardare le chiappe di Iasmina, la linea flessuosa del dorso e le vertebre che fanno capolino da sotto la maglietta belle come le ondeggiature del keris e i cerchi d'oro che porta ai lobi grossi più degli anelli di cipolla che gonfiano il pane e che le guasteranno l'alito come scoprirà quando le toccherà dire qualche cosa.
Iasmina sa di essere guardata e sa di essere desiderata perché alle donne certe cose non c'è mica bisogno di dirle e le capiscono da loro benissimo e persino prima ancora di chi scava loro dentro con l'occhio vitreo dell'uomo sazio. Non vede perché non gli volge lo sguardo, ma sente Franco che si fa i suoi pensieri su di lei, sul suo culo, sulla fichetta rasata che non ha sciacquato dal lubrificante dell'ultimo preservativo, che si chiede se è di quelle o se non è di quelle e quanto si pieglierebbe per una ficcata al volo perché ha capito che è una di quelle e certe cose agli uomini quasi non c'è bisogno di dirle perché sono fra le poche che afferrano abbastanza bene. Quando il paninaro appoggia la bottiglia di Franco sul bancone, questo si sporge in avanti quel tanto che basta da intruppare sapientemente Iasmina senza infastidirla troppo, quel tanto che basta a scusarsene senza tradire la bava alla bocca e la bavetta all'uccello, quel tanto che basta a sbirciarsi una prima volta in contemporanea.

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Franco non è bello, non ha modi affabili o magniloquenti, non ha charme: ha solo impacci e districa poche parole che è come rammendar toppe sui pantaloni con la federa da giacche.
Iasmina era bella un tempo e ancora si tiene, ma possiede un vocabolario limitato al suo ambito di lavoro e a poche altre necessità quotidiane: si avvale più che altro di intuizione e immaginazione.

Una mangia e l'altro beve, e sono più i tempi morti dovuti al deglutire che gli scambi di parole. Si capiscono l'un l'altra perché si vogliono capire: a forza di parole smozzicate, di gesti e di volontà.
Una tiene il panino stretta a sé e pare tutta chiusa e racchiusa attorno a quello scrigno; l'altro piroetta la bottiglia nell'aria, con pose di apertura all'ambiente circostante, al pianeta e alla donna.

A dieci metri sulle loro teste, sulla massicciata di pietraglia nera nella notte nera e sempiterna svagano i treni in giro per l'Italia, eco metallica e luce intermittente che muovono altrove in accelerazione. Al verde intenso dei semafori, ghirigori di anabbaglianti disegnano traiettorie sull'asfalto rattoppato, saltellando sui binari o sprofondando negli avvallamenti dei romani moderni. Balconi e finestre ghiacciate s'affacciano ciechi sulla piazza e non vedono il chiosco gommato spegnere il proprio caldo cuore di piastra e friggitrice, ritirare le tende e incassarle nella carrozzeria, rilassare il frigo, zittire il generatore e addormentarsi quando tutti gli altri iniziano a svegliarsi. Il secchio della monnezza è pieno, le pance sono piene, la fica di Iasmina è piena in una serata gravida di conseguenze per entrambi. Iasmina ha stretto le mani di Franco incollate di sughi; Franco le ha stretto le sue sporche di seme altrui. Si sono uniti su un cofano nel parcheggio poco distante, coi rami a far loro da tetto, e mai più visti.
Iasmina gli si era data perché quell'uomo non aveva tentato e neanche accennatato ad offrirle il panino, pagando giusto quello che si beveva a canna; Franco l'aveva presa perché erano cinquanta euro risparmiati e un'altra mezz'ora fuori di casa. L'uomo, come un veicolo (e per alcuni lo è un veicolo, un veicolo dell'anima), traccia percorsi su questo mondo che sono scarabocchi di noia su un vecchio pallone. Quelli di Iasmina e di Franco si sovrapporranno un'altra volta, in giorni diversi ma vicini, nei padiglioni sbreccati del San Camillo: l'una, per raschiarsi via da dentro l'amore che non sapeva o voleva amare; l'altro, per leggere nero su bianco, timbrato e firmato da un professorone, che l'amore ti lascia dentro cose che non puoi toglierti mai più. Di loro, soltanto continuano a combaciare due numeri su due telefoni diversi.
 
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OscarDabagno

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Che pennellate d'autore Mega...con vena malinconica finale!
E che ingroppate qualche anno orsono nel parcheggio di Porta Maggiore ben coperto dagli alberi...laddove inizia la Casilina...col sottofondo del clangore dei vecchi tram!!!
Chapeau
 
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Mega, ma sei un talento!!!!!! Bravissimo, veramente!!! Non li avevo mai letti i tuoi racconti, mi fa piacere che un piccolo spunto ti sia venuto anche dalle mie fugaci parole :)
Spero di continuare a leggerne ancora, apprezzo molto!
 
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Ero lì, in mezzo ai racconti. Ero quello che stava ordinando un panino con salsiccia e cipolla e osservava il goffo approccio. Ero il dirimpettaio che scuriosava lo sguardo assorto di Iasmina. Bravo !
 
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Lo aspetto come sempre

Lo aspetto come sempre nell’appartamento che affittiamo per incontrarci. Mi piace arrivare in largo anticipo. Appena entro, mi tolgo lescarpe, cammino scalza per le stanze vuote, canticchio fra me, penso, no, per la verità non penso a niente, ho la testa deliziosamente vuota. Aspetto, ecco. Via via che passano i minuti, sento la gola che si fa secca, le guance che si scaldano e si arrossano, la figa che si inumidisce. Preparo la stanza, con molta cura. Abbasso le tapparelle, tolgo le coperte dal letto, stendo un foulard sulla lampada a stelo, metto la bottiglia dell’acqua e i fazzoletti di carta sul comodino. Mi guardo intorno. Sì, così va bene. Adesso è ora: mi spoglio. Mi spoglio molto lentamente, mi sento pigra, con le ginocchia deboli, la carne tenera. Ripiego gli abiti con cura, li ripongo nell’armadio. Sono nuda. Cammino così, nuda e scalza, in punta di piedi, e quando passo davanti allo specchio mi sbircio, senza fermarmi. Sono bella, sono…sì, “sono una bella figa,”penso, “faccio tirare il cazzo” e mentre penso queste parole sento la figa che si bagna, le gambe che cedono, chiudo gli occhi per un momento, mi stringo forte i seni, ho voglia di toccarmi ma non lo faccio, no, non lo faccio, aspetto. Aspetto. Mi sdraio sul letto, mi rannicchio, chiudo gli occhi, e aspetto,con il telefono accanto, la bocca socchiusa. Quasi mi addormento, ma poi mi arriva lo sms, il suono improvviso mi fa tremare, lo stomaco si stringe, ho quasi paura di guardare, anzi no, ho proprio paura. Guardo, leggo, ci sono le sue istruzioni. Mi sale dalla pancia una vampata di calore, mi gira la testa, apro la bocca e mi lecco le labbra, mi rannicchio a palla, come una bambina…
Eseguo. Mi lego i capelli in una coda alta e stretta, mi allaccio il collare di pelle sottile, nera, morbida, sento lo scatto dei bottoni automatici, tremo, mi guardo allo specchio e penso “adesso lui viene e mi usa, mi usa come gli pare” e mi sento allagare fino all’orlo da una calma perfetta, sono tutta liquida, aperta, pronta.
Mi inginocchio sul bordo del letto, poso la fronte sul lenzuolo, aspetto, chiudo gli occhi e aspetto. Non penso a niente, aspetto e basta. Non so quanto tempo passa, non me ne importa niente. Però tendo l’orecchio, perché devo accorgermi di quando lui entra, per farmi trovare come vuole lui.
Ecco, è la chiave che entra nella serratura, gira, apre la porta. Appoggio il peso del busto sulla fronte, e con le mani mi apro le chiappe, mi ha scritto che quando entra nella stanza vuole vedere bene il mio buco del culo, così mi afferro le chiappe con le mani e le spalanco. Aspetto. Sento i suoi passi, lenti, leggeri. Va in cucina, apre il frigorifero, prende qualcosa, penso una bottiglia, poi apre un armadietto, sarà per un bicchiere, sì, è un bicchiere, sento il tocco del vetro contro il vetro, beve, ripone la bottiglia, chiude lo sportello del frigorifero. Si muove, viene qui. Cerco di rilassarmi,di essere completamente abbandonata, lui così mi vuole, ma sono eccitata, mi vergogno, ho paura, mi sento una troia, è molto…
E’ qui. Si ferma sulla soglia della camera, mi guarda, sicuro che mi guarda, sono aperta, slacciata, con la figa e il buco del culo offerti, che troia sono. Non dice niente. Si avvicina, sento i tre passi che fa, con calma, si prende tutto il tempo che vuole, sento il fruscio dei vestiti, l’odore dell’aria aperta, della pioggia, oggi piove un po’, mi sfiora il culo con una mano, distrattamente, come si accarezza un gatto, “Non ti muovere e non parlare”, mi dice. “Resta immobile, così.” Mi dà l’ordine con tranquillità, hal a voce serena, e sentirlo così calmo mi dà una grande pace, una sicurezza calda. Non mi muovo, non parlo, ma i muscoli mi si allentano, mi sento liquida, bella, splendente, invincibile. Lui aspetta, in piedi dietro di me. Non si muove, non mi tocca. E’ vicinissimo. Respira adagio. Sento il suo sguardo che mi pesa addosso, inarco la schiena ancora di più, mi apro il culo ancora di più, sospiro profondamente. Aspetto.
Mi posa una mano sulle reni, mi chiede, dolcemente: “Ti sei aperta il culo per me?”
“Sì,” gli rispondo sussurrando. “Parla più forte, fatti entire.” Mi schiarisco la voce, me la sento tremare in gola. “Sì, mi sono aperta il culo per te.”
E adesso anche lui respira a fondo. Si muove, lo sento che si apre i calzoni e tira fuori il cazzo, subito mi cerca il buco del culo e spinge, vuole entrare, apro la bocca, gemo, sto per rialzare la testa, “Stai ferma!” mi ordina, secco. Sto ferma, sì, sto ferma e lo sento che mi entra dentro, nel culo, sembra enorme, sembra impossibile prenderlo dentro ma poi ecco, entra, mi apre, mi riempie, si ferma. “Ti ho messo dentro la cappella, stai ferma così, apriti bene” mi dice. Io sto ferma, aspetto, lascio che la sua cappella mi riempia il culo, mi allargo, respiro profondamente, faccio un piccolo singhiozzo, lui ride dolcemente, gli piaccio molto, lo so che gli piaccio molto così, così nuda, aperta, offerta, ubbidiente.
“Che cosa sei?” mi chiede.
La so bene questa risposta, me la ripeto ogni volta che penso a noi. “Sono la tua puttana,” gli rispondo, e lui mi spinge dentro un altro poco il cazzo. “La tua schiava” e mi riempie di più, sento il suo cazzo che si gonfia nel mio culo, mi fa male e grido, poi mormoro “la tua bambina…” e lui mi incula a fondo, mi riempie tutta, mi squassa, mi pompa dentro a colpi violenti, lunghi, mi usa come vuole, per il suo piacere, sono una cosa, una cosa bella, una cosa sua.
Ecco, aspettavo questo.
 
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rimini
Un'amica speciale.

Le telefoni la conosci sei cliente sa chi sei ti risponde sorpresa dicendoti ciao matto perchè la chiami spesso in questo periodo le chiedi se è libera per una cert'ora in quel momento di attesa lei pensa ai suoi impegni ma tu vivi sensazioni sgradevoli come se fosse un giudizio pensi adesso mi dice di no tanto ha da fare invece dice ok ti aspetto non aggiunge niente ti senti bene parti per tempo arrivi la chiami ti dice di salire arrivi alla porta apre nascosta da dentro con solo una vestaglia trasparente le mutandine i tacchi alti è una meraviglia è lo schianto che conosci ti bacia sulla guancia fate due chiacchiere non le stacchi gli occhi di dosso lei sorride non capisce mai bene perchè ti piace tanto il suo non saperlo forse è proprio quel che ti piace mette una mano sulla tua mano ti porta in camera accende la musica ti chiede se vuoi lavarti la richiesta contiene un invito garbato vai in bagno ti lavi per bene lei seduta sul letto che ti sorride ti avvicini piano profuma di crema per la pelle buona le baci le spalle il collo le piace si stende vi esplorate a vicenda con la bocca lei come sempre gode prima di te si ferma un po' per respirare profondamente mentre sussurra pianissimo bello poi ti bacia ti coccola con le labbra controlla il profilattico si fa penetrare piano poi forte poi più forte godete state bene lei geme in un modo che ti eccita ti accompagna al piacere quando stai per venire esci da lei sei sul letto sulle ginocchia davanti a lei appoggi la tua testa sulla sua spalla le sue braccia attorno alle tue spalle lei prende il pene eretto con dolcezza con una mano lo stringe lo muove ritmicamente quando vieni ti tiene l'altra mano sui testicoli li accarezza come per proteggerli mentre osserva curiosa il liquido che si forma nel preservativo stringe delicata l'asta per farlo uscire tutto ti bacia sul collo sulle spalle respira forte ti sussurra piano che bravo questo ragazzo matto ridete ti pulisci con le salviettine vi sdraiate restate lì fermi un po' a parlare mentre le baci le braccia la schiena poi ti alzi sempre parlando cominci a rivestirti si ricompone anche lei più lentamente spegne la musica in quel momento butti lì la frase devo cenare tu hai già cenato? lei dice pensosa no tu senza una pausa chiedi vieni con me a mangiare qualcosa? lei resta un momento perplessa ti guarda poi guarda in aria dice di colpo va bene senti come una felicità strana lei va in bagno poi apre l'armadio nell'anticamera si prepara ti rendi conto che è la prima volta che la vedi completamente vestita ti piace anche di più con il tailleur il cappottino i tacchi alti ma non troppo i capelli sciolti è proprio una bella ragazza chiedi dove ti va di andare? lei risponde dove vuoi basta che non ci sia troppo casino fate qualche chilometro in macchina parlate il posto è carino lo conosce le piace tu lo immaginavi che andasse bene vi sedete a un tavolo appartato lei sorride la osservi ha quello sguardo furbo ora più rilassato la ascolti la sua vita è incasinata ma si risolverà in qualche modo la sua casa è a buon punto i suoi conti quasi a posto il suo telefonino vibra più volte lei lo ignora mentre mangia di gusto ti racconta le sue cose i suoi pensieri le sue emozioni le discussioni con sua madre non la interrompi la ascolti attento lei assapora il vino rosso vai al banco a pagare il conto mentre lei scivola silenziosa in bagno il cameriere saluta deferente uscite in strada all'aperto fate due passi parlando ti prende a braccetto accendi una sigaretta lei di solito non fuma ti chiede mi fai dare un tiro? le passi la sigaretta lei aspira un paio di boccate e te la ridà con un sorriso guarda in basso dicendo cosa mi fai fare... salite in macchina parlate ancora poi c'è un momento di silenzio lei si accoccola sul sedile sospira compiaciuta dice mi ha fatto bene rilassarmi un po' arrivate sotto al palazzo dove abita lei che ti dice vai avanti ancora fino all'angolo per favore poi slaccia la cintura sta per aprire la portiera dice ciao matto buonanotte non sai cosa fare ma avvicini la testa la avvicina anche lei senti il morbido delle sue labbra sulle tue con il profumo la nicotina è un bacio dolce le labbra schiuse che si accarezzano si coccolano la sua lingua leggera che tocca la tua con la mano ti fa una carezza sul viso ti sorride scende in quel momento ti ricordi ti viene un brivido ti scappa un ma io devo darti ... lei secca quasi ridendo apre la portiera scende ti dice vai a casa, matto di colpo chiude la portiera si incammina verso il portone tu sei ancora lì fermo non sai che fare lei si gira ti butta un bacio con la mano ti fa segno di andare via con le labbra dice vai a casa parti lentamente sei intontito prendi il telefonino ti fermi poco più in la' mandi un messaggino scrivi grazie... dopo qualche istante risponde prego matto ora vai a nanna alla prossima.

(Un saluto. Lafayette)
 
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Bello ciccina. Una critica però. La voce narrante è di una lei ma si capisce benissimo che il linguaggio è un uomo. Al posto di cazzo dovresti scrivere membro, invece di figa qualcos'altro di meno scurrile, e allora potrebbe sembrare un porno al femminile
 
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Bello ciccina. Una critica però. La voce narrante è di una lei ma si capisce benissimo che il linguaggio è un uomo. Al posto di cazzo dovresti scrivere membro, invece di figa qualcos'altro di meno scurrile, e allora potrebbe sembrare un porno al femminile

Grazie, anche della critica. Però non so: la voce narrante è una voce interiore, secondo me una donna magari DICE o SCRIVE membro, etc., ma PENSA cazzo e figa, specie in quelle circostanze (mentre aspetta di essere eccetera).
Almeno così mi hanno detto sia la protagonista di questo raccontino, sia altre donne. Sentiamo che ne dice Petra?
 
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