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CARATTERISTICHE GENERALI
NOME: detto ma dimenticato
CITTA DELL'INCONTRO: Roma
ZONA: Castel di Guido presso questo spiazzo
NAZIONALITA': nigeriana
ETA': 20 anni circa
SERVIZI OFFERTI (vedi DIZIONARIO): bj+rai1
COMPENSO RICHIESTO: 20
COMPENSO CONCORDATO: 10
DURATA DELL'INCONTRO: 10'
DESCRIZIONE FISICA: minuta e snellissima, viso grazioso se non fosse per gli zigomi tigrati e gli incisivi distanziati
ATTITUDINE: riprovevole
LA MIA RECENSIONE:
Dal fondo si attorciglia una stradina fino al sommo della collina ed io, con i miei passi strascicati, ne sollevo le polveri fino al cielo rabbuiato di pioggia incombente.
Il calore dell'estate, prolungato fino al mezzo dell'autunno, ha disseccato il terreno ch'è ancora tutto crepe, memorie degli ultimi antichi acquazzoni.
Chissà quanti girini avrebbe salvato la pioggia se fosse scesa per tempo invece d'inzaccherarmi le scarpe. Schiumano i pollini nei primi rivoli di stagione che scanso a grandi salti.
Saprebbe una termite valutare l'ampiezza del mondo dal suo buco nel legno? mangia cellulosa e caca segatura e neanche pensa possa sorriderle un cielo che non vede.
Spazzo con la suola biglie di pietra. Raggioperraggiopertreequattordici. No. Quattroterzipertreequattordiciperraggioallaterza. Già. Quante sono? Quante saranno a ruzzolare giù per il pendio?
Il ginocchio mi duole, ho la testa fradicia, la camicia che s'appiccica alla schiena come una seconda pelle fredda. Scambio termico per conduzione, Fourier, Poisson, Laplace, tutta brava gente – credo – per lambiccarsi così il cervello.
Il vento muove lenta la tendina di gocce che ho davanti da sinistra a destra, da destra a sinistra, che è come star dentro l'autolavaggio a rulli. Nel pianoro, piccola savana romana, mi cadono addosso fitte.
L'erba alta mi si trofina sugli stinchi, s'aggrappa al mio cammino, non vorrebbe farmi andar via. Sarà perché ho preso in ostaggio mezza cesta d'asparago selvatico. Ma non chiedo riscatto.
Tappi di plastica al posto del ciottolame, calcinacci e tegole che tegole furono un tempo, terra che torna alla terra dopo essere stata scavata, formata, cotta, esposta e rotta. Cascatella cristallizzata di rifiuti.
Due materassi a chiazze, verdi di muffe e gialli d'altro, aspettano coricati all'ombra dei rami. Aspettano chi? forse la snella negretta che più in alto, oltre la scarpata, pigola agli automobilisti di passaggio.
Piccola, ti prendo di sorpresa venendo cauto dal basso al primo spiovo. Di solito è la strada (la odierai, certo, per questo) a scaricarti addosso sacchi di carne e di foia che ti s'incollano al didietro.
Venti euro chiedi sibilando dalla finestrella fra gli incisivi una vociaccia cui mai mi abituerò, quel suono grave e roco tutto africano, come se parlasse una vecchia da dentro il corpo d'una ragazzina.
Due mani avanti con le palme bene aperte: non è un segno di resa o un gesto tranquillizzante ma solo il simbolo universale della decina. Dieci potrei dartene. Non che non ne abbia altri. È che io, maschio bianco coi piedi sulla mia terra, non te ne voglio dare di più.
Terra... vabbè, chiamiamola terra questa catasta d'immondizie in cui quasi rovino per raggiungerla, pesante per la fanghiglia attaccata ai calcagni da raschiar via. Vestitino rosso con le spallucce bagnate, gambette esili quanto infreddolite, venite meco.
Sugli zigomi striature di una tribù indigena e sul culo gonfiori di zanzare. Anch'esse, un dono dell'Africa: pungono di giorno ed in silenzio. Di giorno ed in silenzio sfiliamo fino ai materassi quieti e disfatti.
Il mio foglietto rosa nella sua borsetta va a finire, presto richiusa con gesto d'imperio. Diece-boga-o-figa... mhmmm... eppur giurerei che poc'anzi s'era pattuito altro... mo' via, và... vediam questo culetto che il mondo non crolla mica.
Natura – o forse chi spinge il pulsante della centrifuga universale – fece la donna per piegarsi in avanti. Ci provassi io a chiudermi l'addome fra le cosce mi spezzerei la schiena. A lei le riesce bene e si tiene le caviglie sottili con le mani sottili.
Qualche giro a freddo per avviare il motore e stop! Non plus ultra. E tutto diviene un aualaghala'mbaku, parole come tamburi dell'altopiano polveroso, e l'indice prende a ticchettare sul polso dove dovrebbe esserci un orologio che non c'è.
Per la signorina il tempo è finito. Anzi, è stato pure troppo. 'mbagodagaddhù. Che significherà mai? Pija e porta a casa? La vescica non le regge oltre e la scarica accovacciata ai miei piedi. Déjà 50. Ultimamente, le OTR hanno preso a scambiarmi per un orinatoio.
Grande invenzione, l'orinatoio; a ben guardarlo, pezzo di splendido design funzionale. Duchamp l'ha reso celebre; ad esser maliziosi, l'orinatoio ha reso celebre Duchamp. Ma io non sono né l'uno né l'altro (penso).
Insacchettata in sé stessa come una mummietta inca, agita in aria le mani nere e rinsecchite con scatti di polso. Sembra scacciare mosche immaginarie o invocare su di me la maledizione dei suoi spiriti ancestrali.
Che penserebbero i suoi antenati nel vederla così? anche nel bacino del Niger vige un'etica del lavoro? Ma cosa lo dico a fare "anche"... come se noialtri ce l'avessimo. Generalizzando, m'incarto sempre.
Le taccole svolazzano – anche loro mi parlano d'Africa – mentre mi rincalzo i pantaloni e valico il pendio, o forse erano folaghe o condor andini o avvoltoi dalla testa calva o altri pennuti che non conosco.
Ungadabaddhada'dù mi ripete dietro. Non comprendo appieno ma son certo sia come Lei sostiene, carissima. Di certo stasera piscio anch'io. Acre quanto non mai, a solleticarmi le narici dal fondo del water.
NOME: detto ma dimenticato
CITTA DELL'INCONTRO: Roma
ZONA: Castel di Guido presso questo spiazzo
NAZIONALITA': nigeriana
ETA': 20 anni circa
SERVIZI OFFERTI (vedi DIZIONARIO): bj+rai1
COMPENSO RICHIESTO: 20
COMPENSO CONCORDATO: 10
DURATA DELL'INCONTRO: 10'
DESCRIZIONE FISICA: minuta e snellissima, viso grazioso se non fosse per gli zigomi tigrati e gli incisivi distanziati
ATTITUDINE: riprovevole
LA MIA RECENSIONE:
Dal fondo si attorciglia una stradina fino al sommo della collina ed io, con i miei passi strascicati, ne sollevo le polveri fino al cielo rabbuiato di pioggia incombente.
Il calore dell'estate, prolungato fino al mezzo dell'autunno, ha disseccato il terreno ch'è ancora tutto crepe, memorie degli ultimi antichi acquazzoni.
Chissà quanti girini avrebbe salvato la pioggia se fosse scesa per tempo invece d'inzaccherarmi le scarpe. Schiumano i pollini nei primi rivoli di stagione che scanso a grandi salti.
Saprebbe una termite valutare l'ampiezza del mondo dal suo buco nel legno? mangia cellulosa e caca segatura e neanche pensa possa sorriderle un cielo che non vede.
Spazzo con la suola biglie di pietra. Raggioperraggiopertreequattordici. No. Quattroterzipertreequattordiciperraggioallaterza. Già. Quante sono? Quante saranno a ruzzolare giù per il pendio?
Il ginocchio mi duole, ho la testa fradicia, la camicia che s'appiccica alla schiena come una seconda pelle fredda. Scambio termico per conduzione, Fourier, Poisson, Laplace, tutta brava gente – credo – per lambiccarsi così il cervello.
Il vento muove lenta la tendina di gocce che ho davanti da sinistra a destra, da destra a sinistra, che è come star dentro l'autolavaggio a rulli. Nel pianoro, piccola savana romana, mi cadono addosso fitte.
L'erba alta mi si trofina sugli stinchi, s'aggrappa al mio cammino, non vorrebbe farmi andar via. Sarà perché ho preso in ostaggio mezza cesta d'asparago selvatico. Ma non chiedo riscatto.
Tappi di plastica al posto del ciottolame, calcinacci e tegole che tegole furono un tempo, terra che torna alla terra dopo essere stata scavata, formata, cotta, esposta e rotta. Cascatella cristallizzata di rifiuti.
Due materassi a chiazze, verdi di muffe e gialli d'altro, aspettano coricati all'ombra dei rami. Aspettano chi? forse la snella negretta che più in alto, oltre la scarpata, pigola agli automobilisti di passaggio.
Piccola, ti prendo di sorpresa venendo cauto dal basso al primo spiovo. Di solito è la strada (la odierai, certo, per questo) a scaricarti addosso sacchi di carne e di foia che ti s'incollano al didietro.
Venti euro chiedi sibilando dalla finestrella fra gli incisivi una vociaccia cui mai mi abituerò, quel suono grave e roco tutto africano, come se parlasse una vecchia da dentro il corpo d'una ragazzina.
Due mani avanti con le palme bene aperte: non è un segno di resa o un gesto tranquillizzante ma solo il simbolo universale della decina. Dieci potrei dartene. Non che non ne abbia altri. È che io, maschio bianco coi piedi sulla mia terra, non te ne voglio dare di più.
Terra... vabbè, chiamiamola terra questa catasta d'immondizie in cui quasi rovino per raggiungerla, pesante per la fanghiglia attaccata ai calcagni da raschiar via. Vestitino rosso con le spallucce bagnate, gambette esili quanto infreddolite, venite meco.
Sugli zigomi striature di una tribù indigena e sul culo gonfiori di zanzare. Anch'esse, un dono dell'Africa: pungono di giorno ed in silenzio. Di giorno ed in silenzio sfiliamo fino ai materassi quieti e disfatti.
Il mio foglietto rosa nella sua borsetta va a finire, presto richiusa con gesto d'imperio. Diece-boga-o-figa... mhmmm... eppur giurerei che poc'anzi s'era pattuito altro... mo' via, và... vediam questo culetto che il mondo non crolla mica.
Natura – o forse chi spinge il pulsante della centrifuga universale – fece la donna per piegarsi in avanti. Ci provassi io a chiudermi l'addome fra le cosce mi spezzerei la schiena. A lei le riesce bene e si tiene le caviglie sottili con le mani sottili.
Qualche giro a freddo per avviare il motore e stop! Non plus ultra. E tutto diviene un aualaghala'mbaku, parole come tamburi dell'altopiano polveroso, e l'indice prende a ticchettare sul polso dove dovrebbe esserci un orologio che non c'è.
Per la signorina il tempo è finito. Anzi, è stato pure troppo. 'mbagodagaddhù. Che significherà mai? Pija e porta a casa? La vescica non le regge oltre e la scarica accovacciata ai miei piedi. Déjà 50. Ultimamente, le OTR hanno preso a scambiarmi per un orinatoio.
Grande invenzione, l'orinatoio; a ben guardarlo, pezzo di splendido design funzionale. Duchamp l'ha reso celebre; ad esser maliziosi, l'orinatoio ha reso celebre Duchamp. Ma io non sono né l'uno né l'altro (penso).
Insacchettata in sé stessa come una mummietta inca, agita in aria le mani nere e rinsecchite con scatti di polso. Sembra scacciare mosche immaginarie o invocare su di me la maledizione dei suoi spiriti ancestrali.
Che penserebbero i suoi antenati nel vederla così? anche nel bacino del Niger vige un'etica del lavoro? Ma cosa lo dico a fare "anche"... come se noialtri ce l'avessimo. Generalizzando, m'incarto sempre.
Le taccole svolazzano – anche loro mi parlano d'Africa – mentre mi rincalzo i pantaloni e valico il pendio, o forse erano folaghe o condor andini o avvoltoi dalla testa calva o altri pennuti che non conosco.
Ungadabaddhada'dù mi ripete dietro. Non comprendo appieno ma son certo sia come Lei sostiene, carissima. Di certo stasera piscio anch'io. Acre quanto non mai, a solleticarmi le narici dal fondo del water.