UNA SERATA A TRE
Questa doveva essere la recensione di una scopata come tante altre, anzi, meglio di altre; poi, sapete com’è, le cose hanno preso una piega diversa. D’altra parte il periodo è solo apparentemente tranquillo, il passato coi suoi fantasmi è già seduto al mio tavolo e tra un po’ mi leggerà il conto.
Infatti, già da qualche tempo una domanda inizia a tormentarmi: mi chiedo spesso perché sono attratto da questo gioco. Sì insomma, voglio dire, per quale motivo mi eccita.
E quando mi eccita.
Nell’attimo in cui la ragazza si spoglia? O piuttosto dopo aver acceso il computer?
Credo di aver trovato qualche risposta.
Don’t panic, mi suggeriscono dalle casse i Coldplay. We live in a beautiful world.
GENESI DI UN INCONTRO
Quella foto mi è piaciuta subito. Sapevo che era falsa, era evidente. Evidentissimo. Eppure mi è piaciuta. Dopotutto bisogna saperla scegliere no? Ci vuole classe anche nella selezione di una immagine e il fatto di non vedere le solite pose volgari accresceva la voglia di indagare. Beninteso, l’avrebbe potuta scegliere Pasquale Barra o chi per lei, ne ero consapevole, ma ormai avevo fantasticato una figura femminile così gradevole da impedirmi di indugiare ulteriormente.
Qualche minuto ancora davanti al monitor, poi basta, prendo il telefono e la chiamo.
Risponde una vocina dal tipico accento dell’est. Ottimo. Adoro quella cantilena, la trovo così elegante e sensuale da ipnotizzarmi. Quanta differenza rispetto alle voci profonde e ai modi sguaiati che hanno spesso le sudamericane. Be’ con qualche eccezione, si capisce.
Le chiedo quali piaceri offre ma con una annoiata filastrocca mi descrive il servizio più banale.
Ormai mi son rotto di certe formalità borghesi. Mi capita infatti di infiorettare i discorsi con qualche bel parolone osceno o di troncare superflue cineserie per lanciarmi in una deriva linguistica da scaricatore. Inizialmente ritenevo questi episodi un’eccentrica forma di protesta, in realtà credo si tratti di qualche disturbo comportamentale. Sindrome di Tourette la chiamano, coprolalia nel mio caso.
“E il cuulo?” Caricando la C e prolungando la U come un licantropo, svelo subito le mie intenzioni.
Compiaciuto della domanda brutale - e del suo silenzio - attendo famelico la risposta.
Sorride, sento il soffio nel telefono: “Dipende.”
Ecco, il gioco era già iniziato e volevo godermelo - io d’altronde avevo già deciso.
“Da cosa?”
“Be’… insomma … sai … ehm … se ce l’hai … un po’ … ehm …” Dice timida e divertita.
Ragazzi che musica, che bellezza. Adoro quando parlano così, con quel pizzico di imbarazzo femminile, cercando di salvare le apparenze.
“… grosso.”
Dopo una pausa, sospirando, ha detto
grosso. Né grande, né lungo ma grosso. Ho sentito un click nella testa ed in un lampo ho immaginato i fotogrammi accelerati dell’incontro, come se stessi scorrendo velocemente un film sino alla scena in cui si rivela il significato, suo e personale, di quella parola.
Stop, fermo immagine. Play.
Grosso.
Appena riattacco mi accorgo che il tarlo non aveva perso tempo. Inesorabile aveva grattato via dal mio cervello l’ultima parte dell’indecisione tipica di quei momenti: dovevo inculare quella tipa. Punto.
Freneticamente inizia il lavorio organizzativo: amici, sport, lavoro, affetti, studio.
Muovo, inverto, pianifico gli impegni giornalieri come pedoni sulla scacchiera della settimana finché individuo il giorno giusto: dopo la partita di calcetto, è deciso. Doccia e via, userò come scusa il terzo tempo con gli avversari. Grande!
Stabilisco mezz’ora, anzi esagero, un’ora per compiere la mia piacevole missione e portare a casa il bottino, confidando che le endorfine rilasciate dall’attività fisica favoriranno una travatura da applausi.
OBSESSIO MANIFESTA
E venne il giorno. E pure la sconfitta. Partita persa nonostante la mia solita sontuosa prestazione, infarcita da un gol e da qualche tunnel irridente. Purtroppo la mente era distratta da altre prestazioni ma principalmente da ben altri tunnel da farcire.
Dopo una tonificante doccia caratterizzata da una generosa cura al reale augello, tanto da provocare lo sbigottimento di compagni e soprattutto avversari, metto il borsone a tracolla, saluto e prendendo a spallate chi si para davanti tutto barcollante mi precipito fuori, seguito nel buio dagli sguardi attoniti dei presenti.
In prossimità dell’auto sollevo la testa e noto negli spogliatoi un movimento frenetico ed uno scalpiccio di ciabatte. Alla luce di una lampadina tremolante, un brulicare disordinato di crani si ricompone e si allinea lungo gli stipiti della porta per potermi osservare meglio. Resisi conto di essere stati scoperti si marmorizzano; ci guardiamo in silenzio per alcuni lunghissimi minuti.
Cazzo! Hanno intuito tutto, tutto. Me l’hanno letto in faccia, e non solo.
Senza emettere alcun suono alzano simultaneamente la mano in un saluto collettivo, riesco a scorgere l’approvazione nei loro visi sinceri. Riempiti i polmoni dalle narici aperte, accolgo quella muta benedizione con un sorriso fiero e gettata un’occhiata ispirata alle nuvole in cielo mi chiudo in macchina e parto.
Dopo aver parcheggiato la macchina, sospinto dal tacito supporto di compagni ed avversari, mi dirigo a passi lunghi e ben distesi verso il luogo del massacro.
Fatte le consuete presentazioni mi paro davanti a lei e con le mani in tasca aspetto che parli. Recita la solita ninna nanna di servizi, facendomi notare che per arraffare il tesoro devo aggiungere qualcosa. Ma ormai ero in craving da inculata, non sarebbe stato certo un dollaro in più od un livello estetico scarso a bloccarmi. Volevo solo un paio di chiappe da scannare, subito.
“Culooo!?” Mi esce così, inarticolato e ruvido come un latrato ma questa volta allungando la O in un finale stridulo. Con un cenno le indico le chiappe. Ci guardiamo per un minuto, taciturni. Sembra che fra noi qualcosa di strano sia passato. Si affaccia come un’idea, un’allusione; una cosa che entrambi capiamo subito. Piega un sopracciglio, solleva un angolo della bocca e con un sorriso beffardo si volta, curvandosi in avanti. Mi offre alla vista i suoi glutei bianchi e teneri, divisi da un solco perfetto che pare disegnato.
Non so se stia recitando ma mi fissa in un modo così intenso che sembra voglia rovistarmi dentro ed arrivare in pochi minuti ad una conoscenza troppo intima, che in realtà richiederebbe anni. O forse sono io che esagero e carico di significati un’occhiata provocante. Il solito bamboccio emotivo, penso.
Una sensazione indefinita inizia a pulsare. Marta mi ricorda qualcuno, o forse qualcosa.
Le chiedo se sia mai stata nella mia città o se ci siamo già incontrati.
“Assolutamente no.”
Eppure sguardo, espressioni e movenze hanno qualcosa di conosciuto, anzi di familiare. Non riesco a frugare nella memoria e a dare un senso a questa affinità, il momento non lo permette, sono distratto ovviamente. Glielo dico e ne ridiamo insieme. Lei però mi osserva con tenerezza, come se conoscesse la risposta ma volesse preservarmi da un dispiacere, preferendo vedermi confuso piuttosto che consapevole.
Durante l’amore è stranamente dolce ed io, come uno stupido, abuso della sua disponibilità, giocando all’amante rude e insaziabile. Ma in realtà non sapevo che gioco fosse.
Mi concede tutto quello che voglio con una mollezza tale da portarmi all’apice della lussuria. Poi, una misteriosa sinergia ci guida all’esecuzione dell’atto finale.
Mi guarda di nuovo in quel suo modo acuto: “Come vuoi farlo?”
ASCESA E CADUTA
Sicuro di un compito gravoso incomincio il rituale di preparazione curando meticolosamente anche i minimi dettagli, cosa imprescindibile per potersi introdurre in un ambiente poco ospitale. Innanzitutto le posizioni. La invito a poggiare le ginocchia sul bordo del letto e a piegarsi in avanti in modo da protendere il culo in alto. La schiena deve essere ben arcuata ed appiattita sul lenzuolo e le braccia allungate in avanti, in adorazione. Arresa alla Regina delle Posizioni. Molto bene.
Io invece mi ancoro al pavimento con l’intera pianta dei piedi; gambe divaricate, ginocchia flesse e presa salda sui suoi fianchi. Praticamente un primate.
Dopo aver separato le chiappe ed aver messo a nudo il nocciolo della faccenda ha inizio l’overture.
Mi appoggio e delicatamente sprofondo in quel soffice burro. Alla prima spinta sobbalza come un’auto grattata. Timidamente mi scuso con un bacio sulla spalla e lei, spettacolare, mi tranquillizza e mi incoraggia accarezzandomi la coscia. Vado avanti adagio e con delle micro oscillazioni cerco di guadagnare un millimetro alla volta. Dopo qualche minuto mi accorgo di essere passato dalla condizione di ospite indesiderato a quella di padrone di casa - ora qui ci sono io e ho intenzione di rimanerci, chiaro?
Come uno stantuffo ben oliato comincio ad infierire, facendo scorrere l’asta in tutta la sua lunghezza, beandomi del risucchio finale.
Uno, due. Uno, due. Dentro e fuori. Dentro e fuori. Fila che una meraviglia.
La tipa ciondola la testa come una bambola smollata e accompagna i movimenti con l’emissione di versi gutturali, indecenti per una signorina. Un grugnito in entrata, un rantolo in uscita. Un grugnito in entrata, un rantolo in uscita e nel mentre io dentro me la rido. Ipnotizzato da quei suoni continuo impassibile la mia opera di demolizione finché non commetto un errore. Pecco di vanità come Narciso e contemplo la scena.
Appena poso lo sguardo lungo la schiena, sui fianchi e fin giù dentro il solco, ecco che a tradimento i primi singhiozzi di sperma avanzano veloci verso l’esterno ma lei, gemendo e godendo, da sotto mi afferra i coglioni. Subito l’imminente esondazione viene ricacciata indietro alla velocità del suono e una fitta crescente mi attraversa la spina dorsale sino al cervelletto. Benedico quella stretta che mi regala ancora qualche minuto di vita e tornato calmo riprendo la mia inesorabile oscillazione. Poi, con un colpo secco affondo là dentro, scomparendo, e così decido di rimanere per qualche istante. Immobile aspetto che si alzi la marea e quando gli argini iniziano a creparsi la allargo e mi libero, dirigendo il getto verso il suo petto. Sette, otto fiotti solcano l’aria come stelle filanti in un mesto carnevale per posarsi con uno schiocco sulla sua pelle.
Esausto e scosso mi sdraio pesantemente sulla schiena con l’assoluto vuoto mentale come unica compagnia. E così mi abbandono.
Si è fatto tardi, ora di andare via. Mi accorgo di essere a disagio, come se fossi appena riemerso da un cupo torpore. Nudo e in piedi osservo smarrito dinanzi a me. Sulla sedia giace inanimato il mio costume di scena, i vestiti di ogni giorno; nel letto accanto è riversa Marta, lo sguardo perso chissà dove. Quella visione mi turba e un’angoscia strisciante riempie la stanza. Mi manca l’aria, voglio uscire.
Mi preparo velocemente e poco dopo balzo fuori in strada, consegnandomi alla realtà. Una brezza gelida mi sferza il viso, mentre gocce gentili bagnano la città ed ogni passante, come un ultimo beffardo brindisi all’amore e a tutte le sue manifestazioni. E a chi non c’è più.
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