L'ultimo bacio, fiction erotica

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Non può essere una recensione, non è importante di chi si parli, ma volevo raccontarlo a qualcuno.
Il mio ultimo incontro (almeno con Lei), il mio ultimo bacio.

Fuori da un portone in una via del centro della mia città. Senza alibi. Ci sono tre gradi fuori.
Ogni minuto è interminabile ed ansioso. Lei fa sempre così.
Le prime volte richiamavo, rispondeva la telefonista, “sono qui, perché non apri?” “ah, non ha ancora aperto? Adesso apre..”.
Adesso fa tutta da sola, questa volta quando ho chiamato mi ha apostrofato "Ciao, amore", la furba.
Adesso mi impara la lingua. Dopo due anni, a un giorno dalla partenza.
Finalmente il click del portone, salgo di sopra, la porta si spalanca, lei mi guarda mentre entro e passo direttamente alla camera da letto. Vestaglia nera e ciabatte, capelli raccolti, una qualsiasi casalinga che ha aperto la porta per caso. Un sorriso che non è per uno sconosciuto la tradisce, gli occhi blu grigio color del Baltico che mi seguono.
“Shower?” “Sì, mi dò una sciacquata”, finisco di svestirmi e vado in bagno, lei mi porge l’asciugamano e scompare.
Quando ritorno, il telefono diffonde una musica strumentale – un lunghissimo brano, nel titolo compare la parola erotic e qualcos’altro, a me sembra quasi triste, forse è perché è l’ultima volta.
Lei ritorna, o meglio arriva, calata nella parte: tacchi rossi d’ordinanza, vestaglia corta che nasconde a fatica la lingerie, i capelli sciolti sulle spalle.
Mi alzo per darle un bacio, ma è breve, mi indica il centro del letto, e dice di girarmi: oggi cominciamo col massaggio?
Il massaggio è poco terapeutico, ma la mia malattia non è fisica. Si concentra con piacere sui glutei, poi la schiena, poi una pausa e il suono magnifico e magnetico del reggiseno che si slaccia. Liberate dagli orpelli, le sento strusciare addosso, curve sulle mie curve, poi l’intero corpo. Sento il suo respiro vicino al mio, la lingua nell’orecchio, le labbra sul collo, un fantastico tormento.
La musica ha cambiato ritmo, tutto diventa più chiaro, radioso e incredibilmente sfuocato allo stesso tempo.
Lei cambia direzione, perpendicolare al mio corpo, sulla schiena sento il suo seno, i miei occhi si concentrano sul culo ventiseienne che vorrei mordere, presto.
Adesso le sue mani percorrono il mio sedere, poi scendono a cercare il mio membro. Alzo un po’ il bacino, facilito la presa di quello che ormai è un birillo di marmo, lei lo prende, lo struscia, alzo la schiena, il massaggio è finito.
Entrambi in ginocchio, la mia bocca cerca la sua, le lingue si intrecciano, si staccano, si ritrovano, come quelle di due quindicenni. Finalmente posso stringere quei seni di quarta misura, poi la mia mano trova la figa, bagnata, bagnatissima, fradicia.
Lei si mette carponi e comincia un pompino, la mano che regge ma null’altro, le labbra che salgono e scendono e girano intorno.
Le mutandine sono in un angolo del letto, ma indossa ancora una specie di collare, di choker dicono gli anglo, di strozzatore, e questo mi da un’idea. Le prendo la testa con una mano, il collo con l’altra, una presa ferma ma non violenta, lei non è per nulla sorpresa, continua con gusto.
Potremmo finire così, ma non oggi, non adesso. Mollo la presa, le accarezzo le spalle per farla salire, lei allunga la mano verso il comodino per il preservativo – ma la fermo e le sussurro all’orecchio nella lingua del bardo “I want to lick your pussy”, voglio leccarti la figa.
Lei stende al centro del letto, ma dopo un paio di leccate, si sistema con la testa in cima al cuscino, le mani che spingono sul muro, apre maggiormente le gambe, estremamente rilassata e perfettamente tesa allo stesso tempo. Introduco un dito, poi due, mentre continuo a leccare e stimolare il clitoride, l’altra mano a stringere una tetta, il suo respiro si fa affannoso, eccitato. Una gamba si sposta, il piede cerca il mio membro, lo accarezza, lo massaggia, il suo orgasmo è vicino, arriva con un grido strozzato, soppresso, o forse faccio fatica a sentirlo io, immerso nei suoi umori.
Mi stacco, sorrido, lei prende l’obbligatorio condom e me lo mette, poi mi guarda furbetta e interrogativa: io mi stendo di lato e le dico che oggi la voglio sopra.
Lei mi monta e si abbassa per baciarmi, per sentire i suoi stessi umori, tiene un ritmo lento ma inesorabile. Ma lì dentro, umido anzi moist nella lingua del bardo, e insacchettato, non c’è fretta di terminare. Vorrei avere due bocche, tre mani, venti occhi per godere di tutto quel corpo.
È il momento di cambiare, mi muovo abbastanza per segnalare un cambio, lei si sposta ma non si alza, mi mostra quelle chiappe sode e tonde e alla mia misura, e passiamo alla posizione dei primati. Ma non mi basta, le stringo i seni, lei inarca la schiena, la sorreggo e raggiungo di nuovo le sue labbra con le mie, il membro scivola fuori. Riprendo la posizione e la mira e adesso devo, voglio concludere. Adesso è mio il respiro affannoso, nell’abitudine dei postriboli di altri continenti continuo a rivolgermi a lei e al mondo in inglese, yes, sì, sto venendo e lo faccio. Ci sono tre gradi fuori, e dentro sudiamo.
Avrei cento domande adesso, ma lei non fa social, come diciamo tra noi uomini di mondo. Mi lascia andare in doccia da solo, dove tolgo lozione, umori, profumi, ma non il ricordo.
Torno in camera, la musica non c’è più, lei è andata in bagno, ma riemergerà presto.
Mi vesto, lascio i soldi sulla scrivania, non me li ha mai chiesti, con professionismo o nonchalance non li guarda neppure.
Ho cento domande che non avranno risposta, solo un sorriso e un ultimo bacio.
Domani parte, forse per sempre.
“È proprio un addio questa volta?” “Forse ci vedremo ancora, un giorno”, forse.
Lei mi apre la porta.
Addio.
 
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Non può essere una recensione, non è importante di chi si parli, ma volevo raccontarlo a qualcuno.
Il mio ultimo incontro (almeno con Lei), il mio ultimo bacio.

Fuori da un portone in una via del centro della mia città. Senza alibi. Ci sono tre gradi fuori.
Ogni minuto è interminabile ed ansioso. Lei fa sempre così.
Le prime volte richiamavo, rispondeva la telefonista, “sono qui, perché non apri?” “ah, non ha ancora aperto? Adesso apre..”.
Adesso fa tutta da sola, questa volta quando ho chiamato mi ha apostrofato "Ciao, amore", la furba.
Adesso mi impara la lingua. Dopo due anni, a un giorno dalla partenza.
Finalmente il click del portone, salgo di sopra, la porta si spalanca, lei mi guarda mentre entro e passo direttamente alla camera da letto. Vestaglia nera e ciabatte, capelli raccolti, una qualsiasi casalinga che ha aperto la porta per caso. Un sorriso che non è per uno sconosciuto la tradisce, gli occhi blu grigio color del Baltico che mi seguono.
“Shower?” “Sì, mi dò una sciacquata”, finisco di svestirmi e vado in bagno, lei mi porge l’asciugamano e scompare.
Quando ritorno, il telefono diffonde una musica strumentale – un lunghissimo brano, nel titolo compare la parola erotic e qualcos’altro, a me sembra quasi triste, forse è perché è l’ultima volta.
Lei ritorna, o meglio arriva, calata nella parte: tacchi rossi d’ordinanza, vestaglia corta che nasconde a fatica la lingerie, i capelli sciolti sulle spalle.
Mi alzo per darle un bacio, ma è breve, mi indica il centro del letto, e dice di girarmi: oggi cominciamo col massaggio?
Il massaggio è poco terapeutico, ma la mia malattia non è fisica. Si concentra con piacere sui glutei, poi la schiena, poi una pausa e il suono magnifico e magnetico del reggiseno che si slaccia. Liberate dagli orpelli, le sento strusciare addosso, curve sulle mie curve, poi l’intero corpo. Sento il suo respiro vicino al mio, la lingua nell’orecchio, le labbra sul collo, un fantastico tormento.
La musica ha cambiato ritmo, tutto diventa più chiaro, radioso e incredibilmente sfuocato allo stesso tempo.
Lei cambia direzione, perpendicolare al mio corpo, sulla schiena sento il suo seno, i miei occhi si concentrano sul culo ventiseienne che vorrei mordere, presto.
Adesso le sue mani percorrono il mio sedere, poi scendono a cercare il mio membro. Alzo un po’ il bacino, facilito la presa di quello che ormai è un birillo di marmo, lei lo prende, lo struscia, alzo la schiena, il massaggio è finito.
Entrambi in ginocchio, la mia bocca cerca la sua, le lingue si intrecciano, si staccano, si ritrovano, come quelle di due quindicenni. Finalmente posso stringere quei seni di quarta misura, poi la mia mano trova la figa, bagnata, bagnatissima, fradicia.
Lei si mette carponi e comincia un pompino, la mano che regge ma null’altro, le labbra che salgono e scendono e girano intorno.
Le mutandine sono in un angolo del letto, ma indossa ancora una specie di collare, di choker dicono gli anglo, di strozzatore, e questo mi da un’idea. Le prendo la testa con una mano, il collo con l’altra, una presa ferma ma non violenta, lei non è per nulla sorpresa, continua con gusto.
Potremmo finire così, ma non oggi, non adesso. Mollo la presa, le accarezzo le spalle per farla salire, lei allunga la mano verso il comodino per il preservativo – ma la fermo e le sussurro all’orecchio nella lingua del bardo “I want to lick your pussy”, voglio leccarti la figa.
Lei stende al centro del letto, ma dopo un paio di leccate, si sistema con la testa in cima al cuscino, le mani che spingono sul muro, apre maggiormente le gambe, estremamente rilassata e perfettamente tesa allo stesso tempo. Introduco un dito, poi due, mentre continuo a leccare e stimolare il clitoride, l’altra mano a stringere una tetta, il suo respiro si fa affannoso, eccitato. Una gamba si sposta, il piede cerca il mio membro, lo accarezza, lo massaggia, il suo orgasmo è vicino, arriva con un grido strozzato, soppresso, o forse faccio fatica a sentirlo io, immerso nei suoi umori.
Mi stacco, sorrido, lei prende l’obbligatorio condom e me lo mette, poi mi guarda furbetta e interrogativa: io mi stendo di lato e le dico che oggi la voglio sopra.
Lei mi monta e si abbassa per baciarmi, per sentire i suoi stessi umori, tiene un ritmo lento ma inesorabile. Ma lì dentro, umido anzi moist nella lingua del bardo, e insacchettato, non c’è fretta di terminare. Vorrei avere due bocche, tre mani, venti occhi per godere di tutto quel corpo.
È il momento di cambiare, mi muovo abbastanza per segnalare un cambio, lei si sposta ma non si alza, mi mostra quelle chiappe sode e tonde e alla mia misura, e passiamo alla posizione dei primati. Ma non mi basta, le stringo i seni, lei inarca la schiena, la sorreggo e raggiungo di nuovo le sue labbra con le mie, il membro scivola fuori. Riprendo la posizione e la mira e adesso devo, voglio concludere. Adesso è mio il respiro affannoso, nell’abitudine dei postriboli di altri continenti continuo a rivolgermi a lei e al mondo in inglese, yes, sì, sto venendo e lo faccio. Ci sono tre gradi fuori, e dentro sudiamo.
Avrei cento domande adesso, ma lei non fa social, come diciamo tra noi uomini di mondo. Mi lascia andare in doccia da solo, dove tolgo lozione, umori, profumi, ma non il ricordo.
Torno in camera, la musica non c’è più, lei è andata in bagno, ma riemergerà presto.
Mi vesto, lascio i soldi sulla scrivania, non me li ha mai chiesti, con professionismo o nonchalance non li guarda neppure.
Ho cento domande che non avranno risposta, solo un sorriso e un ultimo bacio.
Domani parte, forse per sempre.
“È proprio un addio questa volta?” “Forse ci vedremo ancora, un giorno”, forse.
Lei mi apre la porta.
Addio.
Wow... Che coinvolgimento.... Complimenti..... Magari fosse sempre così....
 
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Derek Zoolander

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Bello. Mi era sfuggito questo racconto.
Se non è totalmente di fantasia, spero tu l'abbia incontrata di nuovo.
 
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fabxpiace

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Mi alzo per darle un bacio, ma è breve, mi indica il centro del letto, e dice di girarmi: oggi cominciamo col massaggio?
Il massaggio è poco terapeutico, ma la mia malattia non è fisica. Si concentra con piacere sui glutei, poi la schiena, poi una pausa e il suono magnifico e magnetico del reggiseno che si slaccia. Liberate dagli orpelli, le sento strusciare addosso, curve sulle mie curve, poi l’intero corpo. Sento il suo respiro vicino al mio, la lingua nell’orecchio, le labbra sul collo, un fantastico tormento.
La musica ha cambiato ritmo, tutto diventa più chiaro, radioso e incredibilmente sfuocato allo stesso tempo.
Lei cambia direzione, perpendicolare al mio corpo, sulla schiena sento il suo seno, i miei occhi si concentrano sul culo ventiseienne che vorrei mordere, presto.
Adesso le sue mani percorrono il mio sedere, poi scendono a cercare il mio membro. Alzo un po’ il bacino, facilito la presa di quello che ormai è un birillo di marmo, lei lo prende, lo struscia, alzo la schiena, il massaggio è finito.
Entrambi in ginocchio, la mia bocca cerca la sua, le lingue si intrecciano, si staccano, si ritrovano, come quelle di due quindicenni. Finalmente posso stringere quei seni di quarta misura, poi la mia mano trova la figa, bagnata, bagnatissima, fradicia.
Ammazza che culo, a pay, senza averla prima slinguazzata ben bene tra le labbrone non mi è mai capitato.
Te, una limonata e sgorga il laghetto.
Vabbuò, sarà io che son sfigato a pagamento...
 
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  • #5
L'ho rivista proprio l'altro giorno.
Adesso torna in Italia ogni 2 mesi o giù di lì, purtroppo non sempre tempi e luoghi combaciano, non viene più nella mia città.

E nel tempo ho imparato che non vale la pena vederla di sera, solo di giorno: dopo è troppo stanca e mentalmente distaccata.

Però è letteralmente una su cento.
Delle altre 99 e passa che ho provato ne salvo 3-4.

Per questo ora il mio target sono le sugar babes, ci sono soddisfazioni maggiori ma bisogna investire molto più tempo e si scopa molto di meno.
 
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Non può essere una recensione, non è importante di chi si parli, ma volevo raccontarlo a qualcuno.
Il mio ultimo incontro (almeno con Lei), il mio ultimo bacio.

Fuori da un portone in una via del centro della mia città. Senza alibi. Ci sono tre gradi fuori.
Ogni minuto è interminabile ed ansioso. Lei fa sempre così.
Le prime volte richiamavo, rispondeva la telefonista, “sono qui, perché non apri?” “ah, non ha ancora aperto? Adesso apre..”.
Adesso fa tutta da sola, questa volta quando ho chiamato mi ha apostrofato "Ciao, amore", la furba.
Adesso mi impara la lingua. Dopo due anni, a un giorno dalla partenza.
Finalmente il click del portone, salgo di sopra, la porta si spalanca, lei mi guarda mentre entro e passo direttamente alla camera da letto. Vestaglia nera e ciabatte, capelli raccolti, una qualsiasi casalinga che ha aperto la porta per caso. Un sorriso che non è per uno sconosciuto la tradisce, gli occhi blu grigio color del Baltico che mi seguono.
“Shower?” “Sì, mi dò una sciacquata”, finisco di svestirmi e vado in bagno, lei mi porge l’asciugamano e scompare.
Quando ritorno, il telefono diffonde una musica strumentale – un lunghissimo brano, nel titolo compare la parola erotic e qualcos’altro, a me sembra quasi triste, forse è perché è l’ultima volta.
Lei ritorna, o meglio arriva, calata nella parte: tacchi rossi d’ordinanza, vestaglia corta che nasconde a fatica la lingerie, i capelli sciolti sulle spalle.
Mi alzo per darle un bacio, ma è breve, mi indica il centro del letto, e dice di girarmi: oggi cominciamo col massaggio?
Il massaggio è poco terapeutico, ma la mia malattia non è fisica. Si concentra con piacere sui glutei, poi la schiena, poi una pausa e il suono magnifico e magnetico del reggiseno che si slaccia. Liberate dagli orpelli, le sento strusciare addosso, curve sulle mie curve, poi l’intero corpo. Sento il suo respiro vicino al mio, la lingua nell’orecchio, le labbra sul collo, un fantastico tormento.
La musica ha cambiato ritmo, tutto diventa più chiaro, radioso e incredibilmente sfuocato allo stesso tempo.
Lei cambia direzione, perpendicolare al mio corpo, sulla schiena sento il suo seno, i miei occhi si concentrano sul culo ventiseienne che vorrei mordere, presto.
Adesso le sue mani percorrono il mio sedere, poi scendono a cercare il mio membro. Alzo un po’ il bacino, facilito la presa di quello che ormai è un birillo di marmo, lei lo prende, lo struscia, alzo la schiena, il massaggio è finito.
Entrambi in ginocchio, la mia bocca cerca la sua, le lingue si intrecciano, si staccano, si ritrovano, come quelle di due quindicenni. Finalmente posso stringere quei seni di quarta misura, poi la mia mano trova la figa, bagnata, bagnatissima, fradicia.
Lei si mette carponi e comincia un pompino, la mano che regge ma null’altro, le labbra che salgono e scendono e girano intorno.
Le mutandine sono in un angolo del letto, ma indossa ancora una specie di collare, di choker dicono gli anglo, di strozzatore, e questo mi da un’idea. Le prendo la testa con una mano, il collo con l’altra, una presa ferma ma non violenta, lei non è per nulla sorpresa, continua con gusto.
Potremmo finire così, ma non oggi, non adesso. Mollo la presa, le accarezzo le spalle per farla salire, lei allunga la mano verso il comodino per il preservativo – ma la fermo e le sussurro all’orecchio nella lingua del bardo “I want to lick your pussy”, voglio leccarti la figa.
Lei stende al centro del letto, ma dopo un paio di leccate, si sistema con la testa in cima al cuscino, le mani che spingono sul muro, apre maggiormente le gambe, estremamente rilassata e perfettamente tesa allo stesso tempo. Introduco un dito, poi due, mentre continuo a leccare e stimolare il clitoride, l’altra mano a stringere una tetta, il suo respiro si fa affannoso, eccitato. Una gamba si sposta, il piede cerca il mio membro, lo accarezza, lo massaggia, il suo orgasmo è vicino, arriva con un grido strozzato, soppresso, o forse faccio fatica a sentirlo io, immerso nei suoi umori.
Mi stacco, sorrido, lei prende l’obbligatorio condom e me lo mette, poi mi guarda furbetta e interrogativa: io mi stendo di lato e le dico che oggi la voglio sopra.
Lei mi monta e si abbassa per baciarmi, per sentire i suoi stessi umori, tiene un ritmo lento ma inesorabile. Ma lì dentro, umido anzi moist nella lingua del bardo, e insacchettato, non c’è fretta di terminare. Vorrei avere due bocche, tre mani, venti occhi per godere di tutto quel corpo.
È il momento di cambiare, mi muovo abbastanza per segnalare un cambio, lei si sposta ma non si alza, mi mostra quelle chiappe sode e tonde e alla mia misura, e passiamo alla posizione dei primati. Ma non mi basta, le stringo i seni, lei inarca la schiena, la sorreggo e raggiungo di nuovo le sue labbra con le mie, il membro scivola fuori. Riprendo la posizione e la mira e adesso devo, voglio concludere. Adesso è mio il respiro affannoso, nell’abitudine dei postriboli di altri continenti continuo a rivolgermi a lei e al mondo in inglese, yes, sì, sto venendo e lo faccio. Ci sono tre gradi fuori, e dentro sudiamo.
Avrei cento domande adesso, ma lei non fa social, come diciamo tra noi uomini di mondo. Mi lascia andare in doccia da solo, dove tolgo lozione, umori, profumi, ma non il ricordo.
Torno in camera, la musica non c’è più, lei è andata in bagno, ma riemergerà presto.
Mi vesto, lascio i soldi sulla scrivania, non me li ha mai chiesti, con professionismo o nonchalance non li guarda neppure.
Ho cento domande che non avranno risposta, solo un sorriso e un ultimo bacio.
Domani parte, forse per sempre.
“È proprio un addio questa volta?” “Forse ci vedremo ancora, un giorno”, forse.
Lei mi apre la porta.
Addio.
Bello.
proprio un bel racconto,
Non è una recensione, è una di quelle esperienze che non puoi non raccontare.
Devi scrivere per metabolizzarne l'essenza.
Tanto di cappello.
Napo
 
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