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Sono stato bambino e ragazzo in un piccolo posto di campagna. Un posto dove le sere d'estate si stava fuori a sentire gli anziani raccontare della millenaria civiltà rurale, piuttosto che del ritorno a piedi dalla campagna di Russia. Dove è stato ancora possibile (appena in tempo, prima che irrimediabilmente fosse per sempre tardi) imparare le donne calpestando l'erba tenera, o fare l'amore in mezzo al bosco in un giorno di neve.
Intendo dire che per mia buona sorte, ho avuto modo di crescere lontano dalle strisce interminabili d'asfalto di cui a perdita d'occhio non vedi la fine, lontano dalle periferie cittadine nelle quali la terra ed il verde sono stati mangiati dai cubi di cemento. Per questo mantengo dentro una specie di sacralità della vita, e non sopporterò mai il disastro che ha rovinato per l'eterno le nostre città, che erano belle come noi, la nostra immagine, la nostra storia, la memoria.
Nei cubi ci ho vissuto; ci ho lavorato; ci sono andato a donne, e continuo ad andarci. Ma non chiedetemi di voler bene ai cubi.
Ci succedono tante cose, dentro e fuori dai cubi. A volerle raccontare, ne uscirebbe una collana di romanzi. A volte, mosso dalla mia insopprimibile curiosità di conoscenza della vita umana, mi sono messo davanti a qualcuno di questi, a distanza adeguata perché tutta l'immensa facciata mi entrasse nello sguardo, ed allo stesso tempo tale da farmi mantenere il giusto distacco. Guardando lungamente tutte le finestre, tutti i minuscoli appartamenti, le loro luci accese, le storie che si sviluppavano dentro.
Le famiglie litigiose. Le donne amorose. Le cenette sul terrazzino. I panni stesi in faccia all'inquilino di sotto, e relative imprecazioni a salire al piano sopra. I piccioni sulle ringhiere. La luce blu del televisore. La luce spenta per risparmiare. Gli stranieri dell'est. Gli stranieri del sud. Gli stranieri italiani. Le grida in tutte le lingue, e spesso non in una delle nostre. Il falso ed il similvero delle nostre splendide non-vite moderne.
Ci succedono tante cose, dentro e fuori dai cubi. Che nemmeno mi stupisco più, eppure dovrei gridare forte il mio senso di straniamento in mezzo a tutto questo.
Ma chissà se la voce mi esce. Da sotto la lingua muta.
Sere fa, in un tardo pomeriggio di un piovoso gennaio, in un raro momento di pace da un lavoro sempre più insensatamente massacrante, in un raro giorno in cui ce l’ho fatta ad uscirne almeno alle sette di sera, preso da improvvisa euforia, telefono ad una delle mie fedeli intrattenitrici, amiche ormai, più che fogli da timbrare, e chiedo ed ottengo un appuntamento.
Salgo così a Perugia zona Bellocchio, lato Camera del Lavoro. Cubi su cubi. Rovine su rovine.
In quei palazzi, particolarmente in quei portoni, sarò entrato perlomeno cinquanta volte. Il senso di squallore di fronte alla scalinata culminante nella larga porta a vetri sporchi non mi ha mai abbandonato negli anni. Mi mette freddo anche d'agosto. Luoghi senz'anima né nome, e infatti anonimi sono i proprietari degli appartamenti, anonimi gli inquilini, anonimi i visitatori.
Ecco, egoisticamente il punto di vantaggio è l'anonimato del visitatore.
Anzi... era.
Parcheggio davanti alla scalinata, a muso rivolto al palazzo. A quell'ora, le strisce blu non si pagano più. Spengo i fari con la sinistra, prendo il telefono con la destra e faccio per avvisare dell'arrivo. A questo punto noto la figura.
Una specie di militare, massiccio e a gambe divaricate, piantato a braccia conserte, nel buio che c'è, proprio davanti la porta a vetri sporchi.
Attendo un minuto. Magari è solo uno che ha portato il cane a spasso. Ma resta fermo come una guardia.
Non ci ho mai visto nessuno, così sistemato. Non mi va di salire passandogli a lato, e dunque faccio il numero e telefono all'amica.
Mi dice di spostare la macchina nel parcheggio sotterraneo, che intanto lei scende per aprirmi dall'interno la porta dell'interrato.
Così faccio. Allora scendo sotto, chiudo la portiera e mi avvio al punto stabilito.
Quando sono a sei metri, dall'angolo il tizio sbuca, sempre massiccio ed a braccia conserte. Largo come Hulk, vestito con un double-face impermeabile, calzoni della tuta e scarponi anfibi di un tipo che nessuno indossa più.
Nonchalante arrivo alla porta dell'interrato. Faccio per aprirla, ma è chiusa. L'amica tarda a scendere. Non l'ho ancora guardato in faccia. Ma lui ha il tempo di apostrofarmi.
"Che fa lei qui?".
Accento, manco a dirlo, esteuropeo-rumeno.
"Perchè lo chiede?"
Devo sembrare imperturbabile. E recitare mi riesce abbastanza bene, in tutte le vite che vivo. In realtà, la sagoma e i modi mi fanno paura. E' un estraneo. Uno straniero. Uno che non si conosce, e che non sta a casa sua, quindi non c'ha nulla da perdere. Quel che aveva da perdere è rimasto in Romania.
"Sono io che faccio domande a lei. Che fa lei qui, ho detto?"
A 'sto punto, l'ho da guarda'. Non avrei voluto dargli il vantaggio.
Non ha cucite o stampate addosso etichette di qualche società di vigilanza, né ovviamente può essere uno sbirro.
"Sto salendo. Mi pare che sia chiaro."
"Lei non abita qua. Non può salire".
In quel momento sento arrivare colei che attendo. E dunque rapidamente riesco a dire "Passo a prendere una persona"
"Che persona? Qui non ci sono persone".
Sarebbe da manicomio. Ma la ragazza apre la porta, finalmente, e faccio per allargare il braccio destro ad abbracciarla nel gesto di un affettuoso e convincente saluto.
Sfortunatamente, 'sta cretina è scesa in ciabatte e perizoma, come se il parcheggio avesse la vasca idromassaggio in mezzo.
Il tipo comincia a fumare dagli orecchi. "NON SI SALE QUA!!!"
Guardo lei, cercando di mantenere lo sguardo dell'abbraccio mancato, e dico "Ciao, piccolina, perché non sei ancora pronta? ma non hai freddo così?" E mi sfilo il giaccone passandoglielo sulle spalle. "Dai, andiamo su, che ti finisci di preparare per la cena".
Col cazzo che quello molla. "NON SI SALE QUA!!".
"Posso sapere intanto con chi ho il piacere (...) di parlare?" E intanto guardo lei... che almeno intervenga dalla mia parte.
"Io mi chiamo M... Sono il portiere. Non ti ho mai visto qua. Quindi non puoi salire".
E' passato al tu, e questo è imperdonabile. Ma anche segnale di pericolo. Devo giocare, allora.
"Se è per questo 'n t'ho mai visto neanch'io. E sono qua molto spesso".
"No, io lavoro qua e non ti ho mai visto. Quella porta tu non la sali".
"Perché, sennò chiami la polizia?"
Gioco e rischio. R., l'amica, decide di intervenire tra i brividi. Dice che sono un suo amico e la sono venuto a trovare. Quell'altro insiste di non conoscermi. R. alzicchia la voce e dice che a casa sua fa entrare chi le pare, o è lui che paga l'affitto?, e Hulk ripete che non è con lei che ce l'ha, e le domande le fa lui e le risposte le devo dare io da me.
Per fortuna non sta passando nessuno, ma la commedia va avanti da troppo e senza via di fuga. Faccio a lei, risolutivo : " In tanto tempo che vengo qua, io lui mai visto. Ma alla fine, tu almeno lo conosci?".
Brillantemente, invece di rispondere a domanda, attacca a strillargli in rumeno. Capisco poche cose, anche della risposte di Hulk, ma grossomodo lei gli dice di farsi gli affari suoi, con altri termini, e lui le consiglia di non darla via agli italiani, con altri termini.
La storia trascende. Perchè il buttafuori è razzista al contrario, probabilmente prende soldi da qualche pappone concorrenziale, è gasato sopra soglia e mi è arrivato a tre centimetri, con fare ormai minaccioso. Ma davanti a uno straniero che alza la voce nei miei posti, non indietreggio.
Prendo R. e la sospingo all'interno, cercando di richiudere velocemente la porta, che lui da fuori non potrebbe riaprire. Per un nulla fallisco, ha messo in mezzo la punta di un anfibio. Apre quasi a svellerla, la porta, e mi afferra il bavero.
La scena, a fotografarla, sarebbe anche comica. Lei mezza nuda che batte i denti e si attacca a me, a cui si è attaccato Hulk per la collottola e che ha l'altra mano a contrappeso sulla maniglia. Una specie di tiro alla fune senza fune.
E mo'... la saprò recitare ancora?
"Mi lasci, per favore?". Tengo la mano libera a posto, per evitarmi guai.
"Guai a te se ti ripresenti", mi urla lasciando la presa e avvicinando la mano a pugno a filo del mio naso.
Mi sposto con lei verso l'interno. Entriamo verso l'ascensore. Lui guarda. Ha raggiunto lo scopo. Quello di imporre il comando identitario di un pezzo di territorio.
"Da quanto succede? Da quanto per salire quassù ti fanno le analisi? Me lo spieghi, per dio? Che cazzo vuole 'sta gente? Il pizzo?"
"Stai calmo. Ho freddo. Riscaldami."
"Voleva impaurirmi. Perché? Perché non vuole italiani qua?
“Ho freddo. Stringimi”.
Mi dovrei rispondere da solo. <Italiani qua> non ne vivono più. Il palazzo e i suoi otto piani e cinquanta appartamenti ospitano rumeni, albanesi, bulgari, moldavi, africani neri, maghrebini. Quasi tutti border line. Quasi tutti avventurieri.
Conquistati dagli invasori. Conquistati nei cubi di cemento. E sotto il nostro naso, senza che ci volessimo accorgere.
Inutile dire che, una volta sbollita la prima schiuma di rabbia, ho salutato R., dicendole che sarebbe stato per un'altra volta... (ma forse mai più, anche con dispiacere).
Per la cronaca, Hulk sotto non c'era più, e nemmeno il mio specchietto sinistro era al suo posto.
[Parentesi che non c'entra niente : la ragazza del bosco innevato è già una foto su una lapide. Il destino l'ha rubata presto, e VERAMENTE resta non più del ricordo di un odore di carne sudata in un giorno di gennaio che avevamo per gioco fatto diventare estate. Venti e più anni fa.
Addio C. Nei miei ricordi non potrai morire mai, se non con me.]
Intendo dire che per mia buona sorte, ho avuto modo di crescere lontano dalle strisce interminabili d'asfalto di cui a perdita d'occhio non vedi la fine, lontano dalle periferie cittadine nelle quali la terra ed il verde sono stati mangiati dai cubi di cemento. Per questo mantengo dentro una specie di sacralità della vita, e non sopporterò mai il disastro che ha rovinato per l'eterno le nostre città, che erano belle come noi, la nostra immagine, la nostra storia, la memoria.
Nei cubi ci ho vissuto; ci ho lavorato; ci sono andato a donne, e continuo ad andarci. Ma non chiedetemi di voler bene ai cubi.
Ci succedono tante cose, dentro e fuori dai cubi. A volerle raccontare, ne uscirebbe una collana di romanzi. A volte, mosso dalla mia insopprimibile curiosità di conoscenza della vita umana, mi sono messo davanti a qualcuno di questi, a distanza adeguata perché tutta l'immensa facciata mi entrasse nello sguardo, ed allo stesso tempo tale da farmi mantenere il giusto distacco. Guardando lungamente tutte le finestre, tutti i minuscoli appartamenti, le loro luci accese, le storie che si sviluppavano dentro.
Le famiglie litigiose. Le donne amorose. Le cenette sul terrazzino. I panni stesi in faccia all'inquilino di sotto, e relative imprecazioni a salire al piano sopra. I piccioni sulle ringhiere. La luce blu del televisore. La luce spenta per risparmiare. Gli stranieri dell'est. Gli stranieri del sud. Gli stranieri italiani. Le grida in tutte le lingue, e spesso non in una delle nostre. Il falso ed il similvero delle nostre splendide non-vite moderne.
Ci succedono tante cose, dentro e fuori dai cubi. Che nemmeno mi stupisco più, eppure dovrei gridare forte il mio senso di straniamento in mezzo a tutto questo.
Ma chissà se la voce mi esce. Da sotto la lingua muta.
Sere fa, in un tardo pomeriggio di un piovoso gennaio, in un raro momento di pace da un lavoro sempre più insensatamente massacrante, in un raro giorno in cui ce l’ho fatta ad uscirne almeno alle sette di sera, preso da improvvisa euforia, telefono ad una delle mie fedeli intrattenitrici, amiche ormai, più che fogli da timbrare, e chiedo ed ottengo un appuntamento.
Salgo così a Perugia zona Bellocchio, lato Camera del Lavoro. Cubi su cubi. Rovine su rovine.
In quei palazzi, particolarmente in quei portoni, sarò entrato perlomeno cinquanta volte. Il senso di squallore di fronte alla scalinata culminante nella larga porta a vetri sporchi non mi ha mai abbandonato negli anni. Mi mette freddo anche d'agosto. Luoghi senz'anima né nome, e infatti anonimi sono i proprietari degli appartamenti, anonimi gli inquilini, anonimi i visitatori.
Ecco, egoisticamente il punto di vantaggio è l'anonimato del visitatore.
Anzi... era.
Parcheggio davanti alla scalinata, a muso rivolto al palazzo. A quell'ora, le strisce blu non si pagano più. Spengo i fari con la sinistra, prendo il telefono con la destra e faccio per avvisare dell'arrivo. A questo punto noto la figura.
Una specie di militare, massiccio e a gambe divaricate, piantato a braccia conserte, nel buio che c'è, proprio davanti la porta a vetri sporchi.
Attendo un minuto. Magari è solo uno che ha portato il cane a spasso. Ma resta fermo come una guardia.
Non ci ho mai visto nessuno, così sistemato. Non mi va di salire passandogli a lato, e dunque faccio il numero e telefono all'amica.
Mi dice di spostare la macchina nel parcheggio sotterraneo, che intanto lei scende per aprirmi dall'interno la porta dell'interrato.
Così faccio. Allora scendo sotto, chiudo la portiera e mi avvio al punto stabilito.
Quando sono a sei metri, dall'angolo il tizio sbuca, sempre massiccio ed a braccia conserte. Largo come Hulk, vestito con un double-face impermeabile, calzoni della tuta e scarponi anfibi di un tipo che nessuno indossa più.
Nonchalante arrivo alla porta dell'interrato. Faccio per aprirla, ma è chiusa. L'amica tarda a scendere. Non l'ho ancora guardato in faccia. Ma lui ha il tempo di apostrofarmi.
"Che fa lei qui?".
Accento, manco a dirlo, esteuropeo-rumeno.
"Perchè lo chiede?"
Devo sembrare imperturbabile. E recitare mi riesce abbastanza bene, in tutte le vite che vivo. In realtà, la sagoma e i modi mi fanno paura. E' un estraneo. Uno straniero. Uno che non si conosce, e che non sta a casa sua, quindi non c'ha nulla da perdere. Quel che aveva da perdere è rimasto in Romania.
"Sono io che faccio domande a lei. Che fa lei qui, ho detto?"
A 'sto punto, l'ho da guarda'. Non avrei voluto dargli il vantaggio.
Non ha cucite o stampate addosso etichette di qualche società di vigilanza, né ovviamente può essere uno sbirro.
"Sto salendo. Mi pare che sia chiaro."
"Lei non abita qua. Non può salire".
In quel momento sento arrivare colei che attendo. E dunque rapidamente riesco a dire "Passo a prendere una persona"
"Che persona? Qui non ci sono persone".
Sarebbe da manicomio. Ma la ragazza apre la porta, finalmente, e faccio per allargare il braccio destro ad abbracciarla nel gesto di un affettuoso e convincente saluto.
Sfortunatamente, 'sta cretina è scesa in ciabatte e perizoma, come se il parcheggio avesse la vasca idromassaggio in mezzo.
Il tipo comincia a fumare dagli orecchi. "NON SI SALE QUA!!!"
Guardo lei, cercando di mantenere lo sguardo dell'abbraccio mancato, e dico "Ciao, piccolina, perché non sei ancora pronta? ma non hai freddo così?" E mi sfilo il giaccone passandoglielo sulle spalle. "Dai, andiamo su, che ti finisci di preparare per la cena".
Col cazzo che quello molla. "NON SI SALE QUA!!".
"Posso sapere intanto con chi ho il piacere (...) di parlare?" E intanto guardo lei... che almeno intervenga dalla mia parte.
"Io mi chiamo M... Sono il portiere. Non ti ho mai visto qua. Quindi non puoi salire".
E' passato al tu, e questo è imperdonabile. Ma anche segnale di pericolo. Devo giocare, allora.
"Se è per questo 'n t'ho mai visto neanch'io. E sono qua molto spesso".
"No, io lavoro qua e non ti ho mai visto. Quella porta tu non la sali".
"Perché, sennò chiami la polizia?"
Gioco e rischio. R., l'amica, decide di intervenire tra i brividi. Dice che sono un suo amico e la sono venuto a trovare. Quell'altro insiste di non conoscermi. R. alzicchia la voce e dice che a casa sua fa entrare chi le pare, o è lui che paga l'affitto?, e Hulk ripete che non è con lei che ce l'ha, e le domande le fa lui e le risposte le devo dare io da me.
Per fortuna non sta passando nessuno, ma la commedia va avanti da troppo e senza via di fuga. Faccio a lei, risolutivo : " In tanto tempo che vengo qua, io lui mai visto. Ma alla fine, tu almeno lo conosci?".
Brillantemente, invece di rispondere a domanda, attacca a strillargli in rumeno. Capisco poche cose, anche della risposte di Hulk, ma grossomodo lei gli dice di farsi gli affari suoi, con altri termini, e lui le consiglia di non darla via agli italiani, con altri termini.
La storia trascende. Perchè il buttafuori è razzista al contrario, probabilmente prende soldi da qualche pappone concorrenziale, è gasato sopra soglia e mi è arrivato a tre centimetri, con fare ormai minaccioso. Ma davanti a uno straniero che alza la voce nei miei posti, non indietreggio.
Prendo R. e la sospingo all'interno, cercando di richiudere velocemente la porta, che lui da fuori non potrebbe riaprire. Per un nulla fallisco, ha messo in mezzo la punta di un anfibio. Apre quasi a svellerla, la porta, e mi afferra il bavero.
La scena, a fotografarla, sarebbe anche comica. Lei mezza nuda che batte i denti e si attacca a me, a cui si è attaccato Hulk per la collottola e che ha l'altra mano a contrappeso sulla maniglia. Una specie di tiro alla fune senza fune.
E mo'... la saprò recitare ancora?
"Mi lasci, per favore?". Tengo la mano libera a posto, per evitarmi guai.
"Guai a te se ti ripresenti", mi urla lasciando la presa e avvicinando la mano a pugno a filo del mio naso.
Mi sposto con lei verso l'interno. Entriamo verso l'ascensore. Lui guarda. Ha raggiunto lo scopo. Quello di imporre il comando identitario di un pezzo di territorio.
"Da quanto succede? Da quanto per salire quassù ti fanno le analisi? Me lo spieghi, per dio? Che cazzo vuole 'sta gente? Il pizzo?"
"Stai calmo. Ho freddo. Riscaldami."
"Voleva impaurirmi. Perché? Perché non vuole italiani qua?
“Ho freddo. Stringimi”.
Mi dovrei rispondere da solo. <Italiani qua> non ne vivono più. Il palazzo e i suoi otto piani e cinquanta appartamenti ospitano rumeni, albanesi, bulgari, moldavi, africani neri, maghrebini. Quasi tutti border line. Quasi tutti avventurieri.
Conquistati dagli invasori. Conquistati nei cubi di cemento. E sotto il nostro naso, senza che ci volessimo accorgere.
Inutile dire che, una volta sbollita la prima schiuma di rabbia, ho salutato R., dicendole che sarebbe stato per un'altra volta... (ma forse mai più, anche con dispiacere).
Per la cronaca, Hulk sotto non c'era più, e nemmeno il mio specchietto sinistro era al suo posto.
[Parentesi che non c'entra niente : la ragazza del bosco innevato è già una foto su una lapide. Il destino l'ha rubata presto, e VERAMENTE resta non più del ricordo di un odore di carne sudata in un giorno di gennaio che avevamo per gioco fatto diventare estate. Venti e più anni fa.
Addio C. Nei miei ricordi non potrai morire mai, se non con me.]