discussione intorno al piacere e al desiderio

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19 Ottobre 2014
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Questo racconto è frutto esclusivo della mia fantasia. Eventuali riferimenti a persone esistenti o a fatti realmente accaduti sono del tutto casuali


Sereno


Va bene accetto, il mio hotel è dall'altra parte della strada.
La biondina annuisce. L'altra sembra meno convinta. Forse non abbiamo pattuito abbastanza. O più probabilmente non ha capito bene.
Nel Mac di via XX settembre alle dieci e mezza di domenica c'è quasi nessuno.
Anche se non sono tappate troppo zoccole, le due sono evidentemente puttane.
Non so se dipenda dagli stivali taccuti, dai jeans attillatissimi o dalle corte giacche a vento con il collo di pelo finto. Forse dall'insieme di tutte queste cose.
Non sono neppure truccate sfacciate.
Poco prima c'era un certo pieno. E si erano sedute al mio stesso tavolo, chiedendo permesso con un sorriso storto.
Ero arrivato a Porta Principe verso le nove, ormai tardi per andare a cena in un ristorante serio.
Tipo il Genio, il mio preferito. Per cui, ero entrato con l'idea di prendere qualcosa e portarmela su, per mangiarmela in stanza. Tanto, non avevo neppure tanto appetito.
Ma poi, avevo ceduto alla stanchezza e al freddo che mi attanagliava le ossa.
E mi ero seduto in un angolo, a mangiare svogliatamente e leggere i messaggi sull'I-pad.
Poi, le ragazze si erano sedute e mi avevano sorriso.
Avevo fatto loro qualche domanda e, prima ancora che loro finissero il loro panino, ci eravamo riconosciuti come appartenenti allo stesso sotto mondo, anche se con ruoli diversi.
C'era voluto poco, per avviare la contrattazione.
Due OTR di ritorno dal lavoro, che forse non avevano guadagnato molto, visto che ora si accontentano di tre urbani per un'ora. Tutte e due.
Non ho tanto tempo. Domattina devo essere all'università per le dieci. Da quando abbiamo vinto l'appalto per il sistema informativo di un ministero, non faccio altro che girare per l'Italia.
Sono ormai vecchio per queste cose, ma pare non ci sia nessun altro in grado di impostare il lavoro. E impostare il lavoro è molto più della metà dell'opera.
Per cui, le prime due riunioni le faccio sempre io. La prima, come questa volta a Genova, da solo. La seconda con uno dei ragazzi dell'ufficio sviluppo.
Bene, sospiro, andiamo, avete i documenti?
Certo, fa la biondina.
Che dice di chiamarsi Alina. E che prima mi ha dato la mano presentandosi.
Si era tolta gli spessi guanti di lana e aveva la pelle arrossata e ruvida.
L'altra non parla quasi italiano. Ma è sicuramente molto gnocca. Alta, mora, con gli occhi chiari.
Monica.
Mi avvio e le due mi seguono nel vento gelido che spazza il corso.
L'Alina si infila una berretta di lana, mentre aspettiamo che venga il verde al passaggio pedonale.
L'altra si tira su il cappuccio della giacca a vento.
Rare macchine passano sull'asfalto lucido, sollevando baffi di pioggia dalle pozzanghere.
Nessuna delle due sembra tranquilla. Prima mi hanno detto che di solito lavorano in strada.
Ma neppure io sono tanto calmo.
Non è la prima volta che mi porto una ragazza in hotel. Ma in questo caso potrebbe essere più imbarazzante.
Intanto sono due. Poi, non conosco questo posto.
Per non dare adito a nessuna illazione, pagherò di tasca mia la camera. Tanto non costa tanto.
E 'fanculo l'ufficio cassa.
La biondina mi sorride stentata, mentre aspettiamo.
Sì, è nervosa e preoccupata.
Prima mi ha detto di avere diciannove anni. E di essere qui da sei mesi.
Ma parla abbastanza bene.
Si capisce al primo sguardo che non ha tanta esperienza.
E l'altra ancora meno.
Attraversiamo il corso e ci infiliamo in una stradina, tra un parcheggio e una piazzetta. L'albergo è proprio in angolo.
Fa molto più freddo che a Bologna. E cade pioggia gelida a raffiche irregolari.
Entro nell'atrio caldo e luminoso. La luce gialla allude a promesse di comodità.
La biondina mi si affianca, sorridendo incoraggiante. L'altra rimane dietro.
Ho una prenotazione, annuncio nascondendo l'imbarazzo.
E allungo al portiere la stampa della ricevuta di Booking.
Il tipo si tira gli occhiali sopra il naso e considera la faccenda.
Una sessantina scarsa, aria scafata e barba disordinata di qualche giorno.
Qui dice una doppia uso singolo, obietta, non una tripla.
Prende comunque la chiave della 33 e la poggia sul bancone.
Ehm, balbetto, le mie amiche salgono solo per qualche minuto.
Ok, fa lui, ho bisogno dei documenti di tutti.
Gli allungo la mia carta. E lui la mette subito nella casella da dove aveva preso la chiave.
La pupa Alina ha già preparato il passaporto.
Fa caldo nella hall. E lei si abbassa la cerniera della giacca a vento, rivelando un maglioncino scollato sopra un seno assai appetitoso.
Forse lo fa solo per distrarlo.
Lui prende il documento, come si trattasse del pitale di un lebbroso e controlla nomi e date.
Alza il naso interrogativo verso la Monica.
La bimba gli dà una fotocopia, che lui considera annasando.
Non si legge la data di nascita, “signorina” Balan.
La ragazzina lo guarda senza capire.
E l'altra le spiega in romeno la questione.
Mi faccio consegnare il foglio e ci guardiamo insieme.
In effetti, la data di nascita è semi nascosta da una piccola macchia.
Il documento è moldavo.
Ok, mi dico. Calma.
La tua amica non ha l'originale? Chiedo all'Alina.
Lei scuote la testa.
Ci deve essere dietro la solita storia torbida di semi sfruttamento.
Inutile indagare.
La data di nascita è nell'incomprensibile formato dei paesi dell'est.
Vabbé, si capisce che almeno è nata nel secolo scorso.
È del novantasei, opino mostrando evidente il foglio al portiere.
Uhm, perplime il desso, secondo me è un novantotto.
Comincio a innervosirmi sul serio.
Le due ragazzine, intanto, si dicono cose incomprensibili a bassa voce.
La biondina sembra sempre più tesa.
Eravamo a scuola insieme, dichiara, abbiamo la stessa età.
Il tipo ricontrolla il passaporto romeno dell'Alina.
Ma siete di paesi diversi, obietta con aria sorniona.
Lei è venuta con la sua famiglia a Braila, precisa, quando c'è stata la guerra.
È una balla, ovviamente, la guerra civile è finita almeno cinque anni prima che le due bimbe venissero al mondo.
Ma il tipo non deve conoscere tanto bene la storia.
A dar retta al mio stato d'animo, mollerei immediatamente le due stronzette.
Non voglio incasinarmi con una minorenne. Magari non si finisce in galera, ma sono sempre guai.
E questo tipo sembra piuttosto tignoso.
Mi apro pure io il loden, sempre più accaldato.
E ricontrollo la fotocopia stropicciata.
Guardi su Facebook, propone la biondina con aria angelica.
L'uomo sorride. E pure, io avendo constatato le altre cifre della data di nascita.
Va bene, annasa nuovamente, lo farò, “signorina”.
Probabile che si farcisca il naso. Il suo raffreddore è un pochino sospetto.
Scrive i nomi su una formulario e mi consegna le chiavi.
Allunga il passaporto all'Alina e ci indica l'ascensore sulla sinistra.
Le rendo la sua carta dopo la registrazione, precisa.
Intanto, entra una coppia di anziani turisti stranieri.
E ne approfittiamo per smammare.
Appena siamo in ascensore, l'Alina si fa aria con una mano.
Anche l'altra si toglie la giacchina a vento e sbuffa.
Saliamo al terzo e troviamo subito la stanza.
È una standard da tre stelle, niente di ché. Ma è abbastanza grande e confortevole.
Le due bimbe si tolgono gli stivali e si massaggiano i piedi gonfi.
Anch'io mi metto comodo.
Chiamo mia moglie e le dico che sono arrivato, che sono stanco e che ci sentiamo domattina.
Anche lei è stanca. Domattina deve essere a Roma per una causa.
Facciamo una doccia, propongo dopo aver chiuso la conversazione.
Ok, fa la biondina.
L'altra le dice qualcosa.
Prima i soldi, aggiunge.
Ok, mi rassegno.
Avevo deciso che se non me li avessero chiesti prima, avrei dato loro 200 carte.
Poggio tre rosa sulla scrivania e comincio a spogliarmi.
La Monica si siede sul letto e accende la televisione a basso volume.
Traffica con il telecomando alla ricerca di un programma potabile.
L'Alina, più intraprendente, si è già quasi del tutto sbucciata.
Mi aspetta per togliersi anche la biancheria e andare in bagno.
Le faccio segno che voglio anche la sua amica. E lei le dice qualcosa.
La Monica si alza svogliatamente e comincia a svestirsi, continuando a guardare MTV.
Io e l'altra entriamo in bagno, apro l'acqua e finiamo di spogliarci.
L'Alina non è alta, ma ha del buono. Gambe tornite, culetto impertinente, una terza di tette. Un bel visino paffutello e occhi verdi. I capelli di un verosimile biondo scuro, non tanto lunghi.
Abbiamo contrattato bocca senza e figa protetto. Niente culo.
Mentre ci sfreghiamo a vicenda, arriva anche l'altra.
Si infila nella cabina con aria seria e si mette sotto il getto bollente, cercando di evitare di bagnarsi i lunghi capelli neri.
L'Alina apre una confezione di bagno schiuma e si lava il petto e le cosce. Poi si gira per bagnarsi dietro.
La morettina si tira su i capelli e se li annoda.
È uno schianto.
Sul metro e settanta, visino sottile, gelidi occhi grigi. Una seconda di seno, ma con capezzoli dritti e duri, rivolti all'insù. Sedere da velina e lunghissime gambe leggermente arcuate.
L'Alina le accarezza la schiena e le sciacqua le spalle e il ventre.
Allungo una mano a toccarla tra le gambe.
Lei sorride evasiva e mi lascia fare.
Ha una piega piccolissima, sotto il pube glabro, che trovo parecchio invitante.
E, in effetti, il mio affare reagisce.
La bimba mora me lo indica divertita.
E l'altra me lo soppesa valutativa.
Si dicono qualcos'altro nella loro lingua e ridacchiano.
Che c'è? Chiedo.
Che bene, fa la biondina, che non abbiamo detto culo. È troppo grosso.
Sorrido pure io.
Esco dalla cabina e mi asciugo.
Si va a puttane per venire sorpresi.
Anche loro escono e si passano a turno l'altro asciugamani sulla schiena e sulle spalle.
In camera fa parecchio caldo, per cui abbasso il condizionatore sul 22.
Insieme, chiede la biondina raggiungendomi, o prima una?
L'altra si sta ancora asciugando le gambe.
Insieme, preciso.
Ok, fa lei e chiama l'amica.
Sono le undici e un quarto.
Spero di evadere la pratica prima della mezza. E di farmi una bella dormita.
Sono stanco e mi fa male la schiena.
Prendo una lattina di coca dal frigo bar, mi stendo sulla coperta e le aspetto.
Discutono dalla porta aperta del bagno. Da cui esce un po' di vapore.
Mi accendo una sigaretta.
So che non sarà una grande scopata. Io sono molto stanco e le due bimbe sono evidentemente troppo inesperte per creare il clima giusto.
Ma fa niente.
Da quando non ho fidelizzate, ho imparato ad accontentarmi di prestazioni standard.
Finalmente l'Alina mi raggiunge sul letto e si inginocchia di fianco.
Mi prende il pinco con una mano e sorride.
Non ci sa tanto fare, come quasi tutte le ragazze che conosco, magari di bocca è meglio.
Le infilo una mano tra le cosce e controllo la sua cosina.
Lei allarga un po' le gambe, per facilitarmi le cose.
Che cazzo sta facendo l'altra?
Le allungo le labbra e lei me le bacia senza lingua.
Si tira via ridacchiando.
Non bene con cliente, spiega.
Avevamo detto di sì, le ricordo.
Dopo, annuisce, quando scopiamo.
Le indico il cazzo eretto.
Sembra esitare. Ma poi si decide e lo imbocca.
No, non ci sa fare neppure di bocca.
Lo lecca appena, senza succhiare e senza affondare.
La tua amica, le ricordo.
Lei emerge e mi sorride storta.
Arriva, mi rassicura.
Scuoto la testa.
È timida, precisa, si vergogna.
Preferisci che faccio lei dopo? Chiedo.
Alza le spalle.
Ormai, spiega, siamo qui.
In effetti, arriva anche l'altra.
Si stende dall'altra parte e mi guarda seria.
L'abbraccio e le allungo le labbra.
L'Alina lo imbocca di nuovo.
Questa volta ci mette un po' di saliva e scende più profondamente.
La Monica si lascia baciare senza reagire.
Le infilo la lingua in bocca e lei mi ricambia appena.
Le accarezzo un seno, insistendo sul capezzolino ritto.
Nonostante le premesse, sono eccitato.
Spingo un po' il mio affare nella boccuccia della biondina, che non dice di no.
E la morettina scosta un po' le gambe, per permettermi di toccarla.
A differenza dell'amica, è bagnatina.
Decido di fare cambio e prendo l'Alina per una spalla, per interromperla.
La tiro su e le bacio le labbra.
La Monica capisce che tocca a lei.
E scende a leccarmi la cappella.
Neppure lei ci sa tanto fare.
Mi protendo un po', per farglielo imboccare.
E lei esegue pedissequamente.
Lo sapevo, anche se sono parecchio eccitato, un senso infinito di insoddisfazione mi macera.
Spingo anche la biondina di nuovo verso il mio inguine.
E, anche se maldestramente, mi spompinano a turno.
Mi tiro un po' su, per appoggiare le spalle sulla testiera del letto. E le guardo concupiscente, sperando nel miracolo di un rigurgito di passione.
Devo ammettere che non si stanno comportando male.
Ma il senso di inutilità permane.
Finalmente la biondina mi stringe lo scroto, strappandomi un guizzo di desiderio.
E il telefono sul comodino comincia a trillare.
'Fanculo.
Pronto, biascico alla cornetta.
Mentre le due si interrompono e mi fissano con aria allarmata.
Mi scusi, fa il portiere, ma ho controllato su Facebook, come diceva la “signorina”.
E? Interrogo.
Avevo ragione io, dichiara soddisfatto, la ragazza è nata nel novantotto.
In che giorno? Chiedo avendo già controllato.
Sento l'uomo che digita sulla tastiera.
Il quattordici gennaio, precisa trionfante.
Quindi, mi inalbero, ha compiuto diciotto anni tre giorni fa. C'è altro?
L'uomo tace interdetto.
Certo, risponde riprendendosi, ehm, ha ragione.
C'è altro? Alzo la voce.
No, risponde, ma è, ecco, che mi aveva detto del novantasei.
Si sarà sbagliata, opino, la lingua, sa. Ora, mi scusi, ma ho da fare.
Certo, ehm, borbotta, mi scusi.
Mi spiace fare figure di merda.
Almeno che sia in buona compagnia.
L'Alina alza il mento interrogativa.
Niente, scuoto la testa.
Lei è giovane, si decide a confessare, ma ha l'età.
Lo so, sospiro.
Mi alzo e prendo un preservativo dalla borsa.
Non sono abbastanza in forma per un goldone cinese stretto e duro.
Mi infilo l'XL di una nota marca e mi stendo di nuovo al mio posto.
È sottile, comodo e ben lubrificato.
Faccio segno alla biondina di cominciare lei.
Mi viene sopra, si inumidisce la patatina e si abbassa lentamente.
Entra con un piccolo sforzo. E comincia a muoversi con esasperante lentezza.
Le stringo il seno e la faccio abbassare per baciarla.
È di parola, questa volta mi ricambia con la lingua.
Mi tiro contro anche l'altra e bacio anche lei.
La biondina è strettissima.
E mi basta spingere appena un po' per toccarle l'utero.
Ogni volta, sento che si irrigidisce.
Forse le fa male.
La spingo via e faccio segno alla morettina di prendere il suo posto.
Sarebbe meglio cambiare il preservativo, ma non sembrano preoccuparsi.
La Monica mi scavalca con una delle sue lunghe gambe e si impala senza tanti preparativi.
Anche lei è strettina, ma sembra più agevole.
Avevamo detto che avrebbero giocato tra di loro.
Per cui, la biondina, più professionale, si inginocchia di fianco e un po' succhia i capezzoli dell'amica, un po' mi stringe il petto.
Poi, scende a mordermi una spalle e le orecchie.
Le faccio segno di succhiare anche a me un capezzolo.
E mentre mi mordicchia anche lì, le infilo due dita nella passerina da dietro.
Ha il culo per aria, per cui è facile.
Mentre ci sono, le accarezzo anche il buchino.
Sembra elastico e rilassato.
Sale a infilarmi la lingua tra i denti. E finalmente sento un po' di caldo al ventre.
Poi si tira via e mi sorride con maggiore convinzione.
Anche l'altra scende a baciarmi.
L'Alina le infila una manina tra le gambe. E un po' mi tocca, un po' la masturba.
È scena, ma non è neppure mal recitata.
La Monica sembra averci preso gusto. È arrossita leggermente e sento un rivolino di umori vaginali scendermi sulla pancia.
Prima volta, sorride ancora imbarazzata l'Alina, insieme.
Le sorrido incoraggiante.
Da qualche minuto ho la sensazione che qualcosa sia cambiato.
Tiene ancora la mano tra le cosce dell'amica e mi fissa divertita.
Lei non è brava, ridacchia, tutti i miei clienti che vanno con lei, dicono che non sa fare.
In effetti, ammetto, tu sei più esperta.
La morettina borbotta qualcosa interrogativa.
Ma, la ignora l'altra, piace cazzo.
Ride cristallina.
Poi dice qualcosa all'amica.
L'altra risponde con un mormorio apparentemente offeso.
Dice di no, ridacchia ancora, ma piace cazzo grosso e duro.
Sembra che stiano continuando uno scherzo di cui ho perso l'inizio.
L'altra si tira via infastidita.
Meno male, la schiena mi faceva troppo male.
Faccio stendere l'Alina e le vado sopra a mission.
Ma non è comodo.
Io sono troppo alto, per lei, e non capisce che deve alzare un po' il sedere.
Per cui le metto un cuscino sotto la schiena e riprovo.
Finalmente entra tutto.
La ragazzina emette un piccolo ansito e si lascia baciare di nuovo.
L'altra si siede scontrosa contro la testiera e ci guarda con espressione schifata.
Mi allungo di nuovo a baciarle il seno e le labbra.
Così, si stende al nostro fianco.
Le prendo una mano e la spingo a toccare l'amica.
Ma non sembra dell'idea.
Le accarezza meccanicamente una tetta e ogni tanto scende a baciarle il pancino.
Approfitto di un momento in cui è alla portata, per prenderle una mano e portarmela tra le gambe.
Capisce che mi deve stringere l'affare, mentre pompo l'altra. Ed esegue senza troppa convinzione.
Sto trovando questa stronzetta un po' demotivante.
In ogni caso, procedo con irremovibile dedizione.
Ma dopo un po', esco dalla biondina e allargo le gambe alla mora.
La penetro lentamente e rimango un po' a godermi lo sfregamento della mia cappella dentro la sua patatina.
Adesso non è tanto lubrificata. Ma è comunque più comoda dell'altra.
Scopare è rito. So che non verrò.
Non è colpa solo della prostata, dipende anche dal cervello.
Vengo scopando solo con chi amo. E da cui mi sento riamato, almeno un po'.
A sessant'anni è un po' un casino, devo ammetterlo. Ma non posso farci niente.
Ho una moglie e un'amante. Con loro faccio l'amore. Il resto è vizio.
Non abbiamo parlato di CIM, prima, con queste. Ma sento che almeno la biondina potrebbe farlo.
L'Alina insiste nel manipolare la sua amica.
Quando non bacio la Monica, mi bacia lei, infilandomi la lingua fino in gola.
E nel frattempo, mi stringe le palle e ogni tanto sale a toccare il grilletto dell'amica.
Ma questa si deve essere offesa, per cui ogni volta sbuffa infastidita e borbotta cose per me incomprensibili.
L'Alina deve essere del tipo spiritoso, perché non solo continua, ogni tanto le dice qualcosa con aria sarcastica.
Dopo ti sborro in bocca, prometto.
Ok, risponde senza esitazioni, ma fanno altri 20.
Naaaa, mercanteggio, per altri 20, mi dai il culo.
See, ride lei, per il culo ce ne vogliono almeno 50. E forse neppure per 50, dopo che l'ho visto.
Ok, accetto, altri 50.
No, dai, sorride, scherzavo. È troppo grosso.
Questa tipa comincia a piacermi.
Anch'io scherzavo, confesso, il tuo culo non vale tanto.
Lei si piega a ridere e si contorce fissandomi furbetta.
Scopa lei in culo, propone, a lei piace.
Nonnò, rispondo, preferisco il tuo. Ma non vale altri 50.
La bimba alza le spalle riflettendo.
Mi tiro via e faccio mettere la morettina su un fianco.
Sento che mi sto un po' ammosciando. Forse avrei dovuto prendere un aiutino chimico.
Ma prima non ci ho pensato. E adesso è troppo tardi.
Mi tiro su il preservativo, che si era leggermente sfilato.
Anche se non marmoreo, il mio affare tiene.
Le entro a sponda fino alle palle, mentre inarca la schiena.
Le ho strappato un breve mugolio di sorpresa.
E un successivo lungo ansito di rilassamento.
Perché non la baci? Le chiedo.
La morettina si tiene una tetta, ad occhi chiusi.
Forse pensa che sia il suo moroso a scoparla.
In ogni caso, un guizzo di eccitazione mi irrigidisce la schiena.
Non so, confessa titubante la biondina, non lo abbiamo mai fatto.
Ti piacciono le donne? Insisto.
Non so, mormora, non ho mai provato. Non mi eccita l'idea.
Anche a te piace il cazzo, sorrido.
Sì, ammette.
Mi guarda seria.
Cioè, precisa, mi piacciono gli uomini, non so.
Certo, le ricambio il sorriso, stavo scherzando.
Anche se titubante, avvicina il viso a quello della morettina.
Le accarezza una guancia e le sfiora le labbra con le sue.
L'altra apre gli occhioni grigi e le sorride appena.
Le dice qualcosa e richiude gli occhi.
La biondina allunga un altro bacino all'amica.
Poi si mette supina e si infila un dito nella passerina.
Vuoi che mi tocco, intanto? Chiede.
Alzo le spalle.
Se ti va, mormoro.
Anche lei fa una smorfia incurante.
Siamo qui per te, mormora.
Cosa ti ha detto la tua amica? Investigo.
Che ce l'hai grosso, risponde, e che le piacerebbe a pecora.
Così non mi vede, annuisco, ok.
Mi tiro su e faccio girare l'amica.
Lei si mette in ginocchio e allarga le gambe.
Io gliele chiudo, la faccio un po' arretrare. E la penetro di nuovo, stando in piedi sullo scendiletto.
Lei spinge indietro il sedere abbastanza convinta.
Accidenti, mi dico, ma è bagnata davvero.
Le tocco il buchino scuro. Mi inumidisco un dito e glielo infilo tutto dentro.
Contro ogni aspettativa, comincio ad essere ingrifato sul serio.
La ragazza mi lascia fare. Spinge ancora indietro il sedere, imponendo il suo ritmo alla scopata.
La biondina sembra sorpresa quanto me.
Che troia, borbotta.
Si alza e va a sorseggiare dalla mia lattina sul comodino.
Poi torna a mettersi a pecora di fianco all'amica.
Le sfiora di nuovo le labbra, mentre le infilo una mano tra le natiche.
La radio sveglia annuncia la mezzanotte.
Non c'è più tanto tempo.
Sto pensando di uscire dalla Monica e inforcare l'Alina.
Ma la biondina si alza di nuovo.
Mi sorride e beve un altro sorso di coca.
Dici che devo? Mi chiede incerta.
Certo che sì, confermo.
Alza le spalle con aria intrigante e si infila sotto l'amica a sessantanove.
La Monichina le poggia le tette sul pancino. E una guancia sul pube.
È rossa di vergogna e sudata per il caldo e la concitazione.
L'Alina, invece non vedo.
Ma mi stringe lo scroto quasi dolorosamente. E sento ogni tanto che spinge la sua lingua contro il mio affare.
Per cui, provo a uscire.
Lei me lo imbocca e me lo succhia avidamente.
Poi lo prende con due dita e lo rimette di nuovo nella passera dell'amica.
Adesso sono davvero in gran tiro.
La schiena mi fa un male cane, è vero, e forse è colpa della tensione e dell'erezione prolungata.
Faccio abbassare un po' il sedere della Monica e mi allungo a baciarla.
Lei torce la testa e mi ricambia.
Poi, le spingo il viso contro il pube dell'Alina.
Lei le dà una lappatina titubante.
Le stringo la nuca, pompando sempre più forte.
Finalmente si decide. Apre la patatina dell'amica con due dita e ci ficca dentro la lingua.
Ti sborro in bocca, muggisco all'Alina.
Ok, risponde lei con voce arrochita emergendo.
La morettina ha le natiche tremanti. E ansima un pochetto.
Probabilmente è solo scena, ma si va a puttane per essere ingannati.
Anche l'Alina stringe le gambe intorno alla testa dell'amica mugolando.
Adesso! Bramisco.
Esco con un rumore di risucchio e lei mi strappa via il preservativo.
E, mentre comincio a venire, lo imbocca.
Si vede che non è abituata, perché non tira e non usa la lingua.
Ma la prende tutta.
Porca puttana! Era dai tempi della Cristina russa che non mi capitava di venire tanto copiosamente scopando.
Finisco con un gemito di liberazione e mi accascio sopra le due, ancora allacciate.
Ma penso alla biondina e alla sborra che ha in bocca. Per cui, prendo un fazzolettino e glielo allungo.
C'è una scatola sul comodino.
Lei ci sputa dentro il bolo bianchiccio e poi si mette le mani in faccia per nascondere la vergogna.
Anche l'altra sembra parecchio imbarazzata.
Si tira via dinoccolata e si gira a sorridermi torva.
Poi, va in bagno sgambettando.
La sento aprire il getto della doccia.
Mi stendo di fianco all'Alina e le tiro via le mani dalla faccia.
È arrossita e madida di sudore.
La bacio sulle labbra.
Sono sporca, obietta.
Fa lo stesso, l'assicuro.
E le infilo la lingua tra le labbra.
Mentre ci baciamo, le tocco al patatina delicatamente.
Lei stringe le gambette e mugola appena.
Non capisco se le piace o se le dà fastidio. Ma non si tira via.
Scendo a baciarle il seno.
Devo sciacquarmi la bocca, dice flebile.
Si alza e scappa anche lei in bagno.
La sento aprire il rubinetto e scatarrare.
Ma torna subito.
Guarda la sveglia, ormai l'ora è passata.
Ma torna a stendersi al mio fianco.
Tanto, la sua amica si sta ancora lavando.
Dopo, probabilmente, lo farà lei.
Non era mai successo prima, ribadisce.
Arrossisce di nuovo.
La tua amica è venuta, dichiaro.
Come fai a saperlo? Chiede lei curiosa.
Non so, ammetto, solo una sensazione. Ma credo sia venuta, mentre la leccavi.
Non l'avevo mai fatto, ribadisce pensierosa.
Vai a lavarti anche tu, propongo.
La ragazzina annuisce titubante.
Dici che devo andare? Chiede conferma.
Certo, sussurro.
Io non sono venuta, dichiara seria.
Appunto, insisto.
Si alza un po' disorientata.
Non sembra ancora convinta.
Eri eccitata? Chiedo evidente.
Lei fa una smorfia poco convinta.
Poi, alza le spalle e va in bagno.
Mentre chiude la porta, lascio altre cinquanta carte sulla scrivania e mi infilo tra le lenzuola.
Sono vecchio e stanco.
La doccia scroscia ipnotica. E sento appena il borbottio della loro conversazione.
Avrei voglia di fumare, ma il sopore supera ogni desiderio.
Per cui, mi stendo meglio e mi addormento quasi subito.
Soddisfatto per aver compiuto anche oggi il mio dovere.
E finalmente sereno.
 
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Questo racconto è frutto esclusivo della mia fantasia. Eventuali riferimenti a persone esistenti o a fatti realmente accaduti sono del tutto casuali


L'emozione di esistere


Dopo quella volta, voglio dire, mi ero ripromesso di non cascarci più.
Avevo aspettato qualche settimana e avevo rifatto le analisi.
Certo, avrei dovuto ripeterle qualche mese dopo, ma intanto dicevano che ero negativo.
Non è che avessi smesso con le puttane, ecco. Diciamo che avevo rallentato un po'.
E comunque, basta cabrio.
L'unica fidelizzata che mi era rimasta, l'Olga, mi prendeva la notte tardi, quando aveva finito.
Spesso dormivo da lei.
Non facevamo mai sesso, la notte. Diceva che dopo aver preso tutti quei cazzi, non sentiva più niente.
Ci abbracciavamo e ci addormentavamo esausti, per ragioni diverse.
La mia vita da qualche tempo era diventata febbrile e frustrante.
Troppe cose da fare, troppi viaggi di lavoro. Mia moglie sempre più lontana per un incarico a Bruxelles, cui teneva tantissimo.
Andavo a Roma almeno una volta la settimana. E spesso a Barcellona e a Monaco.
Alla mia età, l'entusiasmo è un lusso.
La casa di Olga era comoda, proprio dietro la stazione.
Si sentiva qualche treno passare la mattina presto.
Mi svegliavo sempre prima dell'alba e non riuscivo più ad addormentarmi.
Così, mi alzavo e mi sedevo alla finestra della sua cucina a fumare guardando la nebbiolina di caldo che saliva dalle case della Bolognina, a nord.
E pensavo alla Nadia.
Non lo facevo apposta. Anzi, la mia determinazione era proprio di non pensarci.
Dopo l'ultima volta, soprattutto.
Ma mi scappava.
Guardavo l'aria torbida dell'alba, che confondeva lontananze di orizzonti. E pensavo a lei.
Ogni tanto mi rimproveravo. Mi ricordavo con severità il ciclo di analisi ancora da fare e la sottile angoscia che ogni tanto mi pervadeva.
Accendevo un'altra sigaretta, stappavo una lattina di qualcosa e provavo a pensare a cose di lavoro.
Cercavo un grumo di desiderio, utile a tornare in stanza, svegliare l'Olga e farci l'amore.
Ma prima o poi mi distraevo.
E ripensavo a lei.
Olga sapeva di Nadia. Si conoscevano da molti anni.
Per un periodo avevano anche fatto la strada insieme, a Borgo.
Ma poi c'era stato qualche screzio. Nessuna delle due aveva voluto raccontarmi.
Olga sapeva anche che Nadia stava facendo la stronza.
Ma aveva deciso di rischiare e prendermi lo stesso.
La tenevo informata degli esiti delle mie analisi.
Non sembrava neppure troppo preoccupata.
Anche se ogni tanto mi chiedeva ansiosa se avevo delle novità.
Del resto, anche lei faceva senza con il suo ragazzo serbo.
E anche lui avrebbe potuto tirare su qualcosa scopando in giro. Che se sapevamo?
Certo, una puttana che fa tutto cabrio, con tutti, da mesi, è una bomba a orologeria.
E Nadia, anche se negava testardamente l'evidenza, faceva proprio così
Avevo promesso a Olga che non l'avrei più vista. E che mi sarei sottoposto periodicamente a dei test.
La ragazza aveva sorriso poco convinta.
Sapeva che nonostante tutto, provavo per la sua amica un desiderio insopprimibile.
Con tutto che, alla mia età, anche il desiderio è un lusso.
Una moneta che ha corso il luoghi remoti dell'esistenza.
La mattina presto, dopo l'alba, trovavo qualche ragione per svegliarla.
Facevamo l'amore in silenzio, un po' confusi dal sonno, lei, e dall'insonnia, io.
Non durava molto. Aveva l'orgasmo facile, l'Olga. E il culo accogliente.
Mi piaceva parecchio, inutile negarlo. Aveva quel qualcosa di misterioso che ti spingeva ad esplorarla.
Non come Nadia, certo, ma abbastanza per rinnovare quella ricerca.
Quella sera ero uscito con Jaco e Beppe.
Era un po' che non ci vedevamo. Dopo la malattia, Jaco usciva poco.
E Beppe tornava a Bologna solo qualche volta.
Niente era ormai come ai vecchi tempi.
Quando passavamo quasi tutte le notti insieme.
In inesorabili ricerche di venire sorpresi e interminabili discorsi intorno al piacere e al desiderio.
Quella sera, avevamo cenato in un ristorante del centro e poi avevamo esplorato le strade, in cerca di qualche fascinazione.
Ma non c'erano tante ragazze e il senso di delusione macerava tutti e tre.
Beppe diceva che a Praga, dove ormai abitava, si trovava di meglio e più facilmente.
Insisteva sempre perché andassimo da lui a passare qualche giorno.
Ma né Jaco né io eravamo troppo convinti.
Lui, da quando si era ammalato, era sempre triste e preoccupato.
Io orfano dei vecchi entusiasmi.
In ogni caso, quella sera girammo svogliatamente per un paio d'ore, discutendo del senso della vita, dell'amore e di tutto il resto.
Beppe non ricordava le vicende della Guida galattica per autostoppisti. E noi lo prendevamo in giro, affermando in continuazione, che la risposta alla domanda fondamentale era 42.
Verso l'una avevamo preso due ragazze a Borgo ed eravamo andati a casa di Beppe.
Lui le conosceva superficialmente.
Festeggiarono con qualche striscia, per me proibitissima a causa del cuore, e facemmo un po' di giochini, come ai vecchi tempi.
E alle due avevo mandato un messaggino alla Olga, per chiederle se era ancora sveglia e se potevo passare.
Così, ero salito e lei mi aveva abbracciato.
Le fidelizzate sono fantastiche.
Se non fosse tanto impegnativo tenersele, ne avrei a stuoli.
Con lei, poi, si era stabilita una complicità che si rinnovava ad ogni incontro.
Mi piaceva essere blandamente sorpreso e confortevolmente confermato.
Riconoscere è rassicurante, imparare inquieta.
Era stanchissima. Forse quel giorno aveva preso più cazzi del suo standard.
Per cui, mi spogliai e mi infilai nel suo letto.
E aspettai che si addormentasse, accarezzandole amorevolmente i biondi capelli corti.
Mi addormentai anche, per una mezzora.
Ma verso le tre, mi alzai e andai a fumare alla finestra della cucina. Che dava sulle strade ortogonali dietro la concessionaria e verso il nuovo Comune.
L'ultima volta con la Nadia, circa un mese prima, era successo che mi ero fermato a bere un caffè al bar notturno di porta Mazzini.
Faceva abbastanza fresco. Per cui, invece di tornare subito in macchina, avevo fatto due chiacchiere con un tipo che conoscevo, sotto il portico.
E lei era arrivata.
Principesca, alta, piena, orgogliosa del suo essere puttana.
Era scesa dall'auto e si era girata appena a sorridere al ceffo che l'aveva accompagnata.
Poi, con una smorfia di superiorità, mi aveva fatto un cenno di saluto entrando nel bar.
Quasi come se neppure ci conoscessimo.
Una metro e ottanta di figa dalla splendore controverso. Sprezzante e altera.
Con su solo una gonnellina e una canotta, scarpe basse e una collanina di plastica al collo, era più sexy di tutta la coorte di otr scosciate in autoreggenti e tacco quindici dell'intero giro dei viali.
'Fanculo, era ormai un mese che non la vedevo. E solo in quel momento mi ero accorto che mi era mancata da morire.
Probabilmente non portava niente sotto. Per comodità, certo. E sprezzo di ogni pudore.
Il mio conoscente se ne era andato, per cui l'avevo aspettata fumando innervosito. E con un guizzo di irrigidimento su per la schiena.
Quasi sicuramente era già impegnata. La Nadia aveva sempre fretta, si spostava continuamente.
Avevo sbirciato dalla vetrina. Rideva sguaiatamente parlando con uno degli arabi papponi che girano sempre da quelle parti. L'anca poggiata al bancone, sorseggiando un caffè.
Troia, mi dicevo con un rigurgito di passione repressa.
Con me era sempre pensierosa e triste.
Strapparle un sorriso mi rendeva felice.
Mi ero acceso un'altra sigaretta, per inghiottire il groppo di gelosia.
'Fanculo, borbottò la Olga entrando in cucina.
Prese una lattina dal frigo e mi si venne a sedere in grembo.
Non dormi mai, osservò accarezzandomi il viso, hai la faccia stanca.
Mi prese la sigaretta e fece un paio di tiri.
Cosa guardi? Chiese indicando fuori dalla finestra.
Niente, sorrisi, è bello.
Lei osservò attentamente la scacchiera di stradine deserte e i pochi lampioni ancora accesi.
Fa schifo, ridacchiò scuotendo piacevolmente le grosse tette, la Bolognina è uno dei posti più brutti del mondo.
La Olga mi divertiva immancabilmente.
Che cazzo ne sai di posti brutti? Obiettai tastandole le natiche, nella tua vita sei stata solo a Leopoli e a Kiev. E una volta in gita a Parigi.
Fa cagare, insistette, è caldo, ci sono le zanzare ed è pieno di teste di cazzo.
Rise di nuovo e mi diede un bacino sulle labbra.
Fissandomi con i suoi impressionanti occhi verdi.
Stai ancora pensando a lei, constatò.
Si accomodò meglio, avvicinando il suo pube al mio affare ancora moscio.
Scopiamo, propose, poi te ne vai e mi lasci dormire.
Ti ho disturbato? Chiesi sorpreso.
Sì, ammise, ogni tanto ti raschi la gola. Ti sento, mi innervosisci.
Mi spiace, dichiarai sconfortato, non volevo.
Solo quando pensi a lei, osservò, di solito no.
Olga si esprimeva in un italiano quasi impeccabile. Del resto, era in Italia da quando era bambina, i suoi erano separati e ogni estate tornava dal padre in Ucraina. Ma aveva studiato a Bologna ed era diventata puttana non per bisogno ma per ribellione a quella stronza di sua madre. Diceva.
In realtà, ma non negava questa evidenza, a sedici anni aveva cominciato a impolverarsi il naso. E a diciotto, appena raggiunta l'età, aveva deciso di battere per mantenersi in tiro senza limiti e freni.
Lei e quel bastardo del suo fidanzato serbo. Che non faceva un cazzo, nella vita, a parte scoparla un paio di volte la settimana.
Adesso, a quasi venticinque anni, non se la cavava neppure male.
Diceva che prima dei trenta avrebbe smesso e avrebbe fatto la portiera d'albergo, lavoro per il quale aveva studiato.
Ok, mi arresi, torniamo a letto.
Di solito, si faceva una pista finito di lavorare, verso mezzanotte.
E quanto arrivavo aveva già metabolizzato gran parte della polverina bianca.
Se rimanevamo ancora alzati, magari si faceva un'altra riga. E col cazzo che dopo si dormiva.
La presi per mano e la riportai in camera.
Lei prese qualche goccia di ansiolitico e si stese al mio fianco.
Se vuoi, mormorò, facciamo l'amore adesso.
Grazie, sorrisi compiaciuto per la gentilezza, ma adesso lo faresti solo per calmarmi. A me, invece, piace che tu sia partecipe.
Non l'avevo fidelizzata a caso. Olga non era neppure tanto brava, tecnicamente, ma si dava da fare e provava una certa reciprocità. In ogni caso, aveva orgasmi.
Questo fa la differenza.
Sai perché mi piaci tanto? Chiese retorica.
Perché sono bellissimo, scherzai, e scopo da dio.
A parte queste evidenze, mi ricambiò lei sarcastica.
Spara, la invitai.
È, annuì alla penombra della stanza, che sei più intelligente di me.
Il che, osservai, non rappresenta certamente un gran merito.
La ragazza si contorse in una risata sommessa.
Poi venne a mordermi una spalla abbracciandomi quasi dolorosamente.
Si placò e prese un piccolo broncio.
Mi hai offesa, mormorò.
Stavo scherzando, spiegai.
No, fece lei, è vero. E forse è anche per questo che mi piaci. Percepisco la sottile contraddizione tra il disprezzo e l'ammirazione che provi per me.
Dici delle cose maledettamente intelligenti, scherzai di nuovo allungandole le labbra.
Che continuano ad essere un po' offensive, scosse la testa delusa evitando il contatto della mia bocca.
Mi spiaceva che stesse cambiando umore.
L'unico vantaggio del farsi è che si dimentica presto. E domattina non si sarebbe neppure ricordata di quel piccolo screzio.
Sai che mi piaci immensamente, dichiarai sinceramente.
È vero, ammise con un sospiro.
Si girò su un fianco, dandomi la schiena. E l'abbracciai da dietro, come sapevo le piaceva.
Dopo qualche minuto, quando mi accorsi che si era addormentata, mi assopii.
Ma mi svegliai di nuovo una mezzora dopo.
Olga era inesorabilmente più bella di Nadia.
A parte che avevano approssimativamente la stessa altezza, Olga aveva queste gambe lunghissime, perfettamente dritte. Il seno prosperoso e un sedere ampio e morbido.
Un viso da bambina cattiva.
Un concentrato di impeccabili attributi secondari femminili.
Jaco la trovava meravigliosa, ma lo intimidiva. Non aveva mai superato l'ambivalenza di quell'attrazione, per cui, anche se li avevo fatti conoscere, non era mai venuto a trovarla.
Beppe, invece, c'era stato. La considerava bellissima ma gelida.
Olga lo giudicava sgradevole ed era contenta che non l'avesse più cercata.
Nadia, invece, era soda e liscia. Io la definivo aerodinamica. Poco seno, gambe piene, sedere minuscolo. Un corpo di estetica antica.
Intensi occhi neri dal taglio vagamente orientale e un raro sorriso che lasciava immaginare un pozzo di perversione.
Quel che incantava era il modo. Come si muoveva, come camminava, come ti guardava, soprattutto come ti guardava.
Mentre la cifra di Olga era l'evidenza, quella di Nadia era l'inganno.
Mi accorsi che mi stavo per raschiare la gola e mi trattenni.
Cazzo, l'Olga aveva ragione, quando pensavo alla Nadia, mi innervosivo.
'Fanculo, mi sentivo sempre più agitato.
Forse adesso si era addormentata più profondamente.
Aspettai ancora un po', poi mi alzai di nuovo, cercando di fare meno rumore possibile.
Per non disturbarla, presi una birra dal frigo, il palmare e andai a fumare in bagno.
Mi infilai le cuffiette e ascoltai alla poca luce che penetrava dalla tapparella abbassata un vecchio disco di Dylan.
Don't Think Twice, It's All Right, diceva a un certo punto.
Era esattamente il mio pensiero, la sera dell'ultima volta con Nadia.
Non pensarci due volte, va tutto bene.
Quando Nadia era uscita dal bar, dovevano essere ormai le due.
Senza dire niente, si era poggiata al muro di fianco a me e mi aveva guardato con un miraggio di sorriso tra le labbra.
Le avevo allungato una sigaretta e avevamo fumato in silenzio.
Non ne aveva mai.
Non aveva mai neppure la borsa e una volta mi aveva detto che i soldi li portava in tasca.
Dove li tenesse quella sera proprio non si capiva. La gonnellina era tanto striminzita che difficilmente avrebbe potuto contenere qualche nascondiglio.
Trattava il denaro, come tutto il resto, con superiore noncuranza.
Finalmente, aveva buttato la cicca e mi aveva interrogato con un'alzata del mento.
Così, mi ero avviato ed eravamo saliti sulla mia macchina.
A Jaco Nadia piaceva tantissimo, se l'era fatta diverse volte. Ma dopo la malattia aveva quasi smesso di andare a puttane. Ogni tanto mi chiedeva come stava con un velo di nostalgia degli occhi.
Beppe, invece, l'aveva liquidata classificandola figa di legno. Delle volte, si sbagliava clamorosamente.
In ogni caso, ero tanto eccitato che non sarei riuscito ad arrivare a casa.
Così, avevo girato sui giardinetti del Caroli. E prima di scendere le avevo allungato un urbano.
C'era nessuno in giro a quell'ora.
'Fanculo, era stato davvero una grande cazzata.
Lei sembrava divertita.
Era scesa e si era inginocchiata su una panchina. Le tette poggiate allo schienale.
Tenendo i soldi in mano.
La gonnellina era tanto corta, che appena si era inginocchiale le si era scoperto il sedere. Era bastato poggiarglielo per entrare.
Come avevo intuito, non portava le mutande.
Perché lo stavo facendo?
Perché quando la penetravi sentivi che a lei piaceva immensamente.
Nadia parlava pochissimo, ma una delle rare volte in cui si era lasciata andare a qualche confidenza, mi aveva confessato che, certo non con tutti, ma qualche volta provava un piacere quasi doloroso. Che non capiva cosa fosse l'orgasmo di cui parlavano le sue amiche.
Che lei probabilmente aveva qualche malattia, perché, anche se non con tutti, a lei sembrava di avere orgasmi in continuazione, mentre scopava.
Questa era la ragione.
Da quella volta, la volta della confidenza, avevamo smesso completamente di fare bocca, in cui era bravissima. E i suoi Cim erano assai richiesti, perché non smetteva di succhiare fino a quando non ti aveva prosciugato.
Ma a lei non piaceva, mi aveva detto, era lavoro. Lo faceva per i soldi.
Come tutto il resto, certo.
Ma, anche se non con tutti, qualche volta lei provava un immenso, indescrivibile piacere.
E con me, anche se non sempre, capitava.
Ma stava capitando, quella sera. E io l'avevo saputo da subito che sarebbe capitato, dal momento in cui l'avevo vista scendere dalla macchina davanti al bar.
Con lei sperimentavo una specie di telepatia predittiva. Gran parte del mio piacere stava nel constatare che le mie previsioni erano giuste.
Questo, a dire il vero, con la razionalità ormai lontana del ripensamento.
Mentre le entravo a pecora, lei inginocchiata scomodamente sulla panchina, l'unica cosa che contava era quella specie di sbandamento condiviso, il brivido insopprimibile che mi saliva per la schiena.
La vertigine improvvisa di essere dentro di lei.
Certo, ti sconcertava, perché non manifestava in alcun modo il suo piacere. Non mugolava, non ansava, si muoveva pochissimo.
Ma ad ogni spinta, sentivi il suo temporaneo deliquio. La sua ragione capitolava ogni volta, mentre a me era concesso di farlo una volta sola, alla fine di un lungo processo entropico.
Se ti fermavi, avvertivi la sua aspettativa. Se spingevi forte, ti sembrava quasi di essere lei.
Anche quella sera, mentre la scopavo lentamente, tenendola per i capelli e stringendole la nuca, anch'io sentivo, forse, il suo stesso immenso indescrivibile piacere.
Lei stringeva convulsamente le mani, stropicciando le incolpevoli 50 carte.
Per questo, ci andavo sempre. Ogni volta che la incontravo. Incurante di qualsiasi precauzione.
E nonostante avessi spergiurato che non l'avrei mai più fatto.
I pantaloni arrotolati alle caviglie, la maglietta già macchiata dei suoi umori, ad ogni spinta rinnovavo il desiderio di essere dentro di lei per sempre.
Scopare è una sottile metafora dell'immortalità, credetemi.
E l'eiaculazione la prova che il secondo principio della termodinamica cancella ogni metafora elettiva.
Dio! Era durato un'eternità.
Sempre in figa, sempre lentamente, per gustare appieno ogni secondo di quel coito supremo.
Sempre duro come un sasso, come ormai raramente mi capita, e quasi dolorosamente sensibile.
Alla fine mi aveva spinto indietro e si era girata.
Si era poggiata ad un albero. E avevamo continuato in piedi, con lei che mi fissava dritto negli occhi e ogni tanto si tirava via una ciocca di capelli dalla fronte sudata.
Un piccolo rivolo di saliva che le scendeva dalle labbra semichiuse.
Le gambe strette, che la rendevano quasi impenetrabile. E la solita espressione di sfida.
Ma era scomodissimo.
Era troppo concentrata per preoccuparsi dei soldi, per cui aveva lasciato cadere la banconota nell'erba sotto l'albero.
Dopo un po' mi aveva spinto via e mi aveva fatto segno di sedermi.
Mi si era accomodata in grembo e, per una volta, aveva emesso un piccolo ansito.
Io non vengo quasi mai, colpa della prostata.
Per venire devo intraprendere un complicato rito manipolatorio. E impegnarmi molto.
Forse c'è di mezzo anche una qualche oralità, perché con mia moglie e con Paola vengo scopando.
Ma con le puttane mi capita raramente.
Con Nadia, quando capitava.
Con Olga, qualche volta.
Ma a quel punto, lei sapeva, come sapevo io, che le sarebbe bastato qualche movimento profondo per farmi venire dentro di lei. Entrambi eravamo consapevoli che lei avrebbe deciso quando e come.
Confuso dallo stordimento imprescindibile, l'unica cosa che volevo era che non si stancasse troppo presto.
Ma, anche se non con tutti, quando le piaceva non si stancava affatto.
Una volta lo avevamo fatto per quasi sei ore, interrompendoci solo ogni tanto per andare in bagno a pisciare e fumare una sigaretta. In questi casi, la prostata debole è un vantaggio.
Tutto un pomeriggio a sfregare il cazzo nella sua passera. Dopo, a parte la schiena rotta, mi bruciava il filetto al punto che ero andato in farmacia a farmi dare un anestetico locale.
Ma quella sera, quella che mi ero ripromesso sarebbe stata l'ultima volta, non poteva durare tutta la notte.
A parte che ci potevano vedere dai condomini o qualcuno avrebbe potuto parcheggiare lì vicino, ormai erano quasi le cinque. E lei, prima o poi doveva andare a dormire.
Ogni volta Nadia mi regalava un comportamento nuovo. Sembrava che mi adescasse, mi invitasse a tornare, per sperimentarne un altro, diverso, la prossima volta.
Non dirlo a nessuno, mi aveva sussurrato quella sera in un orecchio mentre accelerava la sua danza sul mio ventre.
E mentre le venivo dentro, lei aveva mugolato brevemente, stringendomi il petto e strabuzzando gli occhi.
Mentre ancora ero scosso dalle ondate, lei mi aveva preso una mano e me l'aveva portata tra le sue cosce. A costatare l'umido dei suoi copiosissimi umori.
Era già capitato che emettesse un piccolo schizzo. Mica gli squirt che vedi nei film, sia chiaro, giusto una piccola emissione.
Ma questa volta, sembrava che mi avesse pisciato addosso. Avevo la pancia fradicia e la preziosa Lacoste verde, regalo di mia moglie, macchiata di piccole gocce.
Continuavo a fremerle dentro, nonostante lo sconquasso di un'eiaculazione violentissima. E lei sembrava divertita dalle mie contrazioni.
Cercava persino di imitarle, stringendo la vagina con aria seria e sperimentativa.
Poi, come niente fosse, si era tirata via. Aveva abbassato la gonnellina e si era seduta al mio fianco, facendomi segno di darle una sigaretta.
Aveva fumato con calma ancestrale, poi si era piegata a raccogliere le cinquanta carte da terra.
Mostrandomi la sua patatina rosa, quasi infantile, da dietro. Ancora impiastricciata della mia sborra.
'Fanculo, mi lamentai.
Seduto sul vater, nel cesso dell'Olga, mi era diventato duro.
Spensi l'I-pad. Il vecchio disco di Dylan adesso mi disturbava.
Erano ormai le cinque passate e la mia eccitazione quasi fastidiosa.
Feci l'ultimo sorso della birra ormai tiepida e pisciai faticosamente, impacciato dall'erezione.
Poi tornai in camera da letto.
Olga si lamentò, quando l'accarezzai da dietro.
Ma si girò biascicando e mi sorrise.
Le piaceva che la svegliassi per fare l'amore.
Il ricordo dei cazzi del giorno prima doveva essersi mitigato con il sonno e la rilassatezza.
Le toccai il seno e la pancia, come le piaceva.
Poi scesi a vellicarle la patatina glabra.
Lei si girò e mi infilò la lingua tra i denti.
Mi avvinghiò una gamba intorno a un'anca e si sfregò contro la mia erezione grufolando appena.
Eravamo davvero entrambi un po' offuscati, anche se per ragioni diverse.
La feci girare di nuovo su un fianco. E la penetrai da dietro, dolcemente ma con decisione.
Lei singultò per la sorpresa. E torse il collo per baciarmi.
Olga era sempre pronta. In ogni caso, le bastava anche solo una carezza per bagnarsi.
Era bellissimo. Anche con lei provavo quella specie di compenetrazione ingovernabile.
Anche con lei, sperimentavamo ogni volta la telepatia debole della reciprocità.
L'emozione di esistere.
Mi spinsi più profondamente dentro di lei, stringendole un seno e toccandola per davanti.
Non era un esercizio facile.
Ci riesco solo perché ho esperienza e grande abnegazione. Mi dicevo praticando la nobile e antica arte dell'autoironia.
Ero concentratissimo sul mio e suo piacere, sicuro di voler far continuare quella delizia il più possibile.
Ma un grumo di catarro mi disturbava il respiro. Per cui, mi schiarii la gola.
La ragazza spinse indietro il sedere per farsi penetrare ancora più profondamente.
Torse ancora il collo per farsi baciare.
Cazzo, mormorò roca mordendomi le labbra, stai ancora pensando a lei.
È vero, ammisi cominciando a sentire l'orgasmo che saliva dal ventre.
E lei si spinse ancora più indietro per accogliermi.
 
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Questo racconto è frutto esclusivo della mia fantasia. Eventuali riferimenti a persone esistenti o a fatti realmente accaduti sono del tutto casuali



Corrina, Corrina

Corrina, Corrina, Gal, what's on your mind?
Jaco canta a bassa voce.
Avrebbe dovuto accordare la chitarra in re aperto. E mettere il capotasto sulla quarta.
Ma non fa differenza. E comunque, la suona abbastanza bene lo stesso.
Ormai quasi le tre.
La ragazza non parla tanto bene italiano.
Ha capito che la canzone è dedicata a lei, ma non conosce abbastanza l'inglese per capirne il senso.
Si è seduta composta sul divano e ascolta con un sorriso abbastanza imbarazzato.
I been sittin' thinkin' about you baby, just can't keep from cryin'.
Di tutti noi, certo, sono io quello che suona meglio la chitarra, ma sono l'unico che strimpella anche il contra.
Per cui, lascio sempre a loro l'onerosa scelta tra la Martin e la Taylor.
Questa volta ci siamo fermati in tavernetta.
Ci sono anche un pianoforte e una batteria.
Che comunque Beppe non sa suonare.
Ha comprato tutti questi strumenti perché gli piaceva l'idea che i suoi amici potessero suonarli insieme a lui.
La casa è inutilmente lussuosa.
E tragicamente vuota.
Da quando sua moglie lo ha lasciato.
E lui è andato a vivere a Praga.
Corrina, Corrina, Gal, what's on your mind?
Non nell'ordine esatto e non con dipendenza casuale.
La moglie lo ha lasciato perché non ne poteva più di un marito sempre fatto di coca e che si sputtanava in donnine una considerevole fetta del frutto del suo prestigioso lavoro di commercialista intrallazzato con la politica.
Che cazzo gliene poteva fregare mai? Si chiedeva ai primi tempi Beppe incredulo.
Non lo ho mai fatto mancare niente. Una casa di 400 metri quadrati, con due garage e sei bagni, un ettaro di parco. A due passi dal centro.
Fa quel cazzo che le pare senza che io le chieda mai niente. E ogni settimana spende in negozi di moda l'equivalente dello stipendio di un funzionario di banca, 'sta stronza.
Mi ha pure tradito per anni con un idiota di maestro di tennis. Gioca a burraco due sere la settimane, va a teatro e al cinema le altre. E anche se torna alle quattro, nessuno ci fa caso. Ogni pomeriggio esce con le amiche, prendono il tè in centro e probabilmente vanno a rimorchiare. Che cazzo gliene dovrebbe mai fregare?
L'ultimo regalo che le aveva fatto era una lussuosa Suv tedesca.
Che ovviamente lei si era tenuta.
Ain't got Corrina, I can't be satisfied.
Una donna viene una volta al mese a spolverargliela, nel caso ritorni per uno dei suoi imprevedibili affari internazionali.
Ma non se ne è andato perché sua moglie l'ha lasciato, per quanto la cosa qualcosa deve aver mosso nell'imperturbabile superiorità che sempre ha dimostrato nei confronti degli eventi.
No, a Praga ci è dovuto andare perché c'era il rischio che la finanza lo venisse a cercare.
Uno dei politici per cui lavorava si era incasinato con degli appalti per la variante di valico. E doveva aver fatto qualche errore con i suoi padroni romani.
Per cui, avevano rischiato grosso. Un giudice prezzolato dalla fazione che in quel periodo stava all'opposizione aveva lavorato a lungo sugli affari in cui era coinvolto.
Fortuna che aveva questo ufficio già aperto a Praga, da cui curava lucrosi interessi in centro Europa. Per cui, diciamo, si era eclissato per un po', in attesa che le acque si calmassero.
Got the devil on my trail, and hell by my side.
Jaco suona con imprecisa e poetica delicatezza. E canta a bassa voce.
Mentre io lo accompagno con il contrabbasso.
Con la chemio era diventato completamente calvo. E ancora adesso i capelli gli crescono irregolari, lasciando scoperte zone imprevedibili della sua testa. Per cui, si rade completamente.
Potrà dire di essere guarito e tirare un sospiro di sollievo solo l'anno prossimo.
Una volta portava la barba, come me.
Nella cantinetta si sta bene.
Abbiamo acceso il fuoco nel camino, anche se fuori non fa tanto freddo.
La ragazzina ci ascolta, forse non capendo bene perché non andiamo a scopare.
La sua amica si è già appartata con il tipo alto e con i baffi.
C'è una stanza da letto, di fianco alla cucina.
Beppe è tornato ieri sera da Praga. Da qualche mese sembra che le cose si siano calmate.
Per cui, fa qualche scappata.
Cerca di riallacciare le relazioni, cura i vecchi clienti e, verso sera, ci chiama per rinnovare la nostra amicizia.
Sembra non essersi accorto che, nel frattempo, le nostre vite sono cambiate almeno quanto la sua.
Corrina, Corrina, Baby please come home.
La ragazzina è sempre più disorientata.
L'abbiamo pagata per scopare. Che cazzo sta succedendo?
La sua amica è via ormai da un po'.
Ma a Praga adesso Beppe si trova bene, forse meglio di qui.
I been worryin' about you baby, You been gone too long.
Alla fin fine, che differenza potrà mai fare?
La ragazzina potrebbe forse essere la trecentesima per entrambi.
Quale sorpresa potrebbe mai riservarci?
Si tiene il mento con le mani. I gomiti poggiati sulle ginocchia.
Seduta composta, da brava ragazza.
Ha occhi scuri e i capelli tirati su.
Un breve sorriso impreciso e i denti storti davanti.
Si è tolta gli stivali dai tacchi troppo alti. E poggiato i piedi sul tappeto folto con un sospiro di sollievo.
La sua amica si è immediatamente appartata con l'uomo dai baffi. E adesso non sa bene cosa stia accadendo.
Comunque, finché non le chiedono niente, va bene.
Ai tempi, venivamo raramente nella tavernetta al piano interrato.
Salivamo nella zona giorno per bere qualcosa e poi al primo piano.
Mansardato e lussuosissimo.
Quattro stanze, ciascuna con il suo bagno.
Rosa, gialla, verde e azzurra.
A me toccava sempre quella azzurra.
A Jaco quella gialla.
Questo succedeva quando sua moglie se n'era già andata sbattendo la porta.
Ma avanzando pretese esosissime sulla quota spettante di reddito famigliare. E sul notevole patrimonio.
E prima che a Beppe succedessero i casini di lavoro.
I got a bird that whistles, I got a bird that sings.
Nel corso di quel lungo anno, ogni sera ci vedevamo. E ogni notte combinavamo qualche casino.
A parte i fine settimana, perché mia moglie tornava da Milano.
E anche Jaco preferiva riposare.
Abitava con la vecchia madre e una sorella nubile più vecchia di lui, in centro.
Poco lontano dai viali e dall'università.
Una casa dell'ottocento, enorme.
Aveva il suo studio di architetto al primo piano.
Ma le puttane le portava in un monolocale che aveva ristrutturato a porta Mascarella.
Solo quando ci andava da solo, perché quando eravamo insieme il posto dove si scopava era casa di Beppe.
Ain't got Corrina, I can't be satisfied.
La ragazzina ci ha detto prima di chiamarsi Corinna.
Si è accesa una sigaretta con aria un po' tesa.
Poi si è tolta gli stivali.
Pensava che qualcuno l'avrebbe presa e portata a letto.
La sua amica si era già appartata con quello che porta i baffi.
Ma quello senza capelli aveva cominciato a suonare la chitarra.
E l'altro, quello grosso, calvo e con il pizzo, gli era andato dietro con il contrabbasso.
E adesso cantano a bassa voce.
Got the devil on my trail, And hell by my side.
Che differenza può mai fare?
Sarà forse la trecentesima per entrambi.
Jaco è rimasto vedovo giovanissimo. Un incidente stradale.
Di cui non aveva colpa, ma di cui si dà ancora la colpa.
Non avrebbe dovuto lasciare uscire sua moglie, quella sera.
Aveva avuto una specie di presentimento, dice.
Ma poi, si era detto, non ho tempo per accompagnarla. Un progetto importante da finire.
Forse per questo, da quando lo conosco, si fida più delle sensazioni che dei ragionamenti.
But i ain't got Corrina, Life don't mean a thing.
Canta per dimenticare, forse.
O forse solo perché, tanto, non ha più niente da imparare..
È lui che diceva sempre che non si va a puttane per scopare, si va a puttane per conoscere.
Non che abbia smesso. Diciamo che dopo la malattia ha assunto un atteggiamento circospetto verso il piacere.
Si fa raramente, e solo quando è con Beppe, e scopa solo dopo aver ricevuto una specie di conferma sensibile.
Una deve ispirarlo davvero molto.
E la ragazzina non è evidentemente abbastanza.
Non abbastanza esperta per insegnargli qualcosa, non sufficientemente fresca per indurlo alla seduzione.
Entrambi ne abbiamo abbastanza di conferme negative.
Corrina, Corrina, Gal, what's on your mind?
La porta della stanza si apre fragorosamente.
E Beppe torna, sorridente e sornione. Grande, grosso e peloso, la pancia prominente.
Si siede sul divano, con i pendagli ballonzolanti e il cazzo moscio.
La ragazza lo segue altrettanto biotta.
Tiene in mano un rotolo di salviette con dentro un preservativo usato.
Chissà se lo hanno usato davvero? Il mio amico è sempre stato piuttosto allegro con la prevenzione.
Lei rimane a scaldarsi davanti al camino, incerta su dove buttare il fagottino imbarazzante.
Scambia qualche frase in romeno con l'amica.
Pippiamo? Chiede Beppe spandendo un po' di roba su un piattino.
Poi, alza le spalle vedendo i nostri sorrisi di diniego.
Io non approvo. Questa roba di brucia il cervello.
Prepara tre piste e ne tira su una con una banconota arrotolata.
Forse medita di farsene subito anche un'altra.
Ma chiede alle ragazze se vogliono favorire.
La più giovane Corinna spalanca gli occhioni scuri senza capire.
L'altra dice che non sa, che non ha mai provato. E butta il fagottino in un cestino.
Così, tira anche le altre due, scatarrando e scuotendo le spalle per il colpo.
I been sittin' thinkin' about you baby, Just can't keep from cryin'.
La ragazza di Beppe torna nell'altra stanza. La vediamo rivestirsi con lentezza quasi esasperante.
Non è male. Non tanto alta, ma ben accessoriata.
Chissà se l'ha inculata davvero? Aveva contrattato per una completa con bocca senza e Cim.
Ma non erano riusciti a mettersi d'accordo bene. E io continuavo ad avere l'impressione che non fosse pronta per un anale spinto.
Alla fine, le due bimbe avevano accettato per tre urbani a testa.
Regalato, visto che non avevano messo limiti di orario.
Beppe stappa una bottiglia di vino bianco, presa dal frigo.
E se ne versa un bicchiere.
È una vermentino di Gallura, fruttato e leggermente affumicato.
Fantastico, come ben so.
Ma adesso non mi va.
La bimba Corinna ne assaggia un sorso e si gira a controllare l'altra che si sta ancora vestendo.
Sembra chiedersi come mai ci stia mettendo tanto tempo.
In effetti, sembra un po' anchilosata. E ogni tanto si tocca il sedere facendo una piccola smorfia.
But i ain't got Corrina, Life don't mean a thing.
E quindi, osserva Beppe accorgendosi che è ancora vestita, nessuno ha scopato con questa.
Siamo troppo impegnati per rispondere.
La musica fluisce lenta e quasi automatica.
Senza metterci d'accordo, stiamo ripetendo la canzone per la sesta o settima volta.
Chissà che noia.
Solo chi suona conosce l'ipnosi catartica della ripetizione.
La bimba gli sorride stentata, rivelando i denti davanti un po' storti.
I capelli le sono scesi. E lei se li tira su con un lento movimento del braccio.
Quindi, opina il Beppe con facile deduzione, nessuno si offende se inculo anche questa.
Nessuno risponde.
Per cui la prende per una mano e la fa alzare.
Corrina, Corrina, Baby please come home.
Lei si lascia guardare affettando timidezza.
Non è pronta per un anale spinto.
Ma Beppe saprà come guidarla. Saprà insegnarle.
C'è piacere in ogni dove, se sai riconoscerlo.
Deve trovarla attraente, perché nonostante le piste che si è appena annasato, il cazzo gli si alza un po'.
Le accarezza il viso allusivamente e la invita a precederlo verso la stanzetta.
Dove l'altra, che ormai si è rivestita, si sta accendendo una sigaretta.
Sembra divertita per il bis di Beppe.
Prende la sua borsa, si scosta per farli entrare e richiude la porta.
Poi viene a sedersi sul divano e finisce il vino rimasto dal bicchiere dell'amica.
La serata non è ancora finita.
I been worryin' about you baby, You been gone too long.
Per cui, continueremo a suonare.
Corrina, Corrina, Baby please come home.

https://www.youtube.com/watch?v=yyMXhNoyEtg&list=RDyyMXhNoyEtg#t=6
 
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Questo racconto è frutto esclusivo di fantasia. Riferimenti a fatti realmente accaduti e a persone esistenti o esistite è del tutto involontario


Il fattore Z

Isolata finalmente da un team di ricercatori dell'università di Daronia la particella ζ.
L'esistenza della particella ζ era stata teorizzata già nel 1952 da Daghel e Spinz, nel loro fortunato saggio sul decadimento dell'erotrone nei processi cinematici ad alta accelerazione (Daghel O., Spinz I.: “About the fucking tends to drop in adult males”. Chubby University Scientific Bullettin, San Francisco. 1952, 38 pp).
Al quale era seguito un lungo dibattito sulla misurabilità dell'energia di trasformazione dell'erotrone in lavoro e dell'equivalenza quantica tra erotroni e quadrioni fondamentali. Problema insoluto fino ad ora.
In particolare, già nel 1972 il francese Mésfréque aveva tentato di misurare la quantità di erotroni necessari a ottenere un'unità di lavoro per ciascuno dei quadrioni teorizzati da Daghel e Spinz: rasponi, succioni, coitoni e analoni. Mesfregue aveva ottenuto incoraggianti risultati per il primo, dimostrando che la curva di trasformazione degli erotroni in rasponi era di tipo logaritmico e approssimabile con la formula: J=k*log E + φ. Dove J è il lavoro prodotto, E la quantità di erotroni, K una trasformata della curva temporale e φ la variabile residua (Lesfregue S.: “La quantité de figuesse nécessaire pour obtenir un raspon de érection agreable”. La nouvelle science, Université de Frègnane, 1972, 422 pp).
Negli anni 90, dopo una stasi nella ricerca di settore, fu la scuola iberica a dare i maggiori contributi alla soluzione dell'enigma erotronico, con l'introduzione della distinzione, nella variabile residua, di due fattori. Il primo, di natura aleatoria, denominato componente ε, il secondo, più propriamente definito, come fattore ζ. (Malcojon F.: “El componente aleatorio de la atracción orgásmica”. Los anales de la investigación sobre la follan, Saragozza, 1991, 121 pp). L'equazione che ne risultava, quindi, conteneva due incognite non deterministiche. Fu lo stesso Malcojon a dimostrare che la variabile casuale seguiva l'andamento della funzione di ripartizione di una distribuzione gamma, e non esponenziale, come ipotizzato in precedenza. Dimostrò anche che il numero di gradi di libertà è diverso per i quadrioni. Un grado di libertà per il raspone, detto impropriamente segone di Fevdar, che cresce verso l'asintoto con gradiente inversamente proporzionale al fattore F (coefficiente di fidelizzazione multipla). Due gradi di libertà per il succione, o effetto Cim. Quattro per il coitone propriamente detto, noto in letteratura anche come fottone generico. E nove per l'analone, più noto come bosone dal tubo arancio ovvero, più rigorosamente, risultato empirico del secondo teorema di Patapunfete sull'espansione universale dei buchi neri.
4_1.jpg

La scomposizione in fattori della variabile residua φ ha consentito di teorizzare, con un certo grado di verosimiglianza, l'equivalenza tra il fattore ζ e la particella ipotizzata da Daghel e Spinz.
Ma nessuna delle numerose ricerche sul campo diede apprezzabili risultati empirici.
Già nel 1995, comunque, un team di ricercatori tedeschi capitanati da Nerch e Minch dimostrò che l'andamento della trasformazione degli erotroni in coitoni non poteva essere descritta con un sistema di equazioni linerari (Nerch.I.A. & Minch I.A.: “Die Umwandlung von harten Schwanz in Muschi Mess”. Muschi und Schwanz im Alltag, Gottinga, 1995, 45 pp).
Lo stesso risultato ottennero i croati Incannovetic e Fottoslav per via induttiva, con il loro breve saggio: “maca i penis, velika utjeha”, riportato in appendice.
Ma furono i ricercatori belgi Skopens e Slurpelin a dimostrare la sostanziale invarianza della trasformazione erotronica per i fattori K ed E (Skopens T. e Slurpelin A.: “L'âge et la chatte n'ont pas d'incidence sur la bonne guzzée”. Cahiers de fotterie, Lovanio, 1996, 8 pp).
L'equazione fondamentale dell'erotronica, pertanto, fu riformulata nella forma ormai universalmente accettata: J = ζ + K*log E + ε. O più semplicemente come J = ζ + ε + F(k,E).
In questa versione, l'equazione, allora dimostrata solo per via teorica, evidenziava che, contrariamente alle prime ipotesi avanzate da Daghel e Spinz, la componente determinante della trasformazione era rappresentata proprio dal fattore ζ.
Pertanto, la ricerca si è orientata alla determinazione statistica delle variabili.
Un primo risultato fu ottenuto da un team di ricercatori di Daronia, dipartimento di teoretica del punteraggio di strada, che dimostrarono nel 2008, con innumerevoli prove ripetute su un campione consistente di soggetti, che l'energia prodotta dalla trasformazione erotronica ha andamento log-it.
Secondo le loro stime, supportate da numerosi esperimenti dello stesso gruppo di lavoro, l'energia J è approssimabile con la funzione autoregressiva [H*sen(K)^F(K,E)]. In sostanza, le prove sul campo suggerivano che l'ipotesi di indipendenza tra i fattori fosse non consistente, risultando
ζ + ε + F(k,E)=H*sen(K)^F(K,E). in altri termini: ζ = H*sen(K)^F(K,E) – F(k,E) - ε.
Il fattore zeta, pertanto, è funzione diretta del numero di erotroni, ma con gradiente che dipende della variabilità dei fattori K ed E.
4_2.jpg
L'andamento visualizzato in figura, corrispondente alla formalizzazione dei risultati attesi per i quadrioni e per una funzione media del tutto teorica, dimostra inequivocabilmente, che i fattori K (alfa) ed E (beta) determinano nella gran parte delle distribuzioni meno del 5% della trasformazione erotronica. Quindi, vero l'assunto, il fattore ζ determina la quasi totalità della trasformazione degli erotroni in energia.
Questo importante risultato, dovuto ai ricercatori dell'Università di Daronia, sono noti come il terzo principio dell'attrattività erotronica universale.
Furono quindi stimati, sempre per via statistica, i valori di trasformazione per ciascuno dei quadrioni.
L'indice sintetico viene definito: gradiente nucleonico di osmosi catalitica e catabionica associativa (GNOCCA) e denotato con la sigla G(KE). È stato tabellato fino al secondo erotrone, in quanto i valori successivi hanno andamento lineare.
quadrioni
raspone succione fottone bosone
0,1 0,221117 0,419327 0,694512 0,895433
0,2 0,222081 0,420291 0,696758 0,896681
0,3 0,223045 0,421255 0,699003 0,897929
0,4 0,224009 0,422219 0,701249 0,899177
0,5 0,224973 0,423183 0,703495 0,900425
0,6 0,225937 0,424147 0,705741 0,901373
0,7 0,226822 0,425032 0,707987 0,902321
0,8 0,227707 0,425917 0,710411 0,903269
0,9 0,228592 0,426802 0,712835 0,904217
1,0 0,229477 0,428687 0,715259 0,905165
1,1 0,230362 0,430572 0,717683 0,906113
1,2 0,231247 0,432457 0,720107 0,907061
1,3 0,232132 0,434342 0,722531 0,908009
1,4 0,233017 0,436227 0,724955 0,908957
1,5 0,234036 0,438112 0,727379 0,909905
1,6 0,235055 0,439997 0,729803 0,910781
1,7 0,236074 0,441882 0,733224 0,911657
1,8 0,237093 0,445767 0,736645 0,912533
1,9 0,238112 0,446786 0,740066 0,913409
2,0 0,239131 0,447805 0,743487 0,914285
Come risulta evidente, i coefficienti di trasformazione per i bosoni valgono almeno quattro volte quelli dei rasponi e il doppio dei succioni.
Ovviamente, questi coefficienti misurano la trasformazione totale e quindi Jt.
Ma non consentono di valutare il rapporto tra le componenti deterministiche e quelle casuali, o para casuali.
Il direttore del dipartimento di erotronica dell'Università di Daronia, prof. Penazzoni, ha anche ricostruito il valore dinamico della trasformazione, estrapolando dalla tabella i valori delle quantità ζ = H*sen(K)^F(K,E) – F(k,E) - ε al variare di K (funzione del tempo).
Uno dei risultati più interessati riguarda la dimostrazione analitica dell'andamento asintotico del valore di ζ per la trasformazione del bosone, il più efficiente dei quadrioni. (Penazzoni A. e Altri: “l'ermeneutica associativa nei processi poietici del quadrione bosone”. Annali di erotometria applicata, Gravellona Toce, 2012, 128 pp).
Con lo stesso metodo, sono stati calcolati i coefficienti di passaggio tra i quadrioni, sintetizzati nella seguente matrice.
raspone succione fottone bosone
raspone 8,44 7,01 21,66
succione 11,21 9,33 88,61
fottone 17,49 19,76 71,39
bosone 44,89 66,15 55,44
Anche in questo caso, risulta immediatamente evidente la predominanza in termini etrotonici del quadrione bosone (effetto AtM).
Ma solo nel 2016, a conclusione di una ricerca multidisciplinare realizzata dall'università di Daronia, è stata isolata la particella ζ,
La lunga serie di esperimenti che hanno consentito di isolare il fattore Z nella sua essenza, ha coinvolto esperti di matematica, fisica, psicologia e medicina.
L'idea di partenza, molto originale, consiste nell'aver invertito la natura dei test statistici.
Invece di costruire un panel multidimensionale, cui applicare test in doppio cieco, sono stati individuati, dopo un'accurata selezione, dieci testimoni privilegiati erotronicamente significativi (tramite il test di Deborah Dozza o quello di Emma Borgo) e dodici soggetti attivi, valutati su una scala di sensibilità predefinita (scala puntermoss).
I testimoni sono stati selezionati tramite una estenuante ricerca sul campo, meglio sarebbe dire su strada, effettuata personalmente dal prof, Penazzoni e dai suoi collaboratori più fidati. E i dodici soggetti attivi, tutti volontari, sono stati selezionati tra gli stessi sperimentatori con una valutazione psico-fisiologica e attitudinale reciproca.
I testimoni e i soggetti sono stati combinati in ordine casuale, ma ricorsivo, in modo che tutti i testimoni fossero testati almeno 5 volte dai soggetti sensibili, per un totale di oltre 680 prove.
Ogni seduta di test ha comportato la misurazione erotronica del fattore ζ iniziale del testimone privilegiato, tramite una tecnica di tracciamento radioattivo di ultima generazione, una valutazione sfocata del contesto semantico e diverse costatazioni, di processo e di risultato, sul soggetto attivo.
Lo studio è stato corredato da metadati e valutazioni soggettive a seguito di intervista.
I risultati hanno confermato l'impianto teorico proposto dal Penazzoni, con un errore campionario inferiore al 3%.
Inoltre, e questa è la vera novità di questo esperimento, il tracciamento radioattivo ha consentito di verificare il decadimento erotronico nella totalità dei soggetti testati, con particolare riferimento alla trasformazione J per l'analone, o bosone dal tubo arancio.
In pratica, la particella ζ è stata isolata e tracciata in modo inequivocabile, confermano la tesi iniziale di Daghel e Spinz. È stato inoltre verificato che il fattore ζ, come il fottone, ha contemporaneamente natura particellare e ondulatoria.
Per concludere, oltre al plauso agli ideatori della ricerca per lo straordinario risultato ottenuto, è giusto ricordare che queste fondamentali sperimentazioni aprono prospettive straordinarie di ricerca sulle particelle elementari, come la teta e la phi, mutuando metodi ed euristiche tipiche dello studio del fattore ζ. Noto ai più come tasso di zoccolaggine.
 
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In effetti in una matrice raspone succione fottone bosone il valore di ζ traccia un andamento decisamente asintotico nella trasformazione di quest’ultimo. Me ne sono accorto l’altro giorno mentre tentavo di misurare la particella ζ, nota anche come “tasso di zoccolaggine” nella signora che mi sedeva di fronte.
 
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Questo racconto è frutto della mia fantasia. Eventuali riferimenti a persone esistenti e a situazioni reali è del tutto casuale


La puttana perfetta

Tira un vento tiepido e malsano. Non fa freddo per essere gennaio.
Per cui le Otr sui viali sono abbastanza scosciate.
È un bel vedere, osserva Jaco mentre passiamo davanti a una nanerottola in stivali alti e gonnellino del tutto esornativo.
Esibisce gamba pienotta, notevole stacco di natica e invitante prosperosa mammella.
Merito di un sapiente push up. Sbucciata è solo una seconda.
Una new entry, spiego.
Io sono poco aggiornato, ma lui ancora meno. Esce al massimo una volta al mese. E questa deve essergli sfuggita.
Si fa chiamare Simona. L'ho presa l'altra sera.
Genere? Chiede interessato.
Leggero GFE, enumero, inesperta ma volonterosa. Brava cinna.
Arrivo al semaforo miracolosamente verde e inverto il senso di marcia.
La mia autoradio manda Battiti, sintonizzata su Radio3. È appena scoccata la mezzanotte.
Ogni volta che passo per quel tratto di viale, controllo se c'è la Mariana.
È un gesto automatico, perché sono anni che è partita.
Mentre rulliamo a bassa velocità, ascoltiamo in silenzio una brano degli Esmerine, che evoca mari lontani e un futuro che forse neppure c'è.
Ci accendiamo una paglia.
Nessuno dei due potrebbe, ma nessuno dei due riesce proprio a smettere.
Torniamo fino alla porta e facciamo la manovra classica del punter in punta, per immetterci nella direzione giusta.
Bbj, preciso, FK senza esagerare, rai1 in tutte le posizioni. No assoluto a rai2, Cim, Cof o altre sigle. Rate standard.
Fresca? Chiede.
Beh, commento, non ci metterà molto a professionalizzarsi. Comunque non si sottrae agli acrobatismi. È educata e obbediente.
Rallento davanti alla ragazzina per consentirgli di intervistarla.
Lascia stare, fa Jaco, magari passo dopo. Oppure domani sera.
Dopo la malattia, è lento a decidere.
Una deve proprio ispirarlo.
Andiamo a bere qualcosa di caldo, lo invito.
Parcheggiamo in via Andrea Costa ed entriamo nel bar notturno.
Ordiniamo un ginseng e ci sediamo a un tavolino.
Due puttane ci danno le spalle giocando ai video poker in un angolo.
Devono essere quelle che ogni tanto vedo prima della porta. Oppure le due nuove della pensilina.
Non mi sono mai fermato a intervistarle.
Un'altra ragazza beve un amaro seduta al bancone, arrampicata su uno sgabello che deve essere scomodissimo.
Un arabo che forse pappona in zona guarda lo sviluppo delle puntate delle due giocatrici.
Ma te la ricordi la Mariana? Fa lui con un brillio negli occhi.
Fregati, se me la ricordo! Sorrido.
Prima, confessa, quando siamo tornati indietro, ho controllato che fosse ancora al suo posto. Un automatismo pavloviamo.
Ridacchio sommessamente constatando la convergenza dei nostri ritualismi.
La puttana perfetta, mormoro scuotendo nostalgico la testa.
Bella, commenta pertinente, e porca fino al midollo.
Mariana era alta un metro e settanta scarso e magrissima, forse quarantacinque chili. Con poco seno e un culo tondino arrapante al massimo grado. Tipica gitana, dal naso leggermente aquilino, occhi nerissimi e lunghi, fluenti capelli corvini.
Abbiamo bevuto solo due sorsi del ginseng in tazza grande. Per cui, vado a farmi dare un paio di pasticcini.
Le zingare sono così, sospira lui quando torno, telluriche e generose.
Annuisco per la profonda saggezza insita in ogni affermazione che riguarda la figa.
So già come continuerà.
Forse l'unica che ho conosciuto, aggiunge infatti, che godeva davvero.
Si inganna, ovviamente. Nella stessa categoria c'era la Cristina russa, tornata da qualche anno a casa.
Che lui ha frequentato almeno quanto me.
E le due zingarelle di Giurgiu che ci eravamo fidelizzati ai tempi: Alina, la sua, Mirela, la mia.
Sua e mia si fa per dire, perché ce le scambiavamo in continuazione.
Sono ancora in contatto via Facebook con entrambe.
E sono almeno una decina le ragazze che abbiamo frequentato insieme negli anni passati che ci hanno regalato qualche forma di rara reciprocità.
Intingo un biscotto e valuto le due puttane sedute davanti ai video.
Una sembra niente male. Alta, con gambe lunghe.
Entrambe portano jeans e giacche a vento, che non concedono molto all'immaginazione.
Da dietro non mi suggeriscono niente.
La caricavo alla Staveco, mormora con il groppo alla gola, e a Porta Santo Stefano si era già cavata le mutande. Portava sempre delle stanelle tanto corte, che ci veniva a malapena una sciarpina. A Porta Mazzini mi aveva già tirato fuori l'uccello.
E all'Università, lo anticipo annuendo, ti stava già ciucciando la becca. Era diventato quasi un rito.
Non si ricordano le persone, si ricorda sempre se stessi.
Una delle puttane scende dallo sgabello e va a cambiare moneta alla cassa.
Passando mi sorride.
Un bel visino regolare da romena. Sui venticinque. Occhi chiari, sotto un'improbabile capigliatura castana mesciata di rosso, che non le arriva alle spalle.
Mi ricorda qualcosa, ma non riesco a ricostruire.
Con la Mariana, ribadisco, il giro era sempre lo stesso.
A lei piaceva, osserva cocciuto, la sentivi godere.
Dopo tanti anni, non so. Forse era il suo modo di ingannarci.
Forse, semplicemente, per lei era mestiere.
Ma non mi va di disilludere il mio amico.
Arrivavi a casa, spalanca le braccia in un gesto di sconforto, e ti spingeva sul divano. Ti infilava un condom e ti si sedeva sopra, dandoti la schiena, prendendolo in culo senza lubrificarsi fino alle palle.
Sì, confermo, si metteva giusto un po' di saliva.
Jaco scuote la testa ammirato.
E ti teneva dentro, muovendosi appena e sditalinandosi in continuazione.
Si sentiva che le piaceva, confermo.
Quando era pronta, ricorda, si girava, senza farti uscire dal culo, e ti squirtava sulla pancia.
Poi ti baciava, evoco.
Sì, sospira, e poi si ricominciava con bocca e figa. Una volta è stata da me quasi tre ore per tre urbani.
Col cazzo che andava così! Questa è la versione ufficiale. L'intrinseca follia della Mariana era che, non so con lui, ma arrivati a casa mia, lei apriva il frigo, prendeva il burro e si ungeva abbondantemente il culo. Poi mi veniva sopra cabrio. Il resto era conforme.
Ma cerchiamo di essere realisti! Il mio in culo senza lubrificante non si è mai visto.
Era tanto pazza, che dopo un po' le avevo detto di smetterla, che non potevamo continuare così.
Lei spergiurava che solo con me. Stronza, lo dicono tutte.
Meglio non indagare ulteriormente.
La ragazza torna alla sua postazione ludica sculettando neppure troppo provocante su discreti tacchi 12.
Passando mi sorride di nuovo.
La conosci? Chiede Jaco.
Non ricordo, confesso, forse sì, ma non riesco a ricostruire.
Non è una delle vecchie, osserva.
Non so, ribadisco.
Intanto, però, ho avvertito una specie di rimescolio cromosomico.
Segno che qualcosa di lei mi ha colpito inesorabilmente.
Il mio amico si gira a controllare anche l'altra.
Le due ragazze giocano concentrate.
Il pappone arabo è sparito.
Offriamo loro da bere, propone.
Finisco il ginseng e vado a chiedere cosa bevono di solito le due.
Il barista egiziano mi dice che prendono grappa.
Così, me ne faccio versare quattro, anche se dubito che Jaco e io berremo, e gli chiedo di portarle al tavolino di fianco ai videogiochi.
Il mio amico, intanto, ha attaccato bottone.
Ma solo quella meno alta gli sta rispondendo, quella che è passata prima deve aver appena cominciato una nuova partita ed è concentrata sulle combinazioni di numeri che le è uscita.
Ma alza gli occhi e mi sorride.
Ciao, mi saluta con confidenza e una punta di malizia.
Ha le guance pienotte e gli occhi azzurrissimi. Le gambe davvero lunghe
Sotto la giacca a vento si intravedono rotondità assai procaci.
Un altro guizzo di eccitazione mi attraversa la schiena.
Ha qualcosa di famigliare, ma giuro che non mi ricordo di lei.
Jaco sembra più attratto dall'altra.
In effetti, anche se è meno alta è ben congegnata.
A lui piacciono mignon.
La mia scazza gli scarti per la combinazione e soffia di disappunto.
Poi si gira sullo sgabello, interessata alla nostra presenza.
Le passo il bicchierino e le chiedo come sta.
Il mio amico, intanto, ha invitato l'altra a sedersi e stanno parlando fitto. La ragazza ogni tanto ridacchia e si tira su i capelli scuri.
Come mai non sei più passato a trovarmi? Chiede allusiva.
'Fanculo, di questa proprio non mi ricordo.
Ma la voce roca mi rimescola l'intimo, con un miraggio di deja 50.
Sono stato via, mento.
Lei ridacchia sommessa.
Ma mi passi davanti ogni tanto! Esclama, e fai finta di non vedermi.
Mannò, sorrido, è che sono miope.
E sempre più imbarazzato.
La ragazza decide di non infierire.
Facciamo qualcosa? Domanda speranzosa.
Alzo le spalle.
Questa sera non si è fermato nessuno, commenta con una piccola smorfia nervosa, da qualche mese non si lavora proprio.
Faccio un cenno al mio amico, che annuisce.
Ok, accetto, andiamo.
Cento rose, recita, casa tua, tutto compreso?
Cazzo! Ma allora mi conosce davvero. La sua voce è sensualissima.
Una piccola cantilena e una rimanenza di accento romeno.
In ogni caso, parla un italiano quasi perfetto.
Sì, le faccio segno che ci ha preso, ma prima passiamo a recapitare a casa il mio amico.
Va bene, concede.
Jaco si alza e ci avviamo.
In macchina, le due bimbe si mettono a parlare a bassa voce in dacio stretto.
Non capisco molto, ma sembra che l'altra non sia convinta del doppio urbano per un'ora alla cieca.
Mentre la mia credo che le ricordi che, comunque, non hanno neanche i soldi per l'affitto.
Il mio amico sorride sornione.
In effetti, la sua è proprio carina. E sotto il maglione ha protuberanze anche più generose della mia.
Passando davanti alla postazione di Mariana, entrambi sbirciamo il buio del marciapiede in un rigurgito involontario di nostalgia.
Ma sono ormai quattro anni che è sparita.
Arrivati a Porta Mascarella, giro al semaforo e mi infilo nelle stradine dietro via Irnerio.
Jaco mi dice che va bene anche lì, che fanno due passi.
La ragazzina è sempre più interdetta. Ma cento rose sono cento rose.
Così, li scarico e mi avvio di nuovo verso i viali.
Non faccio in tempo a raggiungere di nuovo il semaforo, che mi butta le braccia al collo e mi bacia dolcemente.
Cazzo, mormora, mi sei mancato da morire.
Ehm, tergiverso disorientato, anche tu.
La ragazza si rimette seduta, tenendomi una mano su una spalla.
Credevo fossi arrabbiato con me, mormora.
No, sorrido sempre più smarrito, è che lo sai come sono.
Sì, alza le spalle sardonica, lo so come sei. Ma dopo che sono tornata, pensavo di vederti. Avevo perso il tuo telefono e nessuna di quelle che conosco sapeva chi eri.
In effetti, ammetto, ultimamente esco poco.
È vero, conferma, ma ogni tanto passi. E non ti fermi mai. Pensavo proprio che ce l'avevi con me.
No, scuoto la testa sinceramente.
Anche questa sera, ridacchia, non sapevo cosa dire. Ero imbarazzata, magari non volevi parlare con me. Sembravi arrabbiato.
Non so chi cazzo tu sia, mi dico, ma il tuo bacio era proprio bello.
Al semaforo rosso di via del Lavoro, mi allungo a infilarle la lingua tra i denti.
Lei mi ricambia con apparente passione.
Cazzarola, mi dico, ma come ho potuto dimenticarmi di una così?
Giro su via Liberazione.
Che stronza che ero, scuote la testa con contrizione, facevo delle cose tremende. Meno male che tu mi facesti ragionare.
Ma com'è possibile che non ricordi un cazzo? Mi chiedo allarmato.
Che sia un prodromo di Alzheimer?
Ma la ragazza mi conosce davvero bene, perché dopo che ho parcheggiato mi precede fino al mio portone. Chiama l'ascensore indicando divertita con il mento la videocamera di sorveglianza.
E appena dentro la cabina, spinge il bottone del mio piano e mi si avvinghia contro a ventosa.
Si alza sulle punte degli scomodi stivali per baciarmi e stringermi la nuca e una spalla.
Mi sei proprio mancato, balbetta emozionata staccandosi quando siamo al secondo.
Comincio davvero ad essere preoccupato.
In casa sembra a suo perfetto agio. Si toglie la giacca a vento e l'appoggia all'attaccapanni.
Lascia la borsa su una sedia in soggiorno e si siede sul divano.
Si sfila i trampoli e mi guarda divertita.
Io sono ancora nel corridoio.
Mi sono acceso una sigaretta attonito e sconcertato.
Un tè? Chiede impertinente, mi facevi sempre un tè caldo, d'inverno. E una limonata gelata d'estate.
Ok, scuoto la testa.
Metto su l'acqua, mi tolgo il cappotto e vado a sedermici vicino.
Lei mi bacia di nuovo dolcemente. E mi guarda seria.
I suoi occhi sono di un azzurro quasi fastidioso.
Sei invecchiato, mormora accarezzandomi le rughe del visto.
È passato molto tempo, affermo senza sapere quel che sto dicendo.
Cinque anni, annuisce. Ne avevo diciannove, allora.
Mi alzo per andare a versare l'acqua bollente.
Ed ero una grandissima stronza, ridacchia.
Appoggio sul tavolo il vassoio con le tazze, lo zucchero e il limone. E torno a sedermi vicino a lei.
Sono agitato e un'improvvisa erezione mi impaccia.
Facevo delle cose terribile, ribadisce tornando ad abbracciarmi, e tu eri l'unico che mi diceva di smetterla.
E mi hai dato retta? Sorrido incongruente.
Questa situazione è paradossale. Meglio prenderla per il verso giusto.
Come sarebbe a dire? Chiede con una punta di irritazione, certo che ho smesso.
Annuisco.
Ho smesso di fare stronzate, spiega, ma qui a Bologna tutti sapevano cosa facevo e se mi cercavano era perché volevano tutti queste cose che a voi puttanieri piacciono tanto. Scoparmi in culo, sborrarmi in faccia o in bocca.
Adesso sembrava davvero arrabbiata.
Dai, cerco di placarla.
Prendo una tazza, ci metto lo zucchero e il limone sperando di prenderci, e glie l'allungo.
Lei la prende con circospezione.
Sono andata a Milano, spiega con aria che continua ad essere nervosa, avevo delle amiche li. Ho lavorato per un anno in casa. Con loro ho imparato a fare le cose normali, tutto coperto, niente culo. Poi sono stata in Germania, a Duisburg, qualche mese, un vero schifo. E dopo sono tornata a casa. Mia madre stava poco bene e dopo un po' è morta di cancro. Ho badato un po' a mia sorella piccola, fino a quando non è andata in collegio.
Prendo anche la mia tazza.
Non è stato facile, aggiunge, mio padre sembrava che sapesse che avevo fatto la puttana. Mi trattava male. Così, l'altr'anno sono tornata. Prima a Firenze, poi qui.
Mi sono rifatta il naso, mormora orgogliosa mettendosi di profilo, e quasi tutti si erano dimenticati di me, per fortuna.
Beve un sorso di tè e poggia la tazza sul vassoio.
Si toglie il maglioncino. A casa mia fa caldo.
Sono ingrassata, vero? Sorride sganciandosi il reggiseno.
Liberando due grosse pere.
E mi sono rifatta anche le tette, alza le spalle.
Belle, singulto.
Dai, mi incita, svestiti. Non lo faccio più per lavoro e non so se riesco a prendere ancora in culo quel tuo grosso cazzo. Ma sono mesi che ne ho voglia, proviamo. Come ai vecchi tempi, solo per questa volta.
Si sfila i jeans e rimane in mutande, a gambe incrociate sul letto.
A fissarmi mentre mi spoglio, con questi incredibili occhi azzurri.
Accidenti! Esclama sarcastica appena sono biotto, anche se sei invecchiato, ti tira ancora parecchio.
Ho il cazzo durissimo e la cappella viola.
Ma non è tutto merito mio. Prima di uscire avevo preso un Levitra.
Si sfila le mutandine.
Scusa, dice, prima devo passare in bagno. Le lenti mi bruciano.
Prende una bustina dalla borsa e si avvia decisa.
Il suo culo ben tornito mi eccita ulteriormente.
Mi siedo sul divano e mi accarezzo l'affare teso e fremente.
La sento aprire l'acqua del bidè e poi asciugarsi.
Ma torna presto, camminando sulla punta dei piedi, per evitare il freddo del pavimento.
Ha un'aria un po' indecisa e sembra impaziente.
Invece di venire da me, si dirige verso la cucina. La sento aprire il frigo e armeggiare confusamente.
Arriva toccandosi dietro.
Adesso che si è tolta le lenti a contatto è quasi riconoscibile.
Si siede sul mio affare, dandomi la schiena.
Ed emette un lungo sospiro.
Mariana, mormoro.
Cazzo! Balbetta, erano anni che non lo facevo.
Non ti avevo riconosciuta, confesso.
Lo sapevo, singulta, me ne ero accorta. Mi sono divertita un casino.
Mentre si incula lentamente, si tocca per davanti.
Per ora, entra solo un po'.
Troia, inveisco prendendola per il collo.
Facevo senza solo con te, ribadisce con voce soffocata, e tu mi accusavi di farlo con tutti.
Il suo culo è strettissimo. Probabilmente è vero che non lo fa più per lavoro.
Le stringo una tetta. È rifatta, ma non è troppo dura.
E perché avresti dovuto farlo solo con me? Chiedo arrochito dall'eccitazione.
Perché, ansima, tu mi avevi fatto vedere le tue analisi.
Oh, cazzo! Mi dico. È vero. Me ne ero completamente dimenticato.
E lei, qualche mattina dopo mi aveva telefonato. Ero al lavoro e mi aveva chiesto se a mezzogiorno passavo a prenderla.
Accidenti! Quando il passato è tanto denso di avvenimenti, si finisce sempre per dimenticare qualcosa.
Del resto, la memoria è selettiva. Ricordiamo solo quello che ci fa comodo.
Ero passato a prenderla verso l'una. Pensavo volesse farsi una marchetta, magari aveva bisogno di soldi.
Invece, prima di qualsiasi cosa, contrariamente al nostro rituale in via di consolidamento, mi aveva consegnato una busta.
Erano le sue, di analisi. Voleva dimostrarmi che anche lei era sana.
E dopo, le cose erano andate come erano andate.
Mi sborravi sempre in culo, bastardo, ringhia.
È vero, ammetto spingendomi ancora più profondamente nel suo posteriore.
È ancora stretto, dobbiamo fare piano, ma comincia a entrare.
E dopo, aggiunge, te la cagavo sulla pancia. E ti tornava duro.
È vero, confermo.
E mi scopavi ancora in culo. E poi in bocca. Figlio di puttana. Ero una ragazzina, non sapevo niente. Tu eri intelligente, colto e ricco, conoscevi la vita ed eri l'unica persona che mi trattava come un essere umano. Ti amavo da morire, pensavo di non poter fare a meno di te.
Non dire stronzate, mormoro.
È vero, cazzo! Alza la voce, tu eri l'unico che sapeva tutto di me. Conoscevo solo papponi, puttane e puttanieri, tu eri diverso. Per me eri tutto. E invece di volermi bene, mi rompevi i coglioni tutti i santi giorni, accusandomi di fare con gli altri quel che facevo solo con te, stronzo di un coglione, di un idiota di merda!
Falla finita! Ordino, di sicuro lo facevi anche con Giacomo e con Beppe.
Ma mai cabrio, obietta agitando il sedere sempre più velocemente.
Le ho preso la gola con entrambe le mani e la sto stringendo con forza.
Facevo quelle stronzate con tutti, abbaia, perché tu facevi così con me. Io credevo che quella era la normalità.
Non lo era, ammetto pompando sempre più profondamente.
Bastardo tu, sussurra viperina, e bastardi i tuoi due amici. Lo so che mi chiamavate la Principessa Prendinculo.
Come lo sai?
Una volta, singhiozza, quello stronzo del tuo amico Beppe mi ha preso in giro.
Sembrava che ti piacesse, obietto sempre più ingrifato.
Certo che mi piaceva, grida, che cazzo ne sapevo? Prima di fare la puttana non avevo praticamente neppure scopato. Tu sei stato uno dei primi, sei tu che mi hai insegnato. Piaceva a te, piaceva anche a me.
Falla finita! Ribadisco.
Mi sborravi in faccia, ribadisce, e mi eccitava da matti. Con gli altri mi faceva schifo.
Ma lo facevi, le ricordo.
Lei mi ignora, torce il collo per guardarmi e farmi uno stentato sorriso.
Quanto ti ho odiato, sussurra quasi amorevole tornando a toccarsi.
La prendo per i fianchi, per mantenere il ritmo.
So che non durerà ancora molto. Con lei, se non è cambiata, è sempre la seconda ad essere lunga.
Vengo, annuncia infatti cominciando a scuotere anche le gambe.
Il suo primo orgasmo era sempre devastante. Delle volte avevo l'impressione che svenisse. Ci metteva un po' a riprendersi.
Si tocca ancora furiosamente.
Poi, come le avevo insegnato tanti anni prima, si gira faticosamente per davanti. Senza farmi uscire.
Riprende a toccarsi e fa un piccolo schizzo, cominciando a venire.
Agita le spalle e con l'altra mano si stringe una tetta, ad occhi chiusi, la bocca aperta.
Dio, bisbiglia, è bellissimo.
Continua a contorcersi, impalandosi sempre più profondamente.
Scuote ancora il bacino. Poi si accascia sul mio petto.
Il mio affare le esce immediatamente dal buchino dietro.
Così, lei sospirando si tira su di nuovo, lo prende con due dita e lo rimette dentro.
Ha i capelli in disordine e gli occhi iniettati, il visino sconvolto.
Si abbassa di nuovo, senza farmi uscire questa volta, e mi bacia dolcemente.
Le accarezzo il viso e i capelli.
E lei mi fa un sorriso stentato.
Scusa, mormora, ho detto delle stronzate.
No, sorrido comprensivo, capisco.
Erano anni che non lo facevo, ribadisce, all'inizio fa proprio male.
La spingo un po' su, altrimenti esce di nuovo.
Ma mi piace da morire, soffia sempre più accaldata, non me lo ricordavo.
Mi allungo a baciarla di nuovo.
Forse, dice titubante, ho qualcosa che non va. Non so.
Esco con un piccolo risucchio e la faccio stendere al mio fianco.
Lei mi fissa apparentemente delusa.
Non so, spiego, se riesco a venirti dentro. La mia prostata è peggiorata.
Lei annuisce poco convinta.
Mi abbraccia e nasconde il viso tra la spalla e il collo.
Perdonami, sussurra, abbiamo fatto una stronzata. E tutto per colpa mia.
La sua pelle è liscia come la ricordavo. E ha ancora il suo odore buono di sudore giovane e bagnoschiuma.
Tranquilla, la blandisco, le mie analisi sono ancora negative.
Anche le mie, annasa.
Mi allungo a prendere la tazza di tè ormai tiepido e ne beviamo un paio di sorsi a turno.
Poi ci accendiamo una sigaretta.
Il mio affare è ancora turgido.
Lei lo prende con la manina e mi sorride.
Non so cosa mi succede con te, osserva, a me il cazzo fa persino schifo.
Si piega a imboccarlo.
Lo succhia per qualche secondo, poi scende a ficcarselo fino in gola.
Ridacchia emergendo arrossata.
Imprinting, mi dico tristemente.
Fumiamo un po' in silenzio.
Prima ho detto un sacco di stronzate, sorride vergognosa, scusami.
Alzo le spalle.
Ero molto nervosa, ammette, non credevo che avrei mai più fatto cose così.
Annuisco incerto.
E tremendamente eccitata, ridacchia, sono una grandissima troia.
Sorride impertinente per la sua battuta.
La puttana perfetta, penso.
Hai qualcuno? Le chiedo.
Certo, mormora alzando le spalle.
Non le sono mai piaciute le domande dirette. Forse adesso ancor meno.
Un pappone? Sorrido.
Ovviamente, fa lei tranquilla.
Ma sento che si sta innervosendo.
Conosco solo papponi, aggiunge, puttane e puttanieri.
Quindi, osservo, non è cambiato nulla.
Lei mi prende l'affare sempre più duro e lo accarezza distrattamente.
Sì, ammette, a parte che non faccio più la stronza.
Mi scavalca con una gamba e si siede sul mio ventre.
Il mio affare le si infila tra le natiche.
Lei ci si sfrega contro con un lento movimento circolare.
E mi guarda triste.
Ho detto delle stronzate, ribadisce, scusami.
Fa niente, la perdono.
Alza un po' il bacino e prova a farsi centrare nell'umido.
Finalmente trova la posizione giusta e inarca leggermente la schiena.
Poi chiude gli occhi e si abbassa.
Emette un lungo sospiro, quando arriva in fondo.
Poi socchiude le ciglia, per guardarmi torva.
Mi ricordavo la sua pelle più scura. Forse ai tempi era abbronzata.
Sai quante volte l'abbiamo fatto? Chiede roca.
No, confesso senza difendermi.
Ventotto, elenca, più questa.
Il suo cellulare vibra.
Lei si alza infastidita e lo va a prendere.
Torna a infilarsi il mio cazzo fino alle palle e legge il messaggio.
Sorride divertita.
Il tuo amico Giacomo, spiega, è riuscito a scopare in culo la Diana. Complimenti!
Ci sa fare, confermo.
Sì, annuisce poggiando il cellulare sul divano, lo faceva sempre anche a me. Ma lei non è abituata, adesso le fa male. E vuole che la vado a prendere.
L'accompagna Jaco, preciso.
Sì, fa lei distratta, ma lei non vuole. Vuole che vado a prenderla.
E chi cazzo sarà mai, 'sta Diana? Mi dico spingendo un po' più su il mio affare.
Un taxi, propongo.
Ho detto di no! Esclama.
Va bene, metto avanti le mani, non arrabbiarti.
Scusa, mormora, non volevo. È che la Diana è giovanissima e inesperta. Non voglio che sta male.
Le fai da pappona? Insinuo.
Non fare lo stronzo! Si inalbera di nuovo,
Ok, mi rassegno, andiamo.
Prima, insiste cocciuta, mi sborri in culo. Altrimenti non vale.
Va bene, accetto, ma non sarà facile. Tirati via.
Lei obbedisce poco convinta.
Me la tiro conto e la bacio.
Mi tocco e la spingo a succhiarmi i capezzoli.
Lei capisce.
Sale a sfiorarmi le labbra. Poi scende a baciarmi il petto.
Non toccarmi, la prego quanto tenta di impugnarmelo.
Con l'altra mano le sfrugno il posteriore, per tenere aperto il buchino.
Lei, mentre mi succhia si masturba piano.
Sei diventato vecchio, sussurra, una volta non facevi così.
No, ammetto arrochito dall'orgasmo ormai imminente.
Adesso, la prego.
Lei subito non capisce.
Poi, si alza precipitosamente e si impala a fondo, dandomi la schiena.
È stretta da morire. E il filetto mi tira dolorosamente.
Ma sono eccitatissimo.
Le do due colpi e le vengo dentro.
Lei intanto si tocca per davanti. Ma non vedo bene.
Rimani lì, bisbiglia accelerando la sua manipolazione.
Viene anche lei. Senza fare troppo casino, stranamente.
Anche lei, a suo modo, è invecchiata.
Agita un poco le spalle. E irrigidisce la schiena e le gambe.
Quando si sente pronta, si tira via e poggia il sedere sulla mia pancia.
Spinge fuori la mia sborra con un piccolo rumore di scoreggia.
Torce il collo per sorridermi.
Ce l'hai ancora duro, osserva tenendomelo con entrambe le mani.
Il mio sperma misto a residui fecali si è ammucchiato in una piccola pozza.
Me lo lecchi? Chiede timida.
Ok, accetto.
Una volta lo facevamo. Anche lei me lo faceva.
Si spinge ancora indietro e le infilo la lingua nel buchino.
Cazzo! Si lamenta continuando a toccarsi, questo è terribilmente eccitante.
Si gira, forse innervosita, e viene ad abbracciarmi.
Pensavo che non avrei mai più fatto queste cose, mi sussurra in un orecchio.
Scende a leccarmi via dalla pancia un po' di sperma.
Poi mi bacia passandomela.
Sono troia, ridacchia squassando le tette artificiali.
Ma che le donano anzichenò.
Si allunga a prendere le sigarette e se ne accende una.
Facciamo qualche tiro esausti.
Devo andare, mormora, mi aspetta.
Annuisco pensieroso e afflitto da qualche dubbio.
Prendo la tazza di tè ormai freddo e ne bevo un sorso.
Si alza e raccatta le mutande. Poi cerca il reggiseno, che deve essere finito dietro il divano.
Sembra un po' disorientata.
'Fanculo, sbotta, devo andare a prendere la Diana, aiutami.
Ok, mi riscuoto.
Mi alzo pure io, mi stiracchio e mi infilo le mutande.
Poi i pantaloni e la maglia.
Lei è ancora praticamente biotta.
Cerca inutilmente di rivoltare i jeans dalla parte giusta.
A questo punto, sibila inconsulta, tu mi spingevi di nuovo sul divano e mi scopavi a pecora.
Questa volta non lo farò, dichiaro.
Me l'aspettavo, balbetta.
Decide di lasciar perdere il reggiseno. Lo mette nella borsa e si infila il maglioncino.
Le allungo i jeans.
Lei si siede di nuovo incerta sul divano e li indossa. Poi prende gli stivali.
Senti, mormora, c'è qualcosa che non va in tutto questo.
Certo, confermo, stiamo ragionando come se il tempo non fosse passato.
La ragazza mi fissa pensierosa.
Hai ragione, annuisce poi delusa, non siamo più le stesse persone.
No, confermo.
Finalmente si mette la giacca a vento.
Usciamo nel vento tiepido e malsano di questo gennaio triste e raggiungiamo la mia macchina.
Io sono esausto. E lei sembra imbambolata.
Però, dice titubante, è stato bello.
Sì, ammetto, è stato bello.
Bello come un ricordo, penso amaramente.
Parto e ci guardiamo in silenzio.
Al semaforo di via del Lavoro mi allungo a baciarla.
Ho detto un sacco di stronzate, ribadisce con un residuo di sorriso quando ci stacchiamo.
Le prendo una mano e me l'appoggio sulla patta, per farle sentire che sono ancora eccitato.
Ma il mio tentativo di volgarizzare è pietosamente inutile.
La ragazza scuote la testa.
Tu mi hai voluto bene, dichiara seria, per questo mi hai spinto a smettere.
Scuoto la testa.
No, rispondo sinceramente, è che avrei voluto che lo facessi solo con me.
È niente, ma è il massimo dell'amore che si può manifestare a una puttana.
Lei lo sa.
Per questo non dice niente.
Riparto e, invece di girare subito verso via Irnerio, prendo le stradine dietro la ferrovia.
E mi dirigo verso porta Mazzini.
Maria non è stupida.
Ha capito che questa sarà l'ultima volta.
E sa che non può chiedere di più,
Aspetta di arrivare alla porta per tirarmela fuori dai pantaloni.
Me lo tocca con delicatezza, mentre guido in silenzio sui viali deserti.
E quando siamo all'università, si piega tra le mie gambe a succhiarmi la becca.
 
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Complimenti.
E' un libro di piccoli racconti?
...non mi dire che sei tutto il giorno a scrivere sul forum...
 
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grazie per le belle parole raga. ci si ribecca tra un mesetto.
orvuàr
 
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Questo racconto è frutto della mia fantasia. Eventuali riferimenti a persone esistenti e a situazioni reali è del tutto casuale


Come una moglie
(diario di viaggio n.19)

Esco con un piccolo risucchio. Cambio velocemente preservativo e le entro davanti.
Stando di fianco, si manovra meglio.
L'Alina torce il collo e mi sorride.
Potevi lasciarlo dov'era, ridacchia.
Dal suo culo scende una piccola striscia di crema, che si sta spandendo sul lenzuolo dopo averle rigato l'interno di una coscia.
Dopo ci torno, prometto ansando.
Non so se sia vero, ma dice sempre che in culo le piace.
Sono vecchio, ma ancora ce la faccio. Soprattutto con l'aiutino.
L'Alina è stata previdente, ha portato lei una confezione di Viagra da otto. Io non ci avevo neppure pensato.
Ci conosciamo da tanto di quel tempo, che ormai anticipiamo il ciclo delle rispettive eccitazioni.
È una delle poche puttane con cui riesco a venire scopando.
Non essendo più giovane, usa tutta la tecnica che conosce.
E ne conosce.
Muove bene il sedere. Quando sente che mi sto infiacchendo non lascia che mi ammosci, mi riprende di bocca. E appena mi sono rintostato, mi viene sopra e mi fa entrare dietro, nello stretto.
Questa sera, comunque, non ce n'è bisogno.
Sono stanco, ma anche parecchio in tiro.
Ed è una mezz'oretta che andiamo avanti. Le solite stramaledette posizioni, l'alfabeto del piacere.
Non finge troppo, anche questo mi piace. Ma quando le sta piacendo, si sente.
Meno male che era libera.
È l'ultima notte che passiamo a Port Ghalib. Siamo partiti domenica, con un charter, torneremo domani, sabato.
Una cazzo di vacanza premio, vinta da un mio collega.
Che non poteva andare e che, conoscendo la mia passione per lo snorkeling, me l'ha regalata.
Potevo rifiutare? Soprattutto considerato che ho ancora 22 giorni di ferie dell'anno scorso?
Mia moglie aveva annuito poco convinta.
Non sa nuotare bene e non le piace particolarmente il mare. Ma l'anno scorso non siamo andati praticamente da nessuna parte, stressantissimi viaggi di lavoro a parte.
Per cui, ha controllato la sua agenda e ha detto che andava bene.
Da quando lavora a Milano e segue anche lei progetti per l'Unione Europea, ci vediamo poco.
Vabbé, l'entusiasmo era limitato, ma non mi aspettavo che giusto un settimana prima di partire, mi dicesse che le era arrivato sul coppino un impegno improrogabile.
Giovedì sera, al telefono. Il giorno dopo tornava a Bologna.
'Fanculo.
Avevo chiamato subito Paola, per chiederle se poteva.
Ma non era stata una buona mossa.
Le amanti, soprattutto quelle storiche, finiscono per comportarsi come mogli succedanee.
E lei aveva innumerevoli ragioni di rancore per rifiutare quell'offerta.
Ma alla fine, brontolando aveva accettato.
Quella testa di cazzo di suo marito non c'è praticamente mai.
Ma venerdì scorso, poco prima che mia moglie tornasse da Milano, mi aveva chiamato per dirmi che, nonostante le dispiacesse, anche lei non poteva venire.
Puttana di una puttana!
Vabbé, a quel punto sarei andato da solo.
In fondo, mi sentivo anche un po' sollevato. Mentire va bene, ma il rischio di essere beccato in questo caso era davvero concreto. Anna e Paola sono amiche da sempre. Non sarebbe stato facile giustificare la presenza di Paola in aeroporto, al mio stesso imbarco, per lo stesso charter.
Poi l'idea di chiamare l'Alina.
Mi sentivo eccitatissimo dalla prospettiva.
E lei mi aveva detto più volte che le sarebbe piaciuto andare a Sharm.
Quarant'anni, chiattina ma ben tornita, sarebbe persino stata credibile come compagna “ufficiale” del me medesimo.
Per cui, l'avevo chiamata e le avevo proposto di venire. Certo, non gratis. Anche se non lavora sempre, ogni tanto qualche marchetta se la fa pure lei.
Come vive?
Beh, diciamo che un paio di lustri fa ha avuto il culo di farsi sposare da un italiano di una certa età, che è schiattato immediatamente lasciandole una interessante pensione di reversibilità.
Si è sistemata, povera stella. E da qualche anno prende solo clienti affezionati e qualche sbarbatello per suo divertimento.
In ogni caso, ha accettato per un forfait di un mille. Nessun limite, a parte le ovvie precauzioni profilattiche.
Regalato.
C'era il problema di come organizzare la cosa, visto che la mia signora mi avrebbe accompagnato all'aeroporto domenica pomeriggio, prima di partire per Milano. Lo stesso problema che si sarebbe presentato con Paola, ma meno complicato, per via che non si conoscono.
Sono riuscito a chiamare l'agenzia e a combinare che il voucher del passaggio aereo le fosse consegnato direttamente al banco del check-in.
Un po' di rischio fa bene alle imprese ardite.
E quando c'è di mezzo la figa, il mio ardimento è proverbiale.
Così, siamo partiti. Lei era contentissima.
Una settimana di ferie, pure pagata, in un cinque stelle.
Vabbé, il primo giorno avevamo un po' studiato le opzioni.
Io avevo pianificato di uscire a fare snorkeling sia la mattina che il pomeriggio.
Lei avrebbe usufruito della spiaggia, della spa e dell'all inclusive dell'albergo.
Sembrava impressionata dai camerieri. Tutti mori, alti e ben portanti.
Ehi, piccola, l'avevo ammonita quella sera, hai un compito: sembrare mia moglie.
Appunto, aveva ridacchiato, e le mogli tradiscono sempre i mariti.
L'Alina è pure simpatica.
Ma quel compito non era mica facile.
Dopo l'inutile sontuosa cena a buffet, abbiamo fatto qualche chiacchiera con le coppie che si erano sedute al nostro stesso tavolo.
Poi a nanna. Eravamo entrambi sfatti.
E il giorno dopo, avevamo messo in atto la routine pianificata.
Io in barca sul rif, a nuotare nell'immenso blu di cielo e mare, con pinne, maschera e boccaglio. Lei stravaccata nelle comodità hotelliere.
Un idillio.
Cazzo, si lamenta sbuffando, mi fanno male le gambe. Vengo sopra io.
Mi fa uscire e mi viene sopra.
No, non era un compito facile sembrare mia moglie.
In zero secondi la prima mattina si erano tutti accorti che era una puttana.
Non dipendeva da un segnale connotativo inequivocabile, ma si capiva lo stesso.
A colazione, anche le altre mogli portavano cose comode.
Alcune, come lei, leggings neri. Altre, molto più provocanti prendisole sgargianti su nudità semi esposte.
Ma nessuna portava sandalini con il tacco.
Glie l'avevo fatto notare.
Ma lei aveva obiettato che con le ciabatte le casca il sedere.
'Fanculo.
In fondo non me ne fregava niente.
L'Alina non sfigurava affatto.
Con le sue gambotte piene, il seno prosperoso, il viso sempre sorridente.
Forse un po' troppo accattivante, per interpretare il ruolo della moglie di un distinto dirigente.
Già durante il buffet della cena del lunedì qualcuno mi guardava con un mezzo sorriso di complicità.
E dire che lei era entrata perfettamente nella parte.
Affettuosa. Mi prendeva ogni tanto per mano e mi seguiva praticamente ovunque, quando eravamo insieme.
Mi sorride e scende a sfiorarmi le labbra. L'Alina ha le propensione a farsi penetrare profondamente. Quando viene fa solo un piccolo singulto, ma si bagna molto.
Poi, sembra incazzata. E deve smettere per qualche minuto.
Ma ricomincia presto. Ci sa fare.
In culo, decide.
Me lo prende con due dita e se lo punta.
Il preservativo è fradicio di umori ed entra abbastanza agevolmente.
Del resto, prima si era data un cincinino di Luan.
Cazzo, inveisce scherzosamente, ho fatto male a portare il Viagra. Mi scopi tutta notte e la mattina ho le occhiaie.
Scoppio a ridere e lei si mette meglio a gabbietta.
Si incula piano piano, stringendo i denti e fissandomi negli occhi.
Ogni penetrazione anale, in fondo, è una specie di sfida.
Le stringo le grosse tette e lei ansima appena.
Non è teatro, semplicemente tecnica.
Sulla barca che ci porta sul rif siamo in quattro. Una coppia quarantenne di Pesaro e Valerio, un ingegnere di Ferrara.
Sono tutti abbastanza esperti e facciamo un sacco di foto.
Ci portano in acque basse, con flora e fauna abbondante e facile da inquadrare.
Valerio è un tipo simpatico, ci siamo intesi subito. Anche se non ha ancora quarant'anni, ha le mie stesse passioni: la musica, la letteratura, la matematica, i viaggi.
Quando non siamo in acqua, o in albergo con le rispettive accompagnatrici, parliamo e scherziamo.
Mi sono divertito con lui. Peccato che la sua ragazza sia schizzinosa e cagacazzo.
Con l'Alina si sono prese subito male. A parte la differenza d'età, la ragazzina è troppo smorfiosa per le battute un po' grasse della puttana romena.
Vabbé, fa lo stesso.
In compenso, quando sono tornato dal mio snorkeling, la mia presunta moglie mi stava aspettando in spiaggia, prendendo il sole in compagnia di una figa fotonica. Una certa Marika, ungherese.
Anche lei puttana, ovviamente.
Che accompagnava, senza alcun intento mimetico, un tipo che avevo appena intravisto la sera prima. E che quella mattina era andato a fare immersioni con la barca dedicata.
Le due si erano subito inquadrate, riconosciute appartenenti allo stesso ruolo professionale e immediatamente associate.
Alina era rossa per il sole preso, profumata di sale e lozioni abbronzanti.
Mi aveva presentato la nuova amica, preso per mano e portato in stanza.
Dove ci eravamo fatti una scopatina prima di cena. Visto che la sera prima eravamo troppo stanchi.
Una cosa in amicizia, di cui forse aveva bisogno lei più di me.
Accidenti, mormora uscendo.
Si allunga a prendere il flacone di Luan e si unge ancora il sedere.
Fa male? Mi informo.
Un po', ammette, ce l'hai troppo grosso.
Aspetta che si allarghi massaggiandosi delicatamente.
Il mio affare tiene botta.
È carino quando fa così, ridacchia indicandomelo.
Abbastanza, ammetto.
Lo sai, spiega, che quando fai senza non devi mai usare il Luan?
Certo, confermo, la lindocaina rende insensibile il cazzo.
Non lo sapevo, annuisce, una volta l'ho fatto con mio marito e non riusciva a venire. Siamo andati avanti per quasi un'ora.
La volta che è schiattato? Scherzo.
Il suo uomo è morto di infarto. Improvvisamente, tre giorni dopo essere andato in pensione.
Stava prendendo il caffè in un bar e si è accasciato.
Faceva il rappresentante di roba di ferramenta o tubi d'acciaio, una roba così. E giocava a tennis, mai fumato, mai bevuto, mai drogato.
La morte è misteriosa quasi quanto la vita.
Lei ride grassa e si punta di nuovo l'affare sul didietro.
La lubrificazione rende l'impresa meno ardua.
Entra tutto e lei espira rilassandosi.
Così, lunedì sera abbiamo cenato con la Marika e il suo mecco.
Commercialista di Forlì, sessantenne abbastanza in forma.
Insopportabilmente di destra, ma sono tollerante.
Irrevocabilmente ignorante e banale. Cosa che invece non concepisco.
In ogni caso, da quella sera nessuno è venuto a sedersi al nostro tavolo. Né a cena, né a colazione.
E, per quanto ne so, neppure a pranzo.
Noi dello snorkeling avevamo deciso di mangiare qualcosa di leggero a mezzogiorno, in barca.
Ma l'Alina mi aveva raccontato divertita dell'ostracismo che poco alla volta avevano praticato nei loro confronti.
A lei non importava. A me, invece, dava un po' fastidio.
Anche il commercialista pranzava in barca. Per cui le due donne stavano praticamente insieme tutto il giorno.
E pure la sera, visto che non c'era nessun altro disposto ad accettare la nostra compagnia.
E la notte, prima della nostra immancabile scopatina narcotica, lei mi raccontava le chiacchiere che avevano fatto.
Sembrava affascinata da questa Marika. Secondo lei non era solo bellissima, aveva stile ed era intelligente.
In effetti, l'ungherese era figa al cubo. Quasi un metro e ottanta per una settantina di chili molto ben distribuiti. Mora con gli occhi verdi. Sguardo ferino e sorriso irresistibile.
Secondo le informazioni che aveva preso la mia pupa, la Marika sarebbe stata pagata tremila eurazzi per la vacanza.
Per cui, mi aveva fatto giurare di non dire a nessuno che a me aveva fatto il super sconto. Che lei aveva detto che per meno di tremila neppure lei sarebbe venuta.
Quanta tenerezza!
In ogni caso, tutti le trattavano da puttane.
I camerieri erano allusivi, le moglie legittime altere e sprezzanti, gli altri mariti ammiccanti.
Se fosse stata un po' meno onesta, pensavo, si sarebbe fatta pure qualche marchetta.
Ma lei ci provava comunque a simulare una normalità.
Era affettuosissima quando eravamo con gli altri.
Creando qualche imbarazzo nella Marika, che invece teneva fede al suo ruolo di puttana pagata.
A dire il vero, l'Alina era molto affettuosa anche quando eravamo da soli. Forse mi era grata di quella possibilità.
Nonostante l'evidente iato comunicazionale, lei ribadiva costantemente che noi eravamo una coppia.
Quando partivo la mattina, mi accompagnava alla banchina e mi salutava con un piccolo bacio sulle labbra.
Quando tornavo la sera mi abbracciava e mi baciava alzandosi sulle punte dei piedi.
Ogni giorno più abbronzata del precedente. Sempre più rilassata e sicura di sé.
Mi prendeva per mano e, tutta contenta, mi trascinava in stanza.
A fare una doccia e un po' di sesso. Come aperitivo.
Giusto una sega, mentre ci lavavamo insieme. O un piccolo pompino propiziatorio.
Cazzo, mormora un po' affannata, ma perché mi piace tanto in culo?
Si muove appena, stringendomi il petto con entrambe le mani. A occhi chiusi.
Non si tocca la patata, per cui non è ancora pronta.
Ma è uno di quei momenti in cui sento che le piace davvero.
Non so, scuoto la testa, anche a me piace tanto.
Non è solo per lo stretto, osserva, è l'idea.
Certo, confermo.
Dopo, sorride, c'è sempre un po' di merda nel preservativo. Non ti fa schifo?
No, alzo le spalle, fa parte del gioco.
A me fa un po' schifo, osserva riaprendo gli occhioni scuri.
Quando eravamo partiti era fresca di parrucchiera e la sua chioma era gonfia e liscia.
Adesso, con il sole e i bagni nell'acqua bassa si è arruffata.
E in questo momento è particolarmente scarmigliata.
Non mi dispiace affatto.
Una volta, mormora, avevo un cliente che mi leccava il culo. Mi faceva mettere a pecora e mi infilava tutta la lingua dentro. E intanto si tirava una sega.
Ti piaceva? Chiedo spingendomi ancora più dentro di lei.
Non so, annasa, mi toccava anche per davanti. Ma non ero tanto a mio agio.
Non sembra un invito, ma allungo una manina ad accarezzarle la patata.
Lei sorride e si tira via.
Basta, dice risoluta, scopiamo seriamente per una volta.
Poi scoppia a ridere autoreferenziale.
Mi toglie il preservativo, che in effetti ha una piccola macchia scura in fondo. E me ne infila un altro.
Poi si mette supina, nell'implicito invito di scoparla a mission.
Come rifiutare?
A cena, comunque, le mogli si scatenavano.
Era tutto un florilegio di mise sempre più provocanti.
Qualche cicciona cinquantenne in vaporosi vestiti lunghi con spacchi tattici. A rivelare a tratti celluliti e vene varicose.
Frotte di quarantenni piacenti, in minigonne vertiginose e toppini. E qualche maniglia strabordante.
Trentenni, poche, più castigate in jeans strettissimi e magliette senza niente sotto.
Ogni sera si consumava un micidiale confronto semantico.
I mariti, inconsapevoli dello sfrenato agonismo in corso, che masticavano sbirciando scollature e attaccature di cosce abbronzate.
Certo, tutte alzavano il nasino sprezzante quando la Marika faceva la sua entrata.
Vestitino corto, tacco dodici. Quasi due metri di gnocca perfetta.
Cui si accodava, conscia dell'inutilità della competizione, l'Alina in abitino scuro, sandalini in tinta. Taccata vertiginosa. Tetta libera.
Più provocazione, che aggettivazione.
Soli, al nostro tavolo, mentre le pupe si alzavano ogni tre minuti per raggiungere la passerella del buffet, io e il commercialista parlavamo di politica inveendo, con diversa consapevolezza, contro il regime, il dittatore e le sue figurine.
Nonostante ciò, l'Alina tentava di mantenere fede al suo compito.
Mi sorrideva amorevole, mi accarezzava affettuosa ogni volta che si alzava o tornava con il piatto pieno.
Se non fosse stata tanto patentemente puttana, sarebbe stata davvero credibile.
I segnali erano quelli giusti. Era il contorno che mandava in vacca tutto.
Giovedì sera, poi, gli animatori avevano previsto una festicciola a premi.
Ero riuscito a schivare ogni iniziativa precedente lamentando stanchezza, soprattutto il karaoke e la caccia al tesoro. Ma quella volta lì, l'Alina era scatenata.
Era dal pomeriggio prima che si allenava con la Marika, perché nel programma era prevista una gara a coppie di mimo e titoli di canzoni. E loro si sentivano prontissime.
Ovviamente, la delusione incombeva.
Dopo cena, tutte le mogli, si fa per dire, si erano andate a cambiare.
Le giovani sfoggiavano mini ai limiti delle decenza e qualcuna delle più audaci leggings semitrasparenti con niente sotto. Le più anziane avevano liberato i seni sotto magliette e camicie scollate.
Io e il commercialista bevevamo in silenzio in un angolo rum e succo di limone, presagendo il dramma incombente.
Dai, fa l'Alina leccandosi le labbra, facciamo piano.
Ma sono parecchio eccitato. Per cui, le tiro su un po' le gambe e la penetro a fondo.
Si lamenta, ma le piace. Forse si lamenta proprio perché le piace.
Non dovrebbe piacerle, credo.
In ogni caso, mi stringe la nuca e mi avvinghia la schiena con le sue gambe forti.
E in pochi secondi, emette il suo solito singulto quasi impercettibile.
So che si innervosirà, per cui, vengo pure io, con un lungo ansito.
Lei mi allunga le labbra e mi bacia dolcemente.
Perché uno degli animatori, scherzando con una certa allusiva arroganza, prima della gara aveva annunciato che le coppie potevano essere solo coppie vere.
Per cui, l'Alina avrebbe dovuto giocare con me, non con Marika.
E la fidanzata del mio amico Valerio aveva borbottato che allora le due straniere non potevano giocare. Che le coppie vere erano solo le altre.
Una delle altre trentenni in saldo aveva ridacchiato. E il clima si era raggelato.
Meno male che l'animatore aveva subito iniziato il gioco, chiamando due coppie.
Ma l'Alina era furibonda.
Non era per il sottinteso evidente della sua puttaneria. Era la delusione di non essere riuscita ad essere sufficientemente credibile per istillare almeno il dubbio.
Per cui, dopo qualche minuto, cercando di non farsi notare, mi aveva preso per mano e mi aveva detto di essere stanca. Che forse era meglio se salivamo a riposare.
E che dopo aveva il mal di testa, sosteneva.
Ma si capiva che era solo nervoso.
Così, ci eravamo coricati. E ci eravamo addormentati senza scopare, per una volta.
Sorride.
Mi spinge via e mi toglie il preservativo.
Va in bagno a buttarlo e a sgurarsi la patata.
Alla fine, non contenta, si fa una doccia.
Io accendo una sigaretta e apro la finestra al caldo della notte africana.
Sa di letame e di stanchezza.
Per cui, torno a coricarmi e abbasso il condizionatore al minimo.
Sono micidiali.
La mattina dopo, comunque, ancora un po' confusi dal sonno, avevamo fatto sesso.
Come dire, non ho convinto nessuno, sono una puttana. Quindi, faccio la puttana.
Mi ha giocato tutti i suoi numeri. Pompa cabrio, tutte le posizioni canoniche e poi rai2. Cimmone finale, con snowballing e parziale ingoio.
Un classico. Anche se difficilmente mi era stato interpretato tutto insieme.
Rideva, forse per scacciare la delusione.
Forse per ribadire la cifra del suo essere puttana.
E donna.
Mentre l'aspetto, mi appisolo. Sono davvero stanco.
Domani partiremo dopo pranzo, verso le due.
E saremo a Bologna per le nove.
Mia moglie mi verrà a prendere. Mi porterà a casa, passeremo una serata in intimità. E domenica ripartirà per Milano.
La amo davvero. Le voglio bene, anche se la tradisco in continuazione.
Quando rientra dal bagno, profumata e ancora umida, la sento appena, ormai intorpidito dal sonno.
Lei si stende sotto le lenzuola e mi abbraccia da dietro.
Stiamo un po' così, a godere del reciproco calore.
Poi lei spegne la luce e prima di girarsi ad abbracciare il suo cuscino, mi accarezza il viso con un lento gesto di affetto.
Proprio come una moglie.
 
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Questo racconto è frutto della mia fantasia. Eventuali riferimenti a persone esistenti e a situazioni reali è del tutto casuale

Niente di nuovo ma sempre diverso


Va bene, accetta.
Ma si vede che è poco convinta.
Da me, aggiungo.
No, dai! Sbuffa, ok culo, ok bocca senza fino fine, ok, cento. Ma ci andiamo da me.
Casa mia è più vicina, argomento, giusto cinque minuti.
'Fanculo, mormora esasperata, come tu sai se mia casa è meno vicina di tua?
Alzo le spalle.
Apre la porta sbuffando e sale.
Non è tappata neppure troppo da zoccola.
Giusto i trampoli, ecco, sono fuori quota.
Maria, si presenta.
Avrà massimo vent'anni. Jeans e giubbino aperto sopra una maglietta stretta.
Due pere invitanti al massimo grado, retrotreno supponente.
Facciotta zingaresca e lunghi capelli scuri raccolti in uno chignon.
Mai vista in zona, sostava un po disorientata nei pressi di un distributore.
Mi ero fermato giusto per intervistarla.
Ma poi la contrattazione mi ha preso la mano.
Ad essere sincero, non ho neanche tanta voglia di scopare.
Il punteraggio è puro vizio. E il vizio ha sempre un carattere rituale.
Attanasio, le allungo la mano ridanciano.
Lei me la stringe diffidente.
Sei italiano? Chiede sospettosa.
Della dotta e rubra Felsina, confermo.
Non conosco, scuote la testa negativamente.
Autoctono, ribadisco, con ascendenze rezie, elleniche, teutoniche e galliche.
Albanese? Si allarma.
No, cerco di rassicurarla, villanoviano.
'Fanculo, balbetta, mettimi giù.
Dai, cazzo! Le sorrido, sto scherzando.
Scherzando sì o no, esclama, tu metti giù.
Dai! Insisto, mi stavo solo divertendo, non dirmi che mi hai preso sul serio per straniero?
No parli italiano, osserva.
È davvero innervosita. Tiene la borsetta con entrambe le mani.
E le gambe strette, in posizione di difesa.
Sì che parlo italiano, dichiaro.
Ma tu somigli serbo, mi accusa alzando la voce, o croato o altro di est. No italiano.
Giuro! Scherzo ancora incrociando le dita sulle labbra.
E riprendendo precipitosamente il volante con entrambe le mani, per non rischiare di tamponare una cinquecento al semaforo di porta San Felice.
La ragazza è sempre meno convinta.
È la prima volta che mi scambiano per slavo, di solito mi prendono per tedesco.
Se non straniero, ragiona, allora prendi in giro. Non piace, mettimi qui giù.
Ok, mi rassegno accostando, scusa. Non volevo, stavo solo scherzando.
Non piace, insiste, quando prende per culo.
Abbiamo fatto solo qualche centinaio di metri.
Ti ho già chiesto scusa, le faccio notare.
Se non parlo italiano bene, dice cocciuta, è normale. Io qui da solo settimana. E se tu più studiato di me e più intelligente di me non è ragione buona per parlare male.
In tutto questo c'è qualcosa di ridicolo. Ma non di divertente.
Ok, sospiro.
Mi sposto di qualche metro e parcheggio davanti a un passo carraio, subito dopo la porta. Tiro fuori il portafogli e le mostro la mia carta d'identità.
È di quelle elettroniche, per cui lei la studia alla luce fioca dei lampioni del viale.
Torce il naso poco convinta e me la rende.
Visto? Le sorrido.
Questo non significa, ribadisce alzando il nasino, che tu sei persona buona.
Ok, mi rassegno.
Le allungo cinquanta carte e le faccio segno che può scendere.
Non sono più dell'umore.
Mi spiace, è stato un errore mio. Dovevo capire che non era opportuno scherzare.
Ci vuole niente a fraintendere.
La ragazza prende i soldi incredula e scende esibendo tutto il suo contegno.
Certo che è davvero una gran manza.
Mi fa un cenno supponente di saluto e si avvia con passo impacciato.
Non deve essere abituata a taccarsi tanto alta.
La guardo attraversare sulle strisce l'incrocio con via Saffi, per tornare lentamente verso al sua postazione.
'Fanculo, avrei voluto dargliene solo venti, per il disturbo, ma avevo solo due cinquantoni nel portafogli. La tariffa sindacale del take away all inclusive orario.
Riparto un po' innervosito per questa incomprensione.
Giro in Sant'Isaia e mi fermo al bancomat a prelevare un po' di soldi.
Mentre ci sono, compro una bottiglietta d'acqua al distributore automatico. E un pacchetto di Chester.
Sono ancora un po' indispettito.
Da qualche tempo fumo con moderazione.
Ma adesso me ne accendo una e aspiro avidamente.
Torno alla macchinetta e uso la poca moneta che mi rimane per comprare anche una lattina di tè verde. L'acqua non mi va.
Ne bevo qualche sorso e torno in macchina.
Incerto se fare un salto a dragare la zona di Borgo o dirigermi a San Lazzaro, in cerca di qualche fidelizzata al pascolo, finisco per tornare verso la stazione, memore di una biondina nuova intravista ieri sera dopo porta Lame.
Passando, faccio un cenno alla Simona, che mi saluta con la manina. Dribblo le sudamericane che, come sempre, mi girano il culo scuotendo le terga invitanti quando passo loro davanti e atterro di nuovo in viale Silvani.
Il semaforo è inesorabilmente rosso. E quando mi fermo, vedo la ragazzina di prima che sta ancora camminando faticosamente verso la sua sede aziendale.
Si gira e anche lei mi vede.
Mi fa un cenno, vuole che l'aspetti.
Non ho nessuna voglia di parlare ancora con lei.
Ma mi sembra maleducato andare via.
Del resto, è ancora rosso.
La ragazza attraversa la strada cercando di affrettarsi. Ma le viene male. I tacchi sono troppo alti, lei non è esercitata alla corsa sui trampoli e probabilmente non è per niente a suo agio, con quei jeans tanto stretti.
Comunque, arriva proprio mentre scatta il verde.
Per fortuna, non c'è nessuno dietro. Altrimenti, sai che claxonate? Qualsiasi occasione è buona per l'insensatezza dei conducenti di veicoli a motore.
Abbasso il finestrino. Ma lei apre la portiera e sale.
Mi allunga le cinquanta carte con aria sussiegosa.
Non so che dire.
Dai dopo, spiega.
Ok, sospiro.
Sicuramente ha ripensato, come me del resto, al nostro assurdo alterco.
E forse ha valutata esagerata la sua reazione. No, non era il caso di inalberarsi.
Non sono per niente dell'umore. Ma ok, questa sera è partita male.
Più tardi, magari, mi rifaccio con una delle semi fidelizzate superlative che ho nel carnet.
Andiamo da te, decido.
Lei mi guarda incerta.
Forse non sa bene come arrivarci da lì. Deve essere abituata a partire dall'altra parte del viale.
Si immerge in complicati calcoli topografici, da cui risulta che devo girare su via Zanardi.
Con ingegnosa strategia direzionale, mi indica a gesti di svoltare per un paio di laterali, fino a ripristinare il giusto orientamento.
E finalmente, riconosce la direzione maestra. Mi guida verso Santa Viola, evitando persino un insidioso senso vietato. Uno di quelli tatticamente inseriti dai viabilitsti del comune per ingannare l'automobilista medio potenziale pagante multa.
Mi fa posteggiare davanti a un condominio, vicino al parco.
Scendiamo e la seguo verso il portone.
Ma invece di entrare, prosegue fino a un vicolo laterale ghiaiato e mi invita a percorrerlo.
Così, raggiungiamo affiancati, un po' a piedi un po' camminando, una casa bassa, dietro una fila di villette e un giardino.
Il posto sarebbe anche bello, se non fosse maledettamente giù di manutenzione. I muri sono scrostati. E dai pilastri della recinzione spuntano ferri arrugginiti.
Solo una lampada giallastra illumina il cortile, dove sono cresciuti senza il contributo di un giardiniere diplomato frattali di cespugli e alberi renitenti.
Ci sono tre porte. Lei apre la prima, accende la luce e mi precede nell'abitazione.
È piacevole.
Un'entrata, con un tinello. E una porta che dà su una zona notte.
Fa fresco, nonostante la primavera esterna imiti da qualche settimana un giugno avanzato.
Non è un posto dove abitano. Evidentemente lo noleggiano alle puttane per andarci a scopare.
Mi fa segno che possiamo andare in camera da letto.
Il bagno? Mi informo.
Lei mi apre una porta e accende la luce.
Il posto è stato ristrutturato di recente, c'è ancora odore di pittura muraria.
Il boiler è spento.
Mi lavo comunque il pinco con l'acqua gelida che scende da un rubinetto di semi marca.
E piscio nel water dandomi del cretino.
Era meglio se le lasciavo le cinquanta carte. E andavo subito a San Lazzaro.
Mi asciugo l'armamentario in dotazione con la carta igienica e raggiungo la pupa in stanza.
Si è seduta sul letto e fuma una sigaretta.
La camera è anonima ma accogliente, tutta in legno scuro.
La pupa si è tolta solamente le vertiginose scarpe zoccolesche.
E non è per niente incoraggiante.
Lo sapevo che era un missile intercontinentale.
Era evidente fin dalla contrattazione.
Ne ho conosciute a decine così. Sono belle e credono basti a renderle desiderabili.
Si va a puttane anche per essere delusi e, in rari casi, stupiti.
Facciamo? Chiede annasando.
Ok, borbotto.
Mi sfilo le scarpe e i pantaloni.
Lei si sbiotta partendo da sopra.
Rivela due considerevoli meloni, dentro a un reggitette rosso scuro, del tutto insufficiente a contenerli.
Si toglie anche i jeans.
Finisco di spogliarmi pure io.
Fa un po' freddo.
Ma conto di scaldarmi almeno un po', quando ci abbracceremo.
Gli slip sono coordinati con il reggipetto. E sicuramente il tutto le è stato prestato, perché ridotto di una taglia, forse due.
In ogni caso, non accenna a togliersi quel che rimane.
Visto che mi sono steso su un fianco. Viene anche lei a coricarsi.
Mi guarda seria e mi tocca il petto fitto di pelo.
Fa un miraggio di accenno di allusione di sorriso pettinandomelo con le dita.
E poi alza gli occhi nella muta richiesta di guidarla.
Pronta a mettere in atto tutte le prescrizioni necessarie a frustrare ogni mio desiderio.
Funziona così, con 'ste tinche.
Lo sapevo fin dall'inizio.
E bacio no, che non lo faccio.
E tocca piano le tette, che mi fa male.
E non succhiarmele, che mi dà fastidio.
E niente dito dentro, che non è igienico.
Figuriamoci nel di dietro.
Leccarla? Su, cerca di essere realista.
E non spingere troppo, che sei pesante.
Meglio se vengo sopra io e non toccarmi il viso.
A pecora mi fa male.
Di fianco entri troppo.
Sospiro di delusione preventiva.
Fumiamo, prima, propongo.
Lei ha appena spento la sua Kent.
Ma prende un posacenere e se ne accende un'altra.
Ha la pelle d'oca per il fresco. Ed è già un po' raffreddata.
La imito. Questa sera trovo le paglie particolarmente buone.
E la osservo con occhio premonitore.
Se potesse rivestirsi, sarebbe assai contenta.
Invece, deve accontentarsi del mio abbraccio.
Le cingo le spalle e lei, con la massima ritrosia manifestabile in un qualsiasi contesto comunicativo, si avvicina per farsi scaldare.
Stiamo sperimentando uno stimolante laboratorio semantico.
Ne sarei divertito, se non fossi stanco e nostalgico.
La prossenica contro la prossenetica, mi dico dottamente aspirando e toccandole delicatamente un fianco.
Lei continua a evitare i miei occhi. E fumare nervosamente.
Dal confronto esco umiliato. Il mio affare non raggiunge sicuramente la soglia minima penetrativa.
Facciamo? Ripete quando arriva al filtro.
Ok, mi rassegno.
Sarebbe meravigliosa. Tette grandi, culo imperiale, curva perfetta delle anche.
Basterebbe un sorriso di accattivanza.
Invece, si stende supina e mi guarda con occhio iniettato di disgusto.
Piccola stronza, ridacchio intimamente.
Le sgancio il reggiseno, fornito di apposito congegno anteriore.
E libero due tette che definire apocalittiche è aggettivazione sminuente.
Larghe, turgide, burrose, dotate di capezzolo morbido e di dimensione superlativa, posizione alta e direzione verticale.
Porca puttana, mormoro ammirato.
Lei si gira a fissarmi di nuovo con superiore distanza.
Contro ogni aspettativa, quando gliele tocco non si lamenta.
Comincio ad essere emozionato.
E il pinco si gonfia lentamente.
La spingo a mettersi di fianco, dandomi le terga.
Mi appoggio alla sua schiena.
E le accarezzo il petto e il pancino.
Lo chignon si è sciolto, per cui mi faccio strada tra la folta capigliatura scura e le bacio sperimentativo la nuca.
Sicuro che mi respingerà.
Invece, non dice niente. Si tira da parte i capelli con un breve gesto della mano.
E si lascia fare.
Forse prima ho interpretato male. Non è restia, è passiva.
Il risultato, nella generalità dei casi, è appena un poco più incoraggiante.
Avevamo detto un'ora. E allora cerchiamo di rilassarci.
Visto che non protesta, le bacio anche le orecchie.
E le stringo un poco le tette.
Il mio affare adesso le spinge tra le natiche.
Di sua iniziativa, si piega a togliersi gli inutili slip.
Porca puttana, ma cosa ho pescato questa sera?
Ero consapevole della sua bellezza. Ma nuda e spatasciata davanti ottura le coronarie di emozione.
La tiro a girarsi verso di me.
Lei non resiste.
È rossa e accaldata, nonostante il fresco.
E improvvisamente capisco.
Non è restia, è imbarazzata.
Non è scontrosa, è disorientata.
Non è stronza, è che non sa fare.
Me lo aveva anche detto che è qui da solo una settimana.
Senza l'ausilio di qualche amica, magari, o dietro generiche indicazioni.
O, peggio, mandata in strada a calci in culo da un pappone.
Cosa può mai aver imparato scopando in macchina per trenta euro?
Questa è la situazione cui ogni punter ambisce. Educare una puttana.
Ma sinceramente non mi è mai piaciuto.
Mi sembra sempre di profittare di una condizione di inferiorità.
Le puttane sono, in generale, inesperte di sesso in modo disarmante.
E nel contempo conoscono perfettamente le regole che governano il mercenariato.
Si districano con alterna competenza tra l'appetito del cliente e la loro capacità di lasciargli immaginare altro.
Ci sono superiori in economia del desiderio. Forse perché non ci desiderano.
Desiderano solo in nostri soldi.
Ma la tentazione è forte.
L'abbraccio in modo più stretto e le allungo le labbra.
Questa è la prova vera da superare.
Lei me le sfiora appena e mi guarda imbarazzata.
Se non vuoi, sussurro, fa lo stesso.
Fa un gesto incurante.
Così, le infilo la lingua tra i denti e lei mi ricambia pacatamente.
Senza esagerare, eh!
'Fanculo. Delle volte sono di un'inettitudine punteresca inammissibile.
Avrei dovuto capire la situazione già prima di cominciare la contrattazione.
Sono stato un fesso al cubo.
Quello che sto facendo mi inquieta.
Preferirei diversamente, ma il desiderio cova strane nidiate.
Le accarezzo un seno e le spingo l'affare ormai durissimo contro il pancino.
Mi stacco dalle sue labbra e scendo a succhiarle il seno.
Finalmente capisce che non è vietato prendermelo in mano.
Per cui, timidamente lo afferra con due dita e me lo tira scoprendo appena la cappella.
Ma è un passo avanti, via.
Le accarezzo ancora i fianchi e il ventre.
Poi torno a baciarla e le infilo un ditino nella patatina.
Accidenti, scherzo, che bella cosina che hai qui! Dove l'hai comprata?
La ragazza scoppia a ridere e si stacca.
Scuote le tette, forse liberandosi dal nervosismo accumulato.
Me l'ha regalata la mia mamma, risponde soddisfatta del suo acume.
Le cerco di nuovo la lingua.
Ma lei si tira via scherzosamente, come per farsi inseguire.
Elevo una muta preghiera al dio dei vecchi punter senza dio. Per ringraziarlo di tanta gioia.
E provo a inseguirla.
Ecco che l'intimità è diventata gioco. Il mio desiderio, dialettica.
La tua mamma, ribatto, ha lavorato davvero bene.
Ride di nuovo. Poi si fa raggiungere e mi bacia lei.
Non lo fa appassionatamente, ma diligentemente.
Anche tuo babbo, osserva allusiva, ha lavorato molto per fabbricare questa cosa qui.
Finalmente me lo impugna con maggiore decisione.
Rido pure io e lei arrossisce per l'impertinenza.
Accidenti, rischia di diventare davvero divertente.
Le lecco il naso.
Lei ridacchia e mi morde il mento.
Le stringo di nuovo il seno e lei rafforza la sua presa.
Scendo a baciarle ancora il petto e il pancino.
Sento che è un po' tesa, ma potrebbe non essere un cattivo segno.
Con mossa esperta, mi allontano e affondo le fauci nel caldo del suo pube.
Non reagisce molto. A parte che mi mette una mano tra i pochi capelli.
La lecco piano.
Non è un lago, ma neppure un deserto.
Ha davvero una patatina minuscola, per una che supera abbondantemente il metro e settanta.
Risalgo a baciarla.
E questa volta, mi ricambia stringendomi la nuca e ansimando un cincinino.
Cazzo, di cane, mi dico. Non fare lo stronzo.
Non è morale, quello che stai combinando.
Lei deve essere educata a fare la puttana, non l'amante.
Avrà già un fidanzato da qualche parte, per questo.
Non fare l'idiota.
La ricerca di reciprocità si fa partendo da pari condizioni.
Intanto, però, obbedendo alla parte meno razionale di me, le sto massaggiando delicatamente la patata. E approfitto del bagnatino per scendere a inumidirle anche lo sfintere.
Adesso capisco il suo nervosismo durante la contrattazione.
Ha accettato culo perché cento euro sono tanti soldi, per lei.
Ma non deve averne tanta esperienza. Come di tutto il resto, peraltro.
Il suo buchino dietro è strettissimo ed evidentemente mai utilizzato per scopi diversi da quelli fisiologici.
Mi spinge via e sorride.
Deve aver deciso di fare la sua parte da puttana.
Almeno per come la intende lei.
Perché si abbassa e mi imbocca l'affare.
Lo succhia delicatamente. Non affonda.
Ma deve sentirsi parecchio ardimentosa.
Ogni tanto mi guarda con occhi che chiedono approvazione.
'Sta bimba rischia di diventare pericolosa.
Le prendo la testa con entrambe le mani. E la guido appena.
Non voglio esagerare.
Prima, durante la contrattazione, forse non aveva neppure capito cosa significasse bocca fino alla fine.
Sono stato davvero un fesso a non capirlo da subito.
Me la tiro sopra. Così posso leccarla, mentre lei mi succhia.
Non è tanto a suo agio, a quanto pare, ma non si nega.
Poco alla volta prende coraggio.
Se lo infila quasi tutto e saliva parecchio.
Da parte mia, le apro le chiappe con le mani e lecco dove arrivo.
Il suo buchino dietro mi ispira penetrazioni violente, sicuramente non alla portata della piccola.
In ogni caso, gli do qualche lappatina. Che la fanno fremere leggermente, sicuramente di ulteriore imbarazzo.
Ma dopo un po', il 69 stanca. Per cui, me la tiro via. E ripristino la giusta posizione.
Lingua in bocca e il mio cazzo che sfrega tra le sue gambe.
Dove, sarà la mia saliva, sarà che la bimba non è di pietra, l'umido è parecchio cresciuto.
Ora, mi dico, devo mettere il goldone.
Ma lei si tira da una parte, su un fianco e mi sorride triste.
Mi accarezza il petto mordendosi il labbro inferiore.
Non ti piace scopare, constato.
No, mormora, adesso facciamo.
Lascia stare, rispondo, capisco.
La ragazza si tira via i capelli dal viso e sbuffa ancora accaldata.
No, balbetta, facciamo. Solo che tanto bello così.
Piccola stronza, mi dico. Ci sai fare più di quanto pensassi.
Torno a baciarla e le infilo di nuovo un ditino dove in pubblico non si potrebbe.
Ma sembra aver cambiato umore.
Mi ricambia appena. E, invece di rilassarle, irrigidisce le gambe mentre la tocco.
Chiamo il time-out.
Lei ride di nuovo.
Prendo due sigarette e le accendo.
Lei mi ringrazia con il suo solito sorriso labile.
Facciamo qualche tiro in silenzio.
Fa ancora freschino, ma noi siamo caldi e vicini.
Lei mi passa un dito su una spalla, apparentemente incuriosita dai segni del tempo e della fatica di vivere.
Cicatrici, smagliature, nei e imperfezioni di cui ormai si è persa la storia.
Io, dice.
Ma si ferma subito. Sembra incerta sul come esprimersi.
Io, continua, sono bene con te.
Annuisce, felice di aver espresso in modo sintetico ma esauriente il suo pensiero.
Spengo la cicca.
Spero, aggiunge, che anche tu bene con me.
Certo, la rassicuro.
Le allungo un bacino e mi alzo.
Raccatto i jeans, finiti sotto il letto. E me li infilo.
Lei mi fissa interrogativa.
No scopare? Mi chiede sorpresa.
No, spiego, ormai è passata quasi un'ora. Va bene così, mi sono molto divertito.
Lei annuisce poco convinta.
E sollevata, probabilmente.
L'eventualità di darmi il culo non doveva essere molto rosea.
Ma non sembra contenta.
Forse, anche se non ha mestiere, ha capito che nel puttanaggio esiste una deontologia.
Il cliente deve venire.
E lei, sarà pure inesperta, ma sempre puttana è.
Per cui, mi tira giù e mi bacia di sua iniziativa.
Da puttana, qual è, anche se alle prime armi, ha capito che mi piace.
Ha capito che quella è la base da cui partire per qualsiasi reciprocità.
Povera piccola, non sa che l'impresa è ardua.
La prostata è micidiale, alla mia età.
Lei è figlia di una consapevolezza elementare.
Gli uomini infilano il loro affare nelle cavità femminili e vengono.
Può essere doloroso, estenuante o esaltante, ma è una regola semplice.
Per cui, mentre mi bacia allunga una manina verso la patta dei miei jeans e, visto che non me li sono ancora abbottonati, mi afferra l'affare.
Si stacca e mi sorride, costatando il mio turgore.
Poi, scende a succhiarlo.
Lo fa con maggiore convinzione, rispetto a prima.
Ha un obiettivo, certo, e la determinazione a conseguirlo.
In fondo, penso, ha ragione lei. Il sesso è una cosa maledettamente semplice.
Glielo infili in bocca, in figa, in culo. E poi vieni.
È così che va, da sempre.
Tu puoi anche considerarti un'eccezione.
Puoi credere nella tua superiorità intellettuale. Puoi inventarti prodigiosi armamentari filosofici per giustificare la tua sete di piacere.
Ma alla fine, come tutti, vuoi sborrare.
Sei una animale particolarmente intelligente, che ragiona con il cazzo.
Per cui, mosso da contrastanti sentimenti, la spingo via, prendo un preservativo e me lo infilo.
Lei si mette un cuscino sotto il sedere e apre le gambe con espressione un po' preoccupata.
Il mio affare, per quanto non enorme, ha un calibro che desta qualche imbarazzo penetrativo.
Le vado sopra e la bacio di nuovo sfregandomi contro il suo pube.
Lei mi succhia la lingua e chiude gli occhi, simulacro di ogni passione.
Non succederà, ma almeno diamole la soddisfazione di averci provato.
Spingo appena. E entra con un piccolo sforzo.
Lei apre gli occhi e mi guarda. Poi sorride stentata e si lecca le labbra.
Brava, mi dico, impari in fretta.
Il sesso è semplice.
Niente di nuovo, in fondo, ma sempre diverso.
 
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Pezzo stupendo
Il sesso è semplice e il denaro il metro più sicuro per misurare la prossenica delle relazioni umane
 
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grazie, raga. spero vi diverta leggere i miei racconti quanto diverte me scriverli :)
 
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Questo racconto è frutto della mia fantasia. Eventuali riferimenti a persone esistenti e a situazioni reali è del tutto casuale


Bianco di merda
(appunti di viaggio n. 8)

Non so perché scelgo lei, è evidentemente la più sgradevole.
Ma anche l'unica finora che si è dichiarata disposta a seguirmi.
Duecento al giorno, ribadisce.
Ridacchio.
Non c'è niente come una sommessa risata per innervosire un interlocutore.
La ragazza alza il nasino e prende un'espressione altera.
Voi bianchi, abbaia in inglese, avete la testa piena di merda.
Non deve superare i venti. Scura come il carbone.
Non è il genere preferito dai camionisti che si fermano in questo posto.
È alta, ma troppo magra.
Sono loro che portano in giro per il paese idee nuove e malattie a trasmissione sessuale.
Quasi tutte le ragazze qui hanno grandi culi e tette enormi. E portano bikini del tutto insufficienti a contenere le loro grazie, anche quando escono per strada.
Merda, ribadisce sputando tutto il suo spregio sul pavimento di linoleum.
Quando sono passato di qui, trent'anni fa, c'era solo un mercato all'aperto.
A quei tempi era l'incrocio tra due importanti statali sudafricane, era naturale che la gente commerciasse. Adesso le strade sono tre.
Col tempo, hanno costruito questi edifici moderni. Un hotel, due sale scommesse. Un grande bordello. Il mercato lo fanno ancora, nella piazza dietro il piccolo centro commerciale.
Dove l'asfalto si confonde con il prato striminzito e il fango rosso di campi incolti .
Secondo il tipo che ho conosciuto prima, è il maggior centro di diffusione dell'HIV di tutta l'Africa australe.
Un etnografo francese, in zona per una ricerca. Che stava pure lui cercando una ragazza.
Abbiamo preso un caffè insieme alla sala scommesse, aspettando il calo dell'afflusso preserale del bordello.
Pare che ci lavorino ogni anno almeno duemila puttane, tutte controllate dalla mafia nigeriana, che ormai ha colonizzato tutto il Sudafrica.
Non si fermano solo camionisti. I neri della zona vengono a spendere in donne e puntate quel che guadagnano facendo i braccianti per le compagnie inglesi delle nuove aree di stoccaggio rifiuti. O gli operai nelle fabbriche di Bloemfontein e delle nuove aree industriali in Lesotho e Zululand.
Fanno centinaia di chilometri per venire a passare un pomeriggio a guardare il calcio europeo su un maxi schermo, tentare la fortuna in una sala giochi e scoparsi una puttana grassa in un cubicolo di tre per due.
È il progresso.
La ragazza non dice niente, segno che è un osso duro.
Non so perché scelgo lei, si vede lontano un chilometro che è un boiler di ghisa nera.
Si tiene su i capelli crespi con un grosso pettine.
Allora? Chiede, decidi. Non ho tempo per i tuoi giochini da mercante di tappeti.
Alzo le spalle e accenno a girare i tacchi.
Il suo cubicolo è un po' soffocante. C'è una piccola finestra, è vero, ma è chiusa. E il condizionatore è fastidioso almeno quanto la fragorosa musica africana che entra dal corridoio.
Centocinquanta, sibila nel suo inglese aleatorio, ultima offerta.
Scuoto la testa.
Figliola, obietto, centocinquanta è quanto guadagni in una settimana di lavoro, tolto il costo di questo posto e quel che devi dare al tuo pappone.
Intanto, inveisce in francese, “figliola” lo vai a dire a tua sorella. E poi, il pappone ce l'avrai tu.
Forse è vero. Forse è per questo che è disposta a seguirmi.
D'accordo, convengo, ma centocinquanta sono sempre troppi.
La ragazza alza il mento con espressione di diniego.
Ma sembra tentennare, forse è il momento di chiudere.
Cinquecento, propongo in francese, per cinque giorni. Mi sembra onesto. Tutte le spese a mio carico, duecento anticipati.
Lei considera la faccenda.
Ma cosa vuoi fare? Chiede innervosita, niente cose strane con me, ok? Voi bianchi siete tutti delle gran teste di cazzo. E tutto con il guanto, altrimenti non se ne parla neanche.
Guarda, sospiro, facciamo che a me interessa solo il tuo culo nero.
E con due copertoni, mi dico, si sa mai.
E solo il mio culo avrai, ringhia, bianco di merda.

Il fuoristrada che ho noleggiato l'altro giorno a Durban è vecchiotto ma abbastanza comodo.
Ha la guida a destra, che mi disorienta un po'. Ma vado piano.
Non so ancora dove dormiremo questa notte.
Stiamo viaggiando verso nord ormai da qualche ora.
La ragazza si è seduta a gambe incrociate sul sedile alla mia sinistra. E fuma ininterrottamente le Madison importate dallo Zimbabwe, che le ho comprato in uno schifoso autogrill sulla strada, dalle parti di Barberton.
Dove abbiamo mangiato qualcosa in piedi, bevendo una birra.
Siamo partiti tardi, è vero. Ma avevo passato la notte quasi in bianco. Agitato dai rimorsi e dall'inquietante presenza dell'urna nello zainetto.
Solo adesso che ero lì, mi stavo rendendo conto di tutta la tragedia che aveva causato quel viaggio.
Non che prima non lo sapessi.
È che le ragioni profonde spesso si lasciano raggiungere solo dopo un'adeguata sedimentazione.
Ero passato a prenderla solo alle dieci, in ritardo di almeno un paio d'ore rispetto all'appuntamento preso. E lei si era davvero innervosita.
Aveva già disfatto la piccola valigia che aveva preparato prima.
E mi aveva inondato di improperi, prima di rifarla e di seguirmi fino alla macchina.
Bianco testa di merda, mi diceva in continuazione. In francese e in inglese, alternativamente.
Poi, si era infilata un paio di occhiali neri, si era seduta comodamente sul sedile del trasportato e praticamente mi aveva ignorato.
'Fanculo, lo sapevo che era una stronza. Forse per questo l'avevo presa.
Jeans, maglietta e finte Nike. I folti capelli crespi raccolti dal solito pettine.
Masticava gomma e fumava, guardando annoiata il paesaggio.
Cambiando ogni tanto stazione della radio.
Meno male che il volume era abbastanza basso.
Vedi, dice a bassa voce mentre passiamo davanti a una zona commerciale di periferia, siete voi bianchi che ci avete portato questa merda. Prima che arrivaste voi, noi vivevamo felici.
Non ha tutti i torti, anche se non è vero che prima fossero felici. Erano diversamente consapevoli.
Le malattie, aggiunge, voi ci avete portato le malattie. E rubato tutte le ricchezze.
Annuisco, mentre sorpasso un carretto tirato a mano da due ragazzini.
Sorride loro di simpatia e li saluta.
Noi, prima di voi, ribadisce convinta, eravamo felici.
Almeno parla, mi dico accendendomi una sigaretta.

Il posto si chiama Nelspruit.
Quando ci siamo arrivati, poco fa, non era ancora abbastanza tardi per fermarci. Appena le quattro.
Ma mi ero ricordato di esserci stato trent'anni fa. E un conato di nostalgia mi aveva fatto fermare la macchina.
'Fanculo, non c'è nessuna fretta, mi ero detto.
Il dolore va covato gelosamente, come il piacere.
Per cui, avevo seguito le indicazioni per il fiume e mi ero fermato davanti all'hotel.
Un quattro stelle turistico, abbastanza decente.
Jit, così si fa chiamare la ragazza, mi ha seguito nella stanza. Abbiamo lasciato le nostre cose e siamo usciti. Il parco è a due passi.
Mi segue senza dire niente. Come a sottolineare che la sua sottomissione è pagata.
Camminiamo tra i sentieri segnati nella roccia. Il fiume si divide in innumerevoli cascatelle e alimenta caldaie ribollenti corrente. O piscine limpidissime.
Uno spettacolo straordinario.
Bianchi di merda, bestemmia ogni tanto in sordina, anche questo è colpa vostra.
Forse si riferisce al fatto che si paga per entrare.
Quando arriviamo al piccolo ponte sull'orrido, mi fermo a fumare, con un senso di oppressione al petto e un magone che non vuole scendere.
Ho ancora una foto di Elisa, poggiata alla spalletta, che sorride spavalda, i capelli arruffati dal vento.
Glie l'avevo scattata al tramonto. Poi ci eravamo scambiati di posto e mi aveva fotografato lei.
Ma la sua era venuta mossa.
Tutto ha un senso, forse. Ci sono disegni che non riusciamo a interpretare.
Il caso, alla fin fine, non esiste. È solo una regola che non conosciamo.
La ragazza guarda imbronciata la cascata e si gratta un fianco.
Mastica la sua solita gomma e continua a fumare.
Dopo ti inculo, le dico in francese.
Siamo qui per questo, osserva lei coerente, bianco di merda.

Non avrei per niente scelto male, mi dico, mentre si spoglia.
Se non fosse tanto stronza.
Perché nuda è piuttosto figa. Culo alto, gambe perfette.
Poco seno, è vero, ma non le sta male.
Niente giochetti, ribadisce stendendosi.
Mi infilo un copertone e salgo pure io sul letto.
Lei si mette a mission, ma io la spingo a girarsi su un fianco.
Ho detto che mi interessa solo il tuo culo nero, le ricordo.
Ok, fa lei sospirando esasperata, ma io pensavo che entravi per davanti.
Tira un po' su una gamba.
Questa volta si è raccolta i folti capelli crespi con un nastro viola.
La punto e provo a entrare.
L'unico bianco di merda con il cazzo grosso, si lamenta.
Mi scivola via e va in bagno.
La sento trafficare con il suo beauty.
Il condizionatore brontola al minimo. E io mi accarezzo l'erezione, aspettandola.
Quando ero giovane, trattavo i sentimenti con noncuranza.
Credevo di avere ancora tanto tempo per coltivarli.
Lo stesso con il sesso. Tutto veniva tremendamente facile.
La ragazza torna e si rimette a spondino.
Niente giochetti, latra, bianco di merda.
C'è qualcosa di ridicolo nella sua scontrosità.
La crema deve essere di qualità, perché entra abbastanza facilmente.
Bianco di merda, ripete come una litania, l'unico con il cazzo grosso che abbia mai conosciuto.
Glielo spingo tutto dentro, facendole inarcare la schiena.
Lei torce il collo per fissarmi con aria di sfida.
Come dire, mi paghi, ma mi fai schifo.
Sarà una cosa lunga, sorrido.
Bianco di merda, borbotta.
E si mette comoda, poggiando le tette al cuscino.

Ogni tanto si tocca il sedere con una piccola smorfia.
Al ristorante dell'hotel ci siamo praticamente solo noi.
Ci hanno servito la solita carne con le patate.
Odio questa cucina coloniale del cazzo. Ma quella africana che imita l'internazionale è anche peggio, secondo me.
Lei ha mangiato tutto senza apparente entusiasmo.
E adesso sta sbocconcellando la frutta che ci hanno portato in un grosso cesto.
Un'inutile abbondanza. Nessuno sarebbe in grado di mangiare sei banane, dodici manghi e venti arance.
Abbiamo sbafato in silenzio.
Ogni tanto lei sospira manifestando un'insopprimibile frustrazione.
Si annoia, ma che ci posso fare? La pago per stare con me. È il suo lavoro.
Prima non ho finito. Dopo quasi un'ora in culo, con lei che stringeva i denti incazzatissima, mi era sembrato giusto interrompere.
Non aveva detto niente. Si era fiondata in bagno borbottando invettive che non ho capito.
Stavamo facendo tardi per la cena.
Le avevo promesso sarcastico che avremmo ripreso prima di andare a dormire.
E lei aveva annuito meditando qualche vendetta.
Stronza.
È colpa vostra, dice poggiando il coltello sul piatto, questo lusso è inutile. Ricchezza ingiusta, abbondanza esibita. Voi bianchi di merda usate il vostro tempo per produrre cose di cui non avete bisogno. Perdete la vostra vita del cazzo in cose inutili.
È vero, ammetto.
E obbligate anche noi, aggiunge, a seguire lo stesso modello suicida. Prima che veniste voi, noi eravamo felici. Voi ci avete portato le malattie, i soldi, l'alcol e la droga. E ci avete rubato il tempo.
È un pensiero abbastanza originale. Ma non è così.
Ci avete fatti schiavi, annasa, bianchi di merda.
Non è vero, prima che arrivassimo noi, loro si facevano schiavi a vicenda.
Dopo ti inculo, le ricordo.
Tu mi paghi, alza le spalle, bianco di merda.

Ma sono troppo stanco.
Mi corico subito e lei mi segue sbadigliando, dopo essere andata in bagno.
Si toglie la striminzita canottiera che rappresenta il suo unico indumento e si stende di fianco, dalla sua parte. Il più lontano possibile.
Mi guarda seria, forse masticando qualche battuta offensiva.
Che cazzo porti in quello zainetto? Chiede, non lo molli mai.
La cosa, rispondo evasivo, che mi porta qui.
Alza il mento insoddisfatta.
Poi sbuffa, decidendo di non insistere.
'Fanculo, mormora, bianco di merda. Non mi interessano i tuoi misteri del cazzo.
Infatti, rispondo, non te li spiegherò.
Se vuoi infilare il tuo grosso cazzo bianco nel mio culo nero, dice girandosi dall'altra parte, fallo subito. Dopo vorrei dormire.
Facciamo domattina, decido.
Ok, fa lei con un prolungato sbadiglio.
Si stende meglio e spegne la lampada sul suo comodino.
E si addormenta immediatamente.
Nonostante la stanchezza, sento che non riuscirò a dormire.
Come la notte precedente, non appena provo a rilassarmi, il rammarico mi attanaglia le viscere.
Il 1985 era stato un anno di svolta. Quando ero venuto in Sudafrica, in agosto, ancora non lo sapevo.
Con Elisa non stavamo proprio insieme.
La mia noncuranza mi impediva di avere rapporti stabili, anche temporanei.
Ci vedevamo praticamente ogni giorno e dormivamo spesso insieme, ma nessuno dei due pensava che fossimo una coppia. Anche per lei, sembrava, c'era ancora tanto tempo per decidere.
Noi sappiamo interpretare solo le cose che già conosciamo.
E quel che sapevo allora era che c'era un futuro maledettamente interessante da esplorare. Fatto di ricerca intima e di esplorazione del mondo.
Con Elisa ci capivamo. Ci facevamo un sacco di canne e parlavamo di viaggi e di politica.
Leggevamo libri, andavamo al cinema, ci ubriacavamo e scopavamo nei posti più impensati.
Lei sapeva che avevo una storia con la Carla, una mia vecchia compagna di corso. E io ero del tutto disinteressato alle storie che forse aveva lei.
Eravamo abbastanza spregiudicati, credo, come tutti i giovani a quei tempi.
Anche lei aveva un contratto in dipartimento, lavorava con un prof di matematica applicata.
E poco alla volta l'avevo convinta a venire con me al centro studi del sindacato, per una ricerca sulle condizioni di salute dei lavoratori delle fonderie.
Anche se le cose di cui ci occupavamo erano maledettamente importanti, la vita non era per niente sul serio.

Oh, cazzo! Bestemmio stringendomi la gamba.
Il crampo al polpaccio è dolorosissimo.
Fa freddo. Durante la notte, la ragazza si è rannicchiata abbracciandosi le spalle e ha spinto il sedere contro il mio fianco, in cerca di un po' di calore.
Mi alzo e prendo una coperta dall'armadio.
Copro sommariamente la Jit e vado in bagno zoppicando.
Solo le due e mezza.
Fumo una paglia seduto sul cesso, alla luce bassa della lampada del lavandino.
Che cazzo fai? Chiede la ragazza entrando.
Le mostro l'evidenza della sigaretta che ho tra le dita.
Ne prende una dal pacchetto che avevo lasciato in bagno e se l'accende.
Poggia il sedere al lavandino e mi fissa con sguardo schifato.
La piccola piega tra le gambe è nera come il resto, ma le labbra le spuntano appena, leggermente rosate.
Sbadiglia e, dopo averlo tirato fuori dalla cabina della doccia, si siede più comodamente sullo sgabellino di plastica.
La sua patata, adesso, è completamente esposta.
Se ne accorge. E accavalla le gambe innervosita.
Tieni lontano il tuo enorme cazzo bianco dalla mia gatta, ordina severa.
Alzo le spalle.
Avevamo detto solo culo, confermo.
Lei annuisce austera.
Spegne la cicca sotto il getto del lavandino e si alza.
Dove cazzo stiamo andando? Chiede.
In un posto che si chiama 'Ngamo, spiego.
E a fare cosa? Insiste.
A divertirci, mento.
Bianco di merda, mi rimprovera uscendo, non riesci ad essere convincente neppure quando menti bene.
Allora, obietto, non chiedermi niente.

Fuori sta albeggiando.
Lei si è appena svegliata.
Io mi sono già infilato un preservativo, dopo aver constatato che il mio priapismo non è governabile.
Non dice niente e si mette a pecora.
A pecora uno non basta. Preme troppo sulle pareti interne e il rischio di rottura è concreto.
Mentre ne metto un altro, lei si unge con la sua crema del cazzo.
Ieri sera l'aveva lasciata sul comodino.
La faccio indietreggiare verso il bordo del letto e glielo infilo stando in piedi.
Ci sa fare, perché non apre troppo le gambe.
Entro fino alle palle.
Lei mugugna e poggia le tette sulle lenzuola.
Jit starebbe per? Le chiedo in francese.
Brigitte, spiega rauca, vengo dalla Costa D'Avorio. Conosci la Costa d'Avorio, bianco di merda?
Brava, mi complimento sarcastico, sì, conosco il tuo paese.
Vuoi sapere come sono diventata puttana? Chiede torcendo il collo per fissarmi sarcastica.
Spara, le rispondo accelerando la spinta.
Siete tutti uguali, sentenzia, bianchi o neri, siete tutti ammalati di curiosità.
Vero, confermo.
Quando avevo sedici anni, spiega con voce soffocata, i miei mi hanno mandata in città a lavorare. A Korhogo. Conosci Korhogo, bianco di merda?
La conosco. La Costa d'Avorio è un posto abbastanza dignitoso, ma il nord è più povero. Korhogo è ai confini con il Mali e il Burkina Faso e la città prospera abbastanza per i traffici. Ma nelle campagne intorno c'è ancora un bel po' di miseria e ho visitato villaggi spaventosi. Ci sono stato per lavoro, con la cooperazione, qualche anno fa.
No, mento.
Stavo da una zia di mia madre, continua, e ho trovato lavoro in una fabbrica di tessuti. Poi ho conosciuto uno. Diceva che voleva sposarmi e l'ho seguito ad Abidjan. È stato lui a mettermi in strada.
Che fine ha fatto? Chiedo con la voce arrochita dall'eccitazione.
È morto, sbuffa, negro figlio di puttana. Era sposato e non me l'aveva mai detto. Con tre figli, in Ghana. L'ha ucciso la polizia, una notte, mentre rubava del rame nel cantiere di una fabbrica tedesca.
Cazzo di cane, anche se sono eccitatissimo, sento che non riuscirò a venire.
Ok, ansimo.
Esco con un risucchio e lei si stende su un fianco con un sospiro di sollievo.
Bianco di merda, mormora, hai uno stracazzo di cazzo da negro. E non vieni mai. Sei normale?
No, scuoto la testa.
Così, cerca di spiegare, puoi scoparmi anche dopo.
Sorrido per tanta furbesca ingenuità.
Davvero, ciascuno capisce solo quel che sa.
Mi tolgo i due copertoni e li butto nel cestino.
È colpa vostra, commenta, se ci sono le puttane. Prima che arrivaste voi, noi eravamo felici e vivevamo nella natura.
Non è vero, ma non mi va di discutere.
Vado in bagno a farmi una doccia.

Così, in luglio venimmo in Sudafrica.
La RS38 è abbastanza ben asfaltata. Ma vado comunque piano.
La ragazza si è addormentata e ho spento l'autoradio.
Sono ormai quasi tre ore che guido e forse ci vorrebbe una pausa.
Elisa era stata mandata dal suo prof a Johannesburg per un convegno internazionale sull'analisi tensoriale. Una cosa cui lei era abbastanza appassionata e che mi lasciava piuttosto indifferente. A me piacevano il calcolo della probabilità e i teoremi deboli. Le relazioni tra matematica e filosofia, soprattutto quella orientale.
In ogni caso, era un'occasione imperdibile per farci un viaggio in Africa a basso costo.
C'era ancora l'apartheid e la cosa ci inquietava. Ma decidemmo di andare comunque.
Il paese era in grande fermento e ogni tanto incontravamo zone in cui era sconsigliato andare.
Ma eravamo giovani e curiosi,
Avevamo vagabondato per quasi un mese, in autobus e in treno, arrivando fino a Città del Capo.
E poi avevamo risalito la costa, fino a Durban, dove avevamo degli amici.
Ci eravamo fermati una settimana.
Lì mi ero accorto di qualcosa che non andava, con Elisa.
Era sempre stanca, mangiava pochissimo.
A dire il vero, succedeva ogni tanto anche quando stavamo a Bologna.
Ma non ci facevo caso. Pensavo dipendesse dai suoi cicli circadiani o dalle mestruazioni.
Quando le chiedevo cosa c'era, lei si schermiva, scherzando.
La ragazza si sveglia e si stiracchia.
Si toglie gli occhiali e mi guarda schifata.
Mi aspetto che borbotti la sua solita invettiva ingiuriosa nei miei confronti.
Ma biascica disorientata e si accende una sigaretta.
Adesso ci fermiamo a mangiare qualcosa, decido.
Lei annuisce e si rimette gli occhiali.
Dopo quel viaggio, successero molto cose importanti.
A settembre vinsi il concorso al Ministero.
A ottobre, Elisa mi fece conoscere Anna.
Mi disse che c'era una sua amica, più giovane, che mi sarebbe sicuramente piaciuta. Era bella e molto in gamba.
Nella nostra consuetudine disinvolta e noncurante delle convenzioni, non c'era niente di strano.
Solo dopo molti anni ho capito che Elisa cercava di darmi un'occasione. Si preoccupava per me.
In effetti, quando conobbi Anna, cambiò tutto.
Contro ogni attitudine e prassi ormai consolidata, ci innamorammo in modo esclusivo e assoluto.
Elisa mi rimase amica, ma si tirò subito da una parte.
Anna era assai gelosa e mi chiedeva ossessivamente di smettere di vederla.
Ma, anche se ormai lavoravo al Ministero, andavo quasi tutti i pomeriggi sul tardi a fare in salto in dipartimento, a concludere i progetti che avevo seguito negli anni precedenti.
Per cui, la incontravo immancabilmente.
Devo dire che questa inattesa esclusività non mi dispiaceva.
Elisa mi accarezzava quasi materna. E mi diceva che era davvero felice per me.
Qui, dice la ragazza indicando un fast food, mangiamo un hamburger.
Ok, sospiro, vada per le schifezze.

Vedi, dice azzannando il panino, questa è merda americana.
Anche se è una grandissima stronza, devo ammettere che mi diverte.
Che, aggiunge, è anche peggio delle merda francese che ci avete obbligato a subire prima. Il problema è che voi bianchi di merda sareste poveri se non ci aveste rubato tutte le ricchezze: il nostro oro, i nostri diamanti, il legno e tutto il resto.
Ha ragione, ma mi guardo bene dal rispondere.
E, sentenzia convinta, ci raccontate che lo fate per dovere, per civilizzarci.
Beve rumorosamente dal bicchierone di Pepsi.
Il mio panino è tanto cattivo che decido di lasciar perdere.
Vi siete presi l'oro, borbotta, e ci restituite questa merda. E dobbiamo pure pagarla.
Leggo il menù stampato sul tavolino.
Forse potrei prendere un'insalata.
Mangio un paio di patatine, quelle almeno sono commestibili.
Cosa c'è in questa insalata? Le chiedo indicandole la foto sul menù.
Si chiama Gwenge e non si capisce se ci sia lattuga o qualcuna delle loro orribili verdure.
Lei mi fissa incerta.
Non so, balbetta.
C'è scritto, insisto, solo che non so che roba è.
Lei guarda e morde il suo panino.
Non so, ribadisce.
Sento che è imbarazzata.
'Fanculo, interpreto il suo disagio, non sa leggere.
La Jit parla sorprendentemente bene, ma non vuol dire. Il francese orale è ricco di locuzioni elaborate e il vocabolario è vario.
So che sembra impossibile, ma lo so per esperienza diretta. Ci sono zone dell'Africa sub sahariana dove non esiste neppure un servizio di istruzione elementare.
Uno dei progetti cui ho partecipato in Mali era appunto costruire una scuola e un ambulatorio in un villaggio.
Il problema, credetemi, non è trovare i finanziamenti per farli costruire, quelli ci sono. La questione è che difficilmente si trovano maestre e infermiere disponibili a trasferirsi in posti tanto sperduti.
Per cui, si costruisce la scuola per formare le maestre e le infermiere del posto.
Che appena si sono formate, vanno in città a lavorare.
La miseria tira miseria.
Gwenge, cerco di toglierla dall'impiccio, è scritto qui.
Lei fa finta di capire e annuisce imbarazzata. Sa che l'ho tanata.
Non ti piacerebbe, sibila, è roba africana. Troppo buona per un bianco di merda come te.

Mangio i due Magnum guidando verso nord.
Chi l'avrebbe detto che nel frigo vicino alla cassa avessero gelati italiani? Il mondo è fatto per sorprenderci.
La strada costeggia, senza entrarci, il parco Kruger.
La Jit si è di nuovo addormentata.
Ma quando svolto sulla camionabile, verso est, si sveglia.
Vado pianissimo, il fondo è sconnesso e l'asfalto intermittente.
So che tra poco incontreremo il villaggio e, subito dopo, il lodge.
Ho chiamato la mattina, per prenotare una stanza.
Sono ormai quasi le sei. E un tramonto struggente arrossa il cielo dietro di noi.
Accendo i fari.

Posto di merda! Inveisce per l'ennesima volta.
Calma, la prego.
Si lamenta solo perché è stanca.
Il posto è carino e il boma in cui stiamo cenando, ancorché del tutto inutile, è suggestivo.
Ma la carne arrosto che ci servono non è di suo gradimento. Il kudu secondo lei sa di putrefazione
E il vino rosso fa schifo.
Fumiamo una sigaretta davanti al fuoco.
Prima di venire a mangiare, si è laccata tutte le unghie di un bianco giallastro. E si è truccata discretamente.
Un ragazzo australiano che fa la guida per il parco suona la chitarra.
Alcune turiste francesi lo ascoltano e ogni tanto parlano tra loro in modo sommesso.
C'è anche un gruppo di italiani. Due coppie, che stanno in un angolo e mangiano in silenzio.
Ci alziamo. E uno degli inservienti viene premuroso ad accompagnarci al nostro bungalow.
Ci hanno detto di non uscire la notte. Che, anche se raramente, passano animali pericolosi.
Iene, soprattutto, ma è capitato che qualche leone si spingesse ai limitari del lodge, attratto dall'odore della carne.
La stanza è grande e non fa tanto caldo.
Tutti gli arredi sono di legno scuro e di pietra nera. Anche in bagno.
È quasi lussuoso, senza essere troppo caro.
Ci spogliamo e ci corichiamo.
Lei si unge il sedere, senza dire niente.
Io mi infilo i soliti due preservativi.
Ho avuto la buona idea di portarmi dall'Italia due scatole grandi di comodi XL di marca.
La faccio mettere di fianco.
E la penetro cercando di fare piano.
Entra con un piccolo sforzo.
Ti piace il culo nero, mormora sarcastica, bianco di merda.
Non dico niente, tanto mi sta solo provocando.
Sei strano, insiste rabbiosa, l'unico bianco che conosco che si lascia smerdare da una puttana negra analfabeta, senza dire niente.
Non rispondo, ho solo voglia di entrare più profondamente nel suo posteriore.
Non per passione, per vizio.
Allora? Si inalbera, rispondi o no?
Quando dirai cose che meritano risposta, sentenzio, risponderò.
Lei si tira via con un piccolo scatto.
Si gira a guardarmi con aria sussiegosa.
Poi si alza.
Questa sera, mormora, non contarla, quando mi paghi.
Prende una coperta e va in bagno.
'Fanculo. Non volevo, mi è scappata.
Accendo una sigaretta, incerto sul che fare.
La seguo in bagno.
È tutto scuro e non mi va di accendere la luce.
Capisco confusamente che si è seduta sul water.
Solo un debolissimo alone chiaro arriva dalla stanza.
Al buio diffuso, si distinguono solo le unghie bianche e il bianco dei suoi occhi.
Le allungo la sigaretta e lei fa due tiri.
Poi me la restituisce.
Scusa, mormoro spegnendo la cicca sul pavimento.
Non dice niente.
Ma la tensione è palpabile.
Non scusarti, bisbiglia, il senso di colpa non è per voi bianchi di merda.
Mi siedo sul bidè e accendo altre due sigarette.
Gliene passo una. E lei aspira illuminando brevemente anche i suoi denti bianchissimi.
Perché andiamo in questo posto del cazzo? Chiede.
Non so cosa rispondere. Non mi va di parlarne.
Se non me lo dici, minaccia, ti mollo qui. Non mi va più di stare con te.
Ok, sospiro, ti do comunque i soldi.
Mi hai offesa, dice cocciuta.
Ti darò qualche soldo in più, mi arrendo.
Testa di cazzo di un bianco, si lamenta, vedete solo i soldi.
Torniamo a dormire, propongo, domani ne riparliamo.
Ne parliamo un cazzo, mormora.
Andiamo, la prego prendendola per una mano.
È la prima volta che la tocco. A parte quando la inculo.
Lei si tira via scocciata e si alza.
Va bene, accetta. Ma i soldi di questa sera non me li dai.

La religione, sbuffa, ecco cosa ci avete dato veramente, bianchi di merda!
Sorrido divertito.
Non mi vede, perché anche questa volta si è messa a pecora.
Sono quasi le sette, tra poco ci daranno la colazione.
Per cui, accelero un po'.
Cazzo, fa lei, ma non vieni mai?
No, confermo.
Ma non ti viene mal di testa? Obietta torcendo il collo per guardarmi.
Un'alba rosa inonda la finestra che dà sulla savana.
Terribile, ammetto.
La giro e la faccio mettere a rana.
Senza farla uscire.
Certo che ci sa fare abbastanza.
La sua patata è nera fuori e rossa dentro.
Non l'avevo ancora vista bene. Da dietro è meno evidente.
Bianco di merda, inveisce stringendo i denti.
Ok, sospiro, andiamo a fare colazione.
Esco e vado a togliermi il condom velato di crema e di merda.
La mattina, se prima non vai in bagno, succede.
Merda, che schifo! Borbotta seguendomi.
Si siede sul bidé e si sgura in mezzo alle gambe con il bagno schiuma del dosatore.
Che cazzo ci andiamo a fare in 'sto posto di merda? Insiste.
Un funerale, sospiro.

Ma nell'agosto dell'85 ancora non sapevamo come sarebbero andate le cose.
Non potevamo immaginare che lei sarebbe rimasta a lavorare all'università e io, invece, avrei fatto una fulminante e inopinata carriera nella Pubblica Amministrazione. Sempre nell'ambito della ricerca, certo, ma con compiti di organizzazione e pianificazione.
Proprio io, che avevo sempre sostenuto di voler rimanere libero da ogni catena.
Il figliol prodigo anarchico del dipartimento. Quello che, secondo il mio prof, prima o poi avrebbe preso il suo posto. Quando avessi messo la testa a posto.
L'aveva preso Elisa. Senza alcun rimpianto da parte mia. E senza alcun piacere da parte sua.
Anche se non le era stato diagnosticato definitivamente, sapeva di essere affetta da un tumore all'apparato digerente.
Allora non c'erano cure, se non la resezione dell'intestino.

La religione, sbuffa, ecco cosa ci avete dato, in cambio delle nostre ricchezze. Religione e malattie. Bianchi di merda.
La strada secondaria che abbiamo preso è quasi impraticabile. Ma è quella giusta, c'era un cartello all'incrocio a confermare la mia scelta.
Si tiene alla maniglia e irrigidisce le gambe per evitare di sbattere.
Se ricordo bene, ci vorranno almeno due ore di sobbalzi per arrivarci.
Anche trent'anni prima avevamo noleggiato una Jeep, assieme a dei ragazzi austriaci che avevamo conosciuto a Phalaborwa.
Un posto interessante, da cui avevamo fatto qualche escursione nel Kruger.
E dove avevamo preso un aperitivo sul fiume, guardando simpatici ippopotami esibizionisti.
Avevamo fatto due chiacchiere con questi ceffi e loro ci dissero che a 'Ngamo c'era un posto molto selvaggio, che meritava una visita.
Lo avevano letto nella loro guida.
Avevamo ancora un po' di soldi. E dividendo in quattro ce la potevamo fare.
Posto maledetto! Urla la Jit, ma dove cazzo stiamo andando? Bianco di merda, scommetto che sei un terrorista, dentro quel tuo merdoso zainetto c'è sicuramente una bomba. E vuoi ucciderci tutti!
Ha ragione, meglio rallentare e fermarci un attimo.
Scendo e mi accendo una sigaretta.
Il sole picchia forte, ma non fa caldo.
La boscaglia è abbastanza vicina, bisogna stare attenti.
La ragazza rimane in macchina, imbronciata e nervosa.
Ma dopo un po' scende a sgranchirsi le gambe.
Oggi indossa clamorosi bermuda arancio e una maglietta semaforica rossa.
Scarpe verdi, ovviamente, con calzettoni dello stesso colore.
Mi fa incazzare da morire, ma devo ammettere che è simpatica.
Beve quel che resta della sua lattina di Pepsi. E la butta tra la sterpaglia gialla ai lati della strada.
Stronza! La rimprovero tra i denti.
Lei alza le spalle.
Siete voi che ci avete fatti schiavi, bianco di merda, inveisce.
Oh, basta! Mi innervosisco, basta dire stronzate. Sono stati i nordafricani i primi a commerciare con gli schiavi, su. E le tribù occidentali, fin dall'ottavo secolo, hanno razziato le popolazioni a est, per imprigionarle e venderle agli arabi. Falla finita!
Che cazzo ne sai? Urla esasperata, tu non sai niente della storia dell'Africa.
Ho studiato, mormoro, la storia della tua cazzo di Africa.
Hai ragione, fa lei melliflua, bianco di merda. Tu sei intelligente e hai studiato.
Alzo le spalle.
Ma non sai un cazzo! Bercia indicandomi con un dito, la storia da noi ce la raccontano i nonni. E ai nostri nonni gliel'hanno raccontata i loro nonni. E quel che dicono è che prima che arrivaste voi, noi vivevamo nella natura. Noi eravamo felici. Noi siamo sinceri, non come voi, noi non mentiamo.
Cerco di non cedere al senso del ridicolo.
Ai tempi di tua bisnonna, spiego, solo una persona su 20 arrivava a 50 anni. La causa principale di morte per i maschi erano inutili battaglie tribali, per le donne la gravidanza. La seconda, per entrambi, erano le infezioni per ferite, hai presente circoncisione e infibulazione? Senza contare che molti morivano per il morso di serpenti o mangiati da grossi animali. In media, si viveva 29 anni.
Ma vissuti bene, obietta, in natura. Questo dovresti saperlo, bianco di merda.
Ai tempi di tua nonna, riprendo, tu avresti già almeno 3 figli, dimostreresti 40 anni e ti mancherebbero quasi tutti i denti. Avresti malattie incurabili alla pelle e pruriti insopportabili.
È la natura, ribadisce.
Ok, metto le mani avanti, non voglio convincerti.
Tu credi che questo sia meglio? Chiede indicandosi, credi che mi piaccia fare la puttana? Credi che mi interessi davvero truccarmi e mangiare schifezze e ascoltare la musica? Il calcio, i vestiti, che cazzo!
Non credo, annuisco.
Allora, fa lei calmandosi, lascia perdere le lezioni. Io so quel che dico.
Ok, sorrido, in fondo non stiamo dicendo cose tanto diverse.
Non capisce bene questa affermazione, ma deve interpretarla come una dichiarazione di non belligeranza.
Per cui sputa la gomma e si accende una sigaretta.
Si tira su la zazzera crespa e ci infila il grosso pettine di plastica per trattenerla.
Andiamo in questo cazzo di posto, propone calma, che altrimenti facciamo notte. Così, puoi far scoppiare la tua bomba chimica, piena di veleni e malattie, che ucciderà tutti gli animali e tutto il popolo di questa regione.
Ridacchio sempre più divertito.
Sai, dico accattivante, che non lo farei mai.
Bianco di merda, borbotta lei salendo sulla fuori strada, non mi fido manco per un cazzo.

Cazzo! Mormoro travolto dalla nostalgia.
Dopo una curva, la strada sale su una bassa collina, costeggiando lo stagno.
Alcuni bufali e due zebre si stanno abbeverando.
Dopo una centinaio di metri tra gli sterpi secchi della savana, la strada gira ancora nel cortile della casa.
Parcheggiamo e scendiamo.
Non c'è nessuno. Forse sono in giro per il safari fotografico del tramonto.
Ho prenotato via internet, la settimana scorsa, dopo il funerale.
Hanno solo tre stanze. Per cui, ci sono al massimo altri quattro ospiti.
Se non hanno cambiato le loro abitudini, fanno diversi giri con la Jeep scoperta. Di notte, all'alba e al tramonto. Oltre a una passeggiata a piedi, in boscaglia, nel primo pomeriggio con la guida più esperta. E armata.
La casa non è niente di speciale, ma è comoda e ben pensata. Dalla veranda si domina lo stagno e la savana.
La foresta incombe più a nord.
L'aria è torbida. Forse per il fumo di un incendio.
E il sole sta scendendo a ovest, colorando di rosso tutto quanto.
La ragazza si siede su una panca e poggia le tette al parapetto di legno, catturata dallo spettacolo.
Ci eravamo rimasti tre notti.
Non avevo mai visto Elisa tanto felice.
Praticamente non aveva dormito. La notte aspettava che ci chiamassero per l'escursione stando alla finestra a guardare gli animali che venivano ad abbeverarsi. E il pomeriggio camminava intorno alla casa, fino alle barriere di paglia, scrutando la boscaglia in cerca di qualche mistero.
Non mangiava quasi niente. E aveva uno sguardo febbrile e famelico.
Fece milioni di foto. Vedemmo i ghepardi, un leopardo, decine di leoni. I meravigliosi elefanti.
Le iene, gli sciacalli, gli avvoltoi, le antilopi. Tutto quello che sembrava riservato ai documentari che mandavano in televisione.
Solo che, eravamo lì. Era davanti a noi.
Lo spettacolo crudele della vita e della morte. Il ciclo ineluttabile e inarrestabile dell'esistenza.
Cazzo, mormora la Jit, adesso ho capito. Bianco di merda, sei venuto qui per rovinare anche questo.

Ok, dice il tipo biondo, ci alziamo all'una e stiamo in giro almeno due ore.
Annuisco.
I gestori sono cambiati. Ma lo stile è rimasto lo stesso.
Tutto molto spartano, ma efficiente.
Si mangia sotto la veranda.
Un nero con una fionda tiene lontane le scimmie e altri animali molesti.
Sono stanchissimo. Pervaso da una spossatezza che riguarda i sentimenti più dei muscoli.
La peggiore cosa che possa capitare.
C'è solo un'altra coppia. Due ragazzi spagnoli, che non nascondono la loro gaiezza.
Sono andati a coricarsi poco fa. Gente cordiale e simpatica.
La Jit scucchiaia senza troppo entusiasmo una minestra di carne e riso.
Ok, ripete il biondo in inglese, adesso forse è meglio se andiamo a dormire.
Va bene, acconsento, ma magari rimango ancora un po' qui, se non è un problema.
Attento ai ragni e ai serpenti, ridacchia, il resto è abbastanza grosso per essere cacciato.
La Jit, sentendo nominare ragni e serpenti, drizza le orecchie e mette le mani avanti.
Segue il biondo in casa.
Così rimango da solo, a parte il tipo nero che gira intorno con la fionda.
E una ragazza africana, che viene a sparecchiare.
Mi siedo davanti alla balaustra, con lo zainetto in grembo.
Dopo, era stato tutto molto veloce, almeno per me.
Sempre in giro, tra Roma e Bruxelles. E per il resto del mondo.
Con Anna avevamo messo su casa, a Bologna.
Anche lei stava facendo una moderata carriera.
Mia moglie aveva ambizioni più grandi delle mie. E meno fortuna.
Per la prima volta in vita mia, fui fedele.
Non solo alla mia compagna. Fui fedele ad un'idea.
Ogni tanto passavo in dipartimento. Elisa era sempre più smunta.
Sembrava invecchiare più velocemente di me.
Fu una sera, mentre uscivamo dalla facoltà, che mi disse di essere malata.
Io non volevo crederci.
Vivrò a lungo, sorrideva con un'improbabile fiducia, è un tumore di quelli stronzi da matti. E soffrirò tantissimo.
Aveva ragione. Negli anni successivi subì diverse operazioni. Ma teneva duro.
Era diventata ordinario, ma pochi contavano su di lei per il futuro del dipartimento.
Il suo aspetto fragile le impediva di imporsi, nonostante tutti le riconoscessero una superiorità intellettuale e culturale innegabile.
Solo nel 2000 provarono una nuova cura. E sembrava un po' migliorata.
Ci vedevamo pochissimo. Anche Anna, che era a Bologna più spesso, la incontrava raramente.
Erano state molto amiche, ma io le avevo divise.
Dopo di me, per quel che ne so, Elisa visse da sola.
E, credo, mai felice come in quei tre giorni che passammo insieme a 'Ngamo.
Basta tristezze, mi dico, ho diversi doveri da compiere.

Tieni lontano il tuo cazzo bianco dalla mia gatta, ordina secca.
Mentre cercavo di penetrarla dietro, le era scivolato contro la patata.
Rilassati e fammi entrare, la prego gentilmente, così non rischio di romperti anche per davanti.
Avevamo detto niente gatta, ribadisce girandosi a fissarmi seria.
E solo culo faremo, annuisco.
Profittando della sua distrazione, entro con tutta la cappella.
L'unico bianco di merda con il cazzo grosso, si lamenta sbuffando, tutte a me capitano.
Spingo ancora. E lei tende le spalle per lo sforzo di prendermi fino in fondo.
Non si è lubrificata bene, è particolarmente stretta.
Obbedendo all'istinto, allungo una mano a stringerle un seno.
Ma lei si gira di nuovo e mi fulmina con un'occhiata eloquente.
Pardon, ridacchio ritraendo la mano.

Prima, quando ci eravamo coricati, aveva detto che non voleva venire.
E per me andava anche bene.
Ma adesso che si è svegliata, si alza sbadigliando e si veste.
Non è attrezzata per uscire di notte in boscaglia.
Vorrebbe mettersi gli assurdi pantaloncini che portava prima.
Fa freddo, mormoro, vestiti pesante.
Di coprente ha solo i jeans e un giubbino di cotone leggero.
Per cui, le presto uno dei miei maglioncini di lana.
Lei lo indossa poco convinta. È almeno tre taglie più grande.
E la mia berretta di panno.
Sei uno schianto, la prendo in giro.
Maledetto bianco di merda, borbotta offesa, credi di essere bello tu?
Sentiamo che accendono la Jeep, per cui prendo lo zainetto e scendiamo.
Per fortuna che hanno delle coperte.
Ci mettiamo dietro. Siamo un po' allo scoperto, ma vediamo meglio.
E lo strapuntino che ci tiriamo fino al mento è caldo.
Speriamo che ci portino alla radura della torre di osservazione.
Era lì che Elisa me lo aveva detto. Allora non l'avevo presa neppure sul serio.
La macchina scende per una strada laterale e si immerge nella boscaglia.
Il nero di prima invece della fionda adesso imbraccia un fucile.
Siede su un seggiolino da una parte. E comanda un faro, con cui esplora le tenebre della foresta.
Mentre i due spagnoli sono armati di fotocamere con lunghi teleobiettivi, noi non abbiamo niente.
A parte il mio zainetto.
Non ci mettiamo molto a trovare i leoni.
Sono una ventina, quasi tutte femmine.
Ci fermiamo a osservarli per quasi un'ora.
È bellissimo. Loro sembrano ignari, o incuranti, della nostra presenza.
Le femmine giocano con i cuccioli e i maschi gironzolano con aria sussiegosa.
Una perfetta scena famigliare.
Il tipo biondo, che guida la Jeep, dice che non possiamo stare ancora, che finiremmo per disturbarli.
Girando verso ovest, vediamo qualche iena e un facocero solitario.
Secondo il biondo, dovrebbe esserci un leopardo, lì intorno.
Percorriamo la strada sterrata senza vedere niente.
Accidenti, mormoro quando sbuchiamo nella radura.
La torre di osservazione c'è ancora. Di legno, alta, un po' sbilenca.
Il biondo ferma la Jeep vicino alla pozza e ci invita a scendere.
Esattamente come trent'anni prima, ci allunga una borraccia sorridendo.
È piena di gin, ovviamente, ed è il rito propiziatorio di ogni safari fotografico.
Si dice che dopo, anche se non si vuole, si vede di tutto.
E più si beve, più si vede.
Allora ne approfittai. Adesso faccio solo un sorso.
Il biondo si raccomanda di non allontanarci.
È difficile che qualche animale ci assalga, soprattutto con tutte le luci della Jeep accese e il rumore sommesso del motore. Ma siamo comunque nella giungla, di notte.
Mi avvicino alla pozza, prendo l'urna dallo zainetto.
E faccio quello per cui sono venuto fin qui.
Litigando con mia moglie ai limiti del divorzio, spendendo una cifra irragionevole.
E con una stretta al cuore che forse non passerà mai.

Ho fatto tanto in fretta che credo nessuno se ne sia accorto.
E siamo risaliti praticamente subito sulla macchina.
Secondo la leggenda, adesso vedremo cose mirabolanti.
Ma per ora, percorriamo invano una pista quasi invisibile, cercando il fantomatico leopardo.
Che cazzo era quella roba? Mi chiede la Jit.
Ma mi sento meglio, quasi sollevato.
È come se almeno questo dovere compiuto restituisca un senso a questo viaggio assurdo.
Le promesse non sono quasi mai difficili da mantenere. Sono le idee che hanno bisogno di continue conferme.
Non credendo in dio, ripongo la mia speranza nell'etica e nella ricerca della giustizia. Nella spiritualità atea del corpo e della azioni. Che significa prima di tutto consapevolezza dei propri limiti e onestà nel tentare di superarli. Dialettica e comprensione, se possibile.
Cenere, rispondo alla ragazza.
Era veleno, biascica, bianco di merda. Sei venuto qui per rovinare anche questo.
La Jeep si inerpica su un basso argine. E costeggia un piccolo stagno.
Vediamo qualche animale tra gli alberi bassi.
Timide antilopi.
Poi due giraffe, che strappano foglie di acacia, disturbate dal faro abbagliante.
Cenere di cosa? Chiede sommessa la Jit.
La fisso nel buio parziale della notte.
Adesso che mi sono liberato, posso anche dirglielo.
Anzi, ho un bisogno infinito di dirlo.
Le ceneri di una donna che ho molto amato, mormoro.
La ragazza mi fissa sorpresa.
Venimmo qui trent'anni fa, continuo, e lei mi disse che quando sarebbe morta le sarebbe piaciuto che le sue ceneri fossero sparse in quella radura.
La Jit tace, con una smorfia incerta.
È morta dieci giorni fa, sospiro.
Il biondo deve essersi stancato. Sono quasi due ore che giriamo.
E forse, per il suo standard abbiamo visto abbastanza.
Svoltiamo di nuovo a nord, nella savana, tornando nella zona dei leoni.
Allora, mormora la ragazza, non sei la persona cattiva che credevo.
Alzo le spalle.
Non so, mormoro, forse sono davvero la persona cattiva che credevi.
Lei annasa e si accende l'ennesima sigaretta, anche se si erano raccomandati di non fumare, che ci vuole niente a causare un incendio, con tutta quella sterpaglia secca.

Abbiamo solo un paio d'ore per riposare. Prima dell'alba torniamo ad alzarci, per un altro giro.
Di solito, è il più interessante.
I due spagnoli sono rimasti nella veranda a bere caffè e parlare con il biondo.
Noi siamo saliti in stanza.
Sono stanchissimo, ma mi sento sempre più sollevato.
Anna si è molto alterata, quando ha saputo della mia intenzione di venire qui a spargere le ceneri di Elisa.
Mi aveva fatto scene di gelosia terribili.
Ma alla fine si era arresa. Aveva capito che non c'entrava l'amore passato. Era un dovere.
Una promessa che non comprometteva affatto il nostro rapporto.
Anzi, a ben pensarci, ne rafforzava la cifra più profonda.
Io l'avrei sempre amata.
È vero.
Anche se la tradisco con Paola, la mia amante, e pago innumerevoli donne, io amo lei.
Compiere questo dovere rafforza questa convinzione.
Come ogni volta che esco dal culo di una puttana e mi faccio segare fino a venire.
L'amore è elettivo.
Il resto è vizio. Bisogna ricordarlo spesso, altrimenti si dimentica.
La Jit sbadiglia e si sveste.
Questa negra è un missile intercontinentale, ma devo ammettere che mi eccita.
Solo a vederla spogliarsi, mi viene duro.
Per cui, mi infilo un copertone e salgo sul letto, dove si è stesa su un fianco.
Domani torneremo. Guiderò per un giorno intero fino al posto assurdo dove vive e lavora.
E ci saluteremo. Lei mi dirà che sono un bianco di merda e io la pagherò.
Le appoggio il cazzo gonfio sullo sfintere, da dietro e lei si gira a guardarmi.
Tornerò a Durban, mi dico, riconsegnerò la macchina e prenderò un aereo. Poi un altro e poi un altro ancora.
La Jit ha un'espressione seria e compunta, che ancora non avevo visto.
No, dice scuotendo la testa crespa, non sei la persona cattiva che credevo.
Spingo appena la mia cappella nel suo culo nero, in attesa che si allarghi un po'.
Forse, ripeto, sono davvero la persona cattiva che credi.
Alza le spalle incurante.
Noi siamo gente sincera, mormora, e io non mi sbaglio.
Mi prende l'affare con due dita e, senza dire altro, se lo infila nel rosso della patata.
 
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veneto
Se le raccogli in un libro, queste storielle, dal titolo tipo, “Storie di ordinaria punteria” oppure “cronache dalla spirale del Buco del Cult”, potrebbe diventare una pietra miliare della letteratura punteristica contemporanea.
Second me
ciao
 
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ohi, grazie!
ma mi sembra di ricordare che nell'informativa che abbiamo sottoscritto per l'iscrizione a punterforum sia scritto esplicitamente che i contenuti pubblicati sono di proprietà del sito, l'autore può solo rivendicarne la paternità.
quando si scrive qui, credo, si regala alla comunità il proprio pensiero.
e il proprio stile.
nel mio caso, fuori da ogni immodestia, davvero poca cosa.
in ogni caso, io lo faccio con questo spirito. non potrei mai scrivere pubblicamente queste cose.
per cui, provo a condividerle con chi credo possa capirle.
ma ho letto racconti bellissimi in questa sezione. e ci sono alcune rece che sono dei capolavori letterari.
non so. forse si potrebbe proporre al nostro capo di pubblicare un'antologia. credo che questa sarebbe la cosa giusta.
forse in passato fu fatto qualcosa del genere.
non so, magari ne riparleremo.
intanto, vado con il prossimo
:yess:
 
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Se le raccogli in un libro, queste storielle, dal titolo tipo, “Storie di ordinaria punteria” oppure “cronache dalla spirale del Buco del Cult”, potrebbe diventare una pietra miliare della letteratura punteristica contemporanea.
Second me
ciao

l'antologia di sperm river :lol:
 
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