La prima sera di un punter ( ... la linea di confine)

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diciamo, per praticità, che "questa" vita la vivo
Ho avuto modo più volte di confidare che alcuni dei miei scritti sono semplicemente stralci del mio diario di puttaniere.

Cosa strana. Un diario, alla mia età .... e su quale argomento, poi !

Ma tant'è ... due anni fa (domani per l'esattezza fanno due anni ..) la mia vita ha preso una svolta repentina e fin dal primo momento ho sentito il desiderio irrefrenabile di scrivere di quello che mi capitava.
Nessun altro motivo che poter ripercorrere a mente lucida ogni mia sensazione, di poter rivivere ogni emozione, di potermi perdere nelle sfumature, nei dettagli delle mie piccole, personali avventure.
Nessuna altra molla se non la passione per la scrittura, che è uno dei miei meravigliosi bisogni, una cosa che mi provoca piacere quasi quanto quel piacere di cui così spesso va a indagare i sottili e complicati meccanismi.
Non avrei mai creduto che un giorno avrei potuto condividere queste righe con qualcuno.
Non ha molta importanza quanti mi leggeranno. Se anche fosse uno solo sono sicuro che mi capirebbe e si ritroverebbe probabilmente in quello che legge.
Perchè siamo punter. Siamo fatti della stessa pasta. Abbiamo le stesse voglie e gli stessi desideri. Viviamo le stesse ore e negli stessi luoghi ....
Così, la mia prima sera da punter potrebbe essere quella di molti di voi ...


La linea di confine (parte 1)
E’ una serata fredda. Più di quanto ti potresti aspettare ai primi di ottobre. Ma il brivido che ogni tanto mi attraversa, che mi costringe a un leggero tremito, continuo e spiacevole, non è dovuto solo al gelo.

Scatta il verde al semaforo e io guido con attenzione. Sono strade non mie, quelle di questa città, di questo quartiere e la mia abituale prudenza risulta in questo momento lievemente amplificata. Del resto sono in questo posto solo da poche ore e mi sento come un corpuscolo estraneo, pronto a essere rigettato da un momento all’altro. Ogni città ha le sue regole più o meno palesi, i suoi meccanismi spesso nascosti e io, di solito, ho bisogno di tempo per sentirmi ragionevolmente sicuro e a mio agio. Non ci vorrà molto, lo so. Appena il tempo di imparare le prime, essenziali pagine di quel manuale di sopravvivenza che sembra essere l’indispensabile complemento di ogni grande centro urbano, di quel libretto di istruzioni che mi permetterà di muovermi ed agire qui, sfruttando le migliori opportunità, dribblando le situazioni spiacevoli, limitando gli imprevisti e gli eventuali danni.

Per ora mi accontenterei solo di capire quali sono le posizioni degli autovelox e dove siano piazzate le telecamere. Una multa, stasera, è l’ultima cosa di cui ho bisogno.

Freno. I semafori sono temporizzati in maniera diversa da quella a cui sono abituato e il giallo è un lampo veloce e indisponente tra gli altri due colori.
L’attesa mi da il tempo di ripensare alle ore già passate di questa prima giornata, a quello che sono venuto a fare qui, alle uniche cose a cui in realtà dovrei dedicare il mio tempo, la mia energia e la mia attenzione. Un occasione di lavoro che mi ha portato a centinaia di chilometri da casa e che mi costringerà, occhio e croce per un anno, a fare su e giù almeno una volta alla settimana e a trascorrere qui, in futuro, molti giorni.

E molte notti.

I miei occhi si muovono inquieti e controllano attentamente la linea della strada, senza trascurare ogni tanto una rapida puntata allo specchietto retrovisore, dove incontrano una striscia del mio viso, teso, stanco, ma straordinariamente vigile e attento. Lo sguardo però non si ferma solo sulle logiche traiettorie della guida, ma corre spesso ai margini della carreggiata, ai marciapiedi larghi e puliti, ai giardinetti , alle aree di parcheggio.

Forse mi sono sbagliato e questa non è la zona giusta. Sono le undici di sera, ma a parte il traffico silenzioso e agonizzante di un quartiere periferico, qualche raro passante, qualche furgone che vende panini, niente ancora che mi possa interessare, niente di quello che cerco.

Molte rotonde - questa zona ne è piena - mi consentono agevolmente di cambiare direzione mentre prendo confidenza con il mio nuovo territorio. Si delinea in breve un ideale perimetro, nel quale comincio a muovermi con maggiore disinvoltura, iniziando una specie di giro continuo, quasi un carosello ossessivo.

Fa decisamente freddo e la serata ha i colori lividi di un autunno incipiente in uno dei tanti quartieri anonimi e decentrati di una città italiana. Un quartiere né bello né brutto, direi recente, a guardare i palazzoni in cemento, con strade molto ampie e grandi spazi, persino con quel tanto di verde che qualche coscienzioso architetto ha correttamente dislocato, nel rispetto degli indici urbanistici, delle proporzioni, tra il grigiore dei palazzi, in un forzoso tentativo di restituire all’uomo un po’ di natura rubata. Ma sia nell’intenzione che lo ha generato che nel modo in cui viene mantenuto è un verde senza cuore, solo politicamente corretto .Tiro corto e mentalmente emetto la sentenza : un quartiere dove si può vivere. Organizzato, razionale, pulito, ma che non può certo contribuire a donare a chi lo abita la piccola quotidiana, impalpabile gioia che scaturisce dalla bellezza.

E’ lì. Non mi sbaglio, ne ho vista una. La prima, dopo una ventina di minuti.

Allora le informazioni erano giuste, il posto è questo.

Mi avvicino e ho conferma di quello che speravo. Avrà tra i venti e i venticinque anni. Mora, con i capelli lisci e lunghi, un giubbino di pelle scura, una gonna cortissima, le gambe velate da calze scure. I lineamenti del volto, da qualche decina di metri, li intuisco appena, ma sembrano nell’insieme gradevoli. Ferma al lato di un cartellone per affissioni muove appena qualche passo, un po’ malferma sugli altissimi tacchi. Direi che non ci sono dubbi.

E’ la selvaggina che cercavo.

Le passo vicino rallentando per guardarla meglio. Lei mi rivolge uno sguardo un po’ annoiato. Proseguo e dopo un paio di centinaia di metri, sul lato opposto al mio senso di marcia, ne vedo un’altra, laddove, sono sicuro, qualche minuto prima non c’era nessuno. Allora riprendo il mio giro continuo, dando tempo alla zona di animarsi. Nel giro di una mezzoretta ci saranno almeno una ventina di loro, disseminate con una certa uniformità, nell’area che ormai ho perfettamente delineato.

Alcune sono sui marciapiedi dei viali secondari, quelli che corrono paralleli alla strada principale e che sono destinati al parcheggio delle auto. Stanno davanti a negozi chiusi o in prossimità di qualche albergo, cercando evidentemente di non avvicinarsi troppo ai portoni degli stabili. Altre scelgono le rotonde, in piena luce, altre ancora preferiscono la penombra dei due grandi distributori di carburante nella zona di raccordo con le autostrade. Molte di loro stanno da sole, a qualche decina di metri l’una dall’altra, altre fanno piccoli gruppi a due, o a tre.

L’eccitazione comincia a salire, perché ora è il momento della scelta.

Non è facile. Sono tante e non immaginavo così carine. Giovani – ad alcune sarebbe meglio chiedere la carta d’identità - e tutte molto provocanti. Non credevo che ai patemi di questa serata si sarebbe aggiunto anche quello della scelta. Come per tutti gli acquisti il mio pragmatismo da inguaribile rompicoglioni invoca un indagine che mi dia sicurezza di ottenere, con i miei soldi, il miglior prodotto e i migliori risultati.

Per un attimo penso alle mie escursioni notturne da ragazzo, alle goliardiche spedizioni per vederle da vicino, stipati in una cinquecento, quattro o cinque ragazzotti brufolosi, con gli ormoni impazziti, a vociare, a dare fondo al repertorio di turpiloquio, a tentare improbabili contrattazioni, sempre senza alcun esito concreto. La zona era quella industriale della mia città. Una periferia molto più brutta, sporca, cattiva, di questa. E le donne erano poche e, a ripensarci oggi, talmente sfatte e grottesche da sembrare felliniane. Quasi sempre molto abbondanti, con i corpi offesi dagli anni e dalla vita. Volgari nell’abbigliamento e nei modi. Battone, bagasce, nel senso più crudo e sporco dei termini.

Si chiedeva “Bella … quanto prendi?” e quella ti rispondeva “col guanto o senza guanto?” dicendoti la cifra, sempre troppo alta per le tasche di un ragazzo e per quanto in cambio veniva offerto. Così la cinquecento sgommava, lasciando l’eco delle risate sguaiate e sul marciapiede, vicino a un copertone che bruciava con il suo fumo nero e maleodorante, rimaneva a vomitare insulti la misera, patetica venditrice di sé stessa, con il rossetto troppo acceso e gli occhi talmente bistrattati da sembrare una maschera. Era quanto di più vicino al peccato, in quegli anni, potessimo avere. Quello e qualche rivista pornografica. Il nostro modo di prendere contatto con il fantastico e misterioso mondo del sesso, perlomeno di quello senza l’ingombrante fardello dell’amore.

Quindi oggi è così … come è cambiato tutto. Come è tutto, all’apparenza, più facile e, verosimilmente, più appagante.
Queste ragazze sono tutte belle, giovani, provocanti.
Rispondono perfettamente ai canoni dettati dal nostro immaginario di maschi. Filiformi e sinuose, con gambe senza un filo di grasso e curve disposte dove uno se le aspetta. Ognuna di loro risponde più o meno a un tipo e a un modello. Chi più vistosa, chi più discreta, chi ad esaltare un particolare fisico, chi a puntare sul modo di muoversi. Tutte, indistintamente, a trasmettere un messaggio chiaro. Per chi ha soldi, non mancherà certo il modo di divertirsi.

Così, come un predatore che dall’alto fa cerchi sempre più stretti in prossimità delle sue possibili prede, comincio a valutare mentalmente i miei obiettivi. O meglio, procedo ad una spietata selezione, in un più semplice gioco di esclusione che mi porterà sicuramente alla scelta più giusta, per questa mia nuova iniziazione.....
 
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