Knockout...

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Knockout...

Now My Feet Won't Touch The Ground by Coldplay
http://www.youtube.com/watch?v=fZIoFXmWbv0


Ansimo nel calore che abbaglia. Che stordisce. È come quando arrivano
sui fianchi quei pugni potenti come un rumore forte. Ti sbattono
addosso e ti fermano il respiro. Allora tocca di guardarsi intorno e
cercare un riparo. Una salvezza che protegga da questa pioggia di violenza.
Il caldo è uguale. È uguale come questi pomeriggi d'estate. In un
paesino della bassa come il mio non c'è nessuno, sono tutti in vacanza
sulla riviera ligure o in Romagna. Beh, quasi nessuno.

La cosa delle botte, mi fa tornare alla mente l'incontro di
quest'inverno. Tre settimane a Natale e per le qualificazioni
regionali combattevo con un ragazzo di Treviglio. Un treno.
"L'intercity" lo chiamavano i suoi compagni di scuola.
Mio papà, che m'era venuto a vedere m'ha detto che ai suoi tempi lo
avrebbero chiamato l'Espresso. Che ai suoi tempi, ha replicato
smozzicando il sigaro, gli Inter-city non c'erano ancora. Ma io ho
sorriso. Ho pensato che così sarebbe sembrato un caffè, non un pugile.
Per cui, mentre cammino per le strade deserte di questo piccolo paese,
di una piccola provincia a metà tra Milano e gli appennini, sento le
costole che si piegano per il caldo.
È agosto. È normale che faccia caldo. Sono le due del pomeriggio. Il
momento meno indicato per affrontare la violenza di questa temperatura.

Roberto. Si chiamava così quel ragazzo. Alto, molto alto. Una testa ed
una mano più di me. I suoi pugni piovevano come grandine. Dall'alto.
Arrivavano sulla zucca. La protezione riparava gli occhi ed un po'
anche il naso. Ma tutto rimbombava con un rumore sordo. Sembravano petardi.

A tre settimane da Natale ti sorprende soprattutto che un marcantonio
come quello, tutt'a un tratto, ti rifili una serie di colpi al corpo.
Tu sei lì, tutto concentrato a salvare la capoccia da quei missili che
saettano intorno. Ripari il cervello aggrappandoti ai guantoni che
pesano come macigni. Ed ogni volta che ti arriva un pugno sui polsi
benedici la tua buona stella. Perché questo gigante non si scolla da
questi colpi alti, che cercano il colpo grosso.
E poi, mentre ti rimbocchi le maniche ed ogni tanto ti sporgi verso di
lui, non vedi le sue ginocchia piegarsi?
Sembra quasi cadere. Come quando hai colpito per il KO. Le gambe si
piegano senza vita. E tu ad aspettare il tonfo sul tappeto. Dev'essere
così, con religiosa attenzione, che i boscaioli del Canada ascoltano le sequoie cadere.
Io in Canada non ci sono mai stato. E non ho mai visto una sequoia.
Solo larici e betulle che corrono a fianco delle statali che arrivano
in paese. E poi scappano via dall'altra parte. Forse temono di
rimanere intrappolati in quest'aria. Ferma e noiosa. L'aria di un paese della bassa.

Però l'asfalto di queste strade è liscio, in paese. Lo noto pure adesso

che cammino lungo il corso. Lo hanno rifatto di recente.
La mamma è contenta, che tre mesi fa s'è ammazzato il Piero. In motorino.
Non è che dico che s’é ammazzato per dire che s'è fatto male. No.

S'è proprio ammazzato. Morto. Un buco nella strada é stato, dicono.
Era di notte. Non l'ha visto è c'è saltato dentro. Che ingordo.
Il Piero era il nipote della mamma. Mio cugino. Andava all'università
a Milano. E poi, tre mesi fa, s'è ammazzato. Mia mamma diceva che il
Piero era un ragazzo intelligente. Studiava ingegneria, a Milano. Non
perdeva tempo come me, diceva la mamma. Dietro alla boxe ed alla Gilda.

Però io penso: che se era tanto intelligente, mentre tornava da
casa della Mimma il casco se lo metteva.
E invece no. Si vede che la Mimma quella sera gli deve aver succhiato
via un bel pezzo di cervello, al Piero. Il resto è colato sull'asfalto.

Svolto a destra in Via dei Giacinti. L'asfalto è bello nero e nuovo,
come il telefonino che ho comprato al centro commerciale. E penso a
mamma e a tutte le altre mamme che sono andate dal sindaco e gli hanno
urlato in faccia. Ed il sindaco ha fatto un po' come me, quando mamma
mi urla in faccia.
Ha detto: «Va bene, va bene. Le rifacciamo le strade signore. Ma
adesso lasciatemi fare. Che devo tornare alle mie cose».
Più o meno è quello che io dico alla mamma. Quando vado a boxe o dalla Gilda.
Che la mamma non le piace che io faccia la boxe. E non le piace che
frequenti la Gilda e la compagnia della piazza. Tutti quei ragazzi
poco seri che pensano solo ai motorini, alle macchine ed al sesso.
Peccatori senza religione. Così dice la mamma.

Alla mamma non piace la boxe. Neanche quel giorno che mancavano tre
settimane a Natale. E non le piace la Gilda. Dice che sembra una di quelle.
Beh, la Gilda non è una santa. È cresciuta in fretta, anche se ha solo
sedici anni. Come me. Io lo so che i sabati che rimango al bar con gli
amici e poi vado a letto presto perché l'indomani ho un incontro, lei
va in discoteca con i grandi. A Voghera o a Tortona o a Pavia.

Una volta persino a Milano. Lo so.
So anche, me l'ha detto l'Ambrogio, che mangia le pastiglie colorate.
E fa delle cose brutte, come le chiama l'Ambrogio. Come la volta che
l'ha succhiato a quei due ragazzi di Milano. Sul divanetto del locale.
È fatta così, la Gilda. Gli dici che c'hai la BMW parcheggiata fuori
e lei si eccita. Gli piacciono quelle cose. La gente ricca ed elegante
che lavora poco e pensa solo a divertirsi.

Ma alla Gilda piaccio anch'io. Che il primo pompino che m'ha fatto, me
lo ricordo bene. Eravamo a scuola. Durante l'ora di ricreazione che
pomiciavamo nella stanza delle scope. Ed allora la Gilda mi ha detto:
«Senti Giorgio, vuoi che te la faccia una sorpresa?».
Ed io ero impaurito e non sapevo cosa dirle. Ma poi mi spiaceva dirle
no. La vedevo ridacchiare, il viso luminoso sotto la frangetta. E la
magliettina tutta attillata con il fiore disegnato sulla tetta.

Sono rimasto senza respiro. C'era un chiasso, nella palestra di
Cinisello, che si respirava fuliggine di treno. E tutti i ragazzi
urlavano. E c'erano quattro ring dove c'erano le eliminatorie. E poi
Roberto, quello del treno, che per coincidenza c'aveva il papà
capostazione, che mi correva incontro con la faccia incazzata.

Uno e due e tre. I guantoni che sbattono sui miei.

La mamma era rimasta a casa. Arrabbiata. Non aveva degnato d'uno
sguardo papà che caricava la mia borsa sulla Punto.
«Dai Jolanda, non fare così. Il Giorgio è un campione. Non si farà male».
E la mamma non gli ha risposto, al papà. Mi ha guardato e mi ha detto.
«Giorgin', li hai fatti i compiti per domani?».
«Li ho fatti mamma. Li ho fatti tutti».
«Bravo Giorgin', figlio mio. Ti prego, non farmi stare in pensiero.
Che non voglio che ti fai male e poi diventi tutto brutto».
«Mà, non ti preoccupare, ce la faccio vedere io a quello là. Mamma?».
«Dimmi amore».
«Senti, stasera posso uscire? È il compleanno della Gilda. La porto al cinema».

La Gilda. S'è abbassata ed ha armeggiato con i bottoni. Ed io stavo
iniziando a capire qual'era la sorpresa. E allora le ho detto:

«Ma, Gilda. E se ci scoprono?».
«Tranquillo. Tranquillo. Faccio veloce».
E giù una risata.
Ed io, invece, c'avevo un po' di paura. Ma allo stesso tempo me lo
sentivo che diventava duro. E stringeva nelle mutande e poi nei jeans.
E allora le mani sono corse ai bottoni. Hanno giocato con quelle di
Gilda ed hanno fatto la gara per aprire i pantaloni.


Il Roberto si muoveva poco. Ma i suoi pugni erano tuoni che
scoppiavano vicino. Il papà m'aveva detto di stargli lontano,

«che è più lungo di te. Ti prende anche se corri fino a Cremona».
«E come faccio, allora?», gli ho chiesto.
«Semplice. Corri. Corri veloce tutto intorno. E poi, ogni tanto gli
vai vicino e lo colpisci. Un pugno qui ed uno là. Su fegato e reni».
Ed io gli correvo intorno, al gigante. Giravo che sembravo sulle
giostre e quello lì, con la faccia piena di pustole e gli occhi
piccoli, mi odiava ad ogni pugno che tirava all'aria.

Quando la Gilda l'ha tirato fuori dalle mutande era tutto dritto. E
l'ho sentita mormorare qualcosa sul fatto che "sembravo" piccolino.
Ed allora ho sorriso. E le ho posato le mani sulla nuca e l'ho portata
a me. È stato un tuffo in un sogno. Un sogno tiepido ed umido. Io
c'avevo una roba nella pancia che era un'emozione grossa. E non sapeva
come uscire. Allora tremava. E tremavano pure le gambe e gli occhi
lacrimavano. E mi veniva da urlare, ma urlare non potevo, che se ci
scoprivano ci mandavano dal preside. E la mamma non mi avrebbe fatto
andare più con la Gilda.


«Basta che non ti fai male», mi ha detto la mamma. «Se non ti fai
male, ci puoi andare al cinema con quella là. Con la Gilda. Ma sta'
attento. Sta' attento per la mamma».
E m'ha guardato con quegli occhi semplici che conosco. E so che, anche
se la mamma ogni tanto mi dice delle cose brutte, in fondo mi vuol bene.
E poi s'è girata verso papà. Lo ha guardato per un momento lungo

lungo e poi ha parlato. «Papà», gli ha detto «pensaci tu al campione.
Che non voglio che si faccia male».
«Tranquilla mamma. Vedrai che il Giorgio lo ammazza quello là». E
siamo saliti sulla Punto tutti allegri. Io perché alla sera uscivo con
la Gilda. Il papà perché la mamma gli aveva dato un bacio sulla
guancia attraverso il finestrino, prima di partire.

La Gilda ad un certo punto si ferma e mi dice. «Giorgio, lo sai che ce
l'hai proprio bello grosso».
Ed io guardo verso il basso e vedo il suo viso che mi piace tanto. E
lo vedo vicino al mio coso, che invece lo vedo sempre. Quando faccio
la pipì o quando faccio la doccia in palestra. O quando guardo la tele
fino a tardi e ci sono le donne nude. Ma lì, vicino agli occhi
truccati della Gilda, ed alla sua bocca con il lucidalabbra. Beh è
un'altra cosa. E questa roba, che credo si chiami felicità, si gonfia
sempre più nel ventre. E non riesco a trattenermi. E le dico, alla
Gilda: «Gilda, io non so che succede. Ma tu sei bellissima».
E la Gilda mi guarda negli occhi. Profondi profondi, me li osserva e
poi mi dice, «Giorgio senti, adesso ti faccio un regalo».
Ed io non capisco cosa voglia dire la Gilda.


La terza ripresa era l'ultima. Eravamo pari, ma forse qualche punto in
più ce l'aveva lui. È stato in quel momento che mi ha sorpreso. A
parare pugni che sbattevano sui guantoni mi ci stavo abituando. Ad un
tratto vedo le sue ginocchia che si piegano. E allora mi chiedo, ma
che sta facendo? Io non l'ho colpito. E mi arrivano uno, due, tre
pugni sui fianchi. E rimango senza respiro.

Senza respiro come adesso, che cammino per la strada con l'asfalto
tutto nuovo. Con l'asfalto tutto nero che mi racconta di Piero, di
Milano e dell'università. Della mamma e del compleanno della Gilda.
Del motorino che inciampa e della testa che scontra per terra. E mi
racconta di papà che mi parla, in macchina. E mi dice che lui è
contento che io esco con la Gilda. Che mi vede felice. E dice che quel
gigante di Treviglio me lo bevo come un succo di frutta. Che quando lo
sento colpirmi e farmi male io in quel momento devo pensare alla
Gilda. Pensare alla Gilda in un momento unico, che ci stiamo amando.
Allora troverò la forza di reagire. «Io ci penso sempre alla mamma nei
momenti difficili», mi dice mentre usciamo dall'autostrada con la Punto.
«Ci penso quando sono al lavoro. E c'ho i colleghi che mi fanno le
infamate. Ed il capo che mi fa la ramanzina. Ed allora io penso alla
mamma. Penso ad un momento che siamo stati bene. Il giorno che ci
siamo sposati. O quando sei nato te. O quella volta in vacanza in
Sardegna, che tu non c'eri ancora, ed avevamo mangiato al ristorante.
Spaghetti alle vongole e vino bianco. Che notte, quella notte con la
mamma». Così mi dice.

Lei ce lo ha in bocca. La Gilda, intendo. Ed ha preso a succhiare
veloce. E con l'altra mano s'aiuta. E la roba che c'è nella pancia e
nelle mani. Nelle braccia e nei piedi. Nelle gambe che sono sempre più
molli e nella testa che esplode dal caldo. Quella cosa esce fuori. E
sgorga impetuosa insieme alle lacrime sulla mia faccia. E non c'è più
lo stanzino. Non c'è più la scuola. E non c'è più questo piccolo paese
di provincia che dorme sullo sferragliare delle fabbriche della pianura.

Sulle serate al bar, a parlare di calcio e delle modelle della televisione.
Ci sono solo io con le mie lacrime. E Gilda con la sua bocca affamata
e calda. Ed io che mi verso dentro di lei come l'aria pulita in una
giornata, che ha smesso di piovere.


A questo penso, mentre trattengo il respiro dopo i colpi del ragazzo
di Treviglio. E i miei occhi rinascono. E lo vede pure Roberto, che mi
potrebbe finire. Invece si ferma. Mi guarda. È curioso o forse
impaurito. Perché mentre mi stava menando io penso alla Gilda e a quel
fantastico pompino. E a quanto mi ama, la Gilda, che io sono convinto
che le cose che dicono di lei, non siano mica vere. Che la Gilda fa un
po' finta. Perché vuole sembrare grande e figa come le veline. Ma per
me la Gilda è la più bella. Anche se cerca di sembrare come tutte le altre.

E quando lo penso, inspiro il primo sorso d'aria. E questa vola al
cervello. E mi sembra di volare anch'io. Come una rondine che chiama
la primavera e la sveglia dal suo sonno.
Ed allora lo colpisco. Una, due, tre volte. Al volto. E poi una
quarta. Ed una quinta. E lui c'ha gli occhi che sembrano una
fotografia. Quelli di uno che è sorpreso, che non capisce. Quelli di
uno che si ferma a riflettere. Quelli di uno che mi guarda dal basso,
mentre precipita verso il tappeto. Mentre si prepara a fare il rumore
inconfondibile di uno che finisce KO.


Gli occhi di uno che pensa: «sono stato battuto da un pompino».

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Dedicato a chi come me ha amato e praticato la boxe
e ancora, malgrado tutto, non ha perduto il ricordo di quel primo amore e di quel primo pompino...

IlChaos
 
Ultima modifica:
bravo cazzo ........ davvero bravo !
scrittura e metodo narrativo davvero degni di nota !
BRAVO CAZZO ...... chapeau .
 
Magari, nella prossima vita...
ormai in questa credo sia tardi... :-)

Se c'è una cosa per cui non è mai troppo tardi, è proprio dare libero sfogo al proprio talento.
Tantissimi sono gli artisti che hanno cominciato tardi, nella scrittura un esempio su tutti è Gesualdo Bufalino.
Fossi in te caro chaos, non rimandere alla prossima vita...
Credimi...
 
Se c'è una cosa per cui non è mai troppo tardi, è proprio dare libero sfogo al proprio talento.
Tantissimi sono gli artisti che hanno cominciato tardi, nella scrittura un esempio su tutti è Gesualdo Bufalino.
Fossi in te caro chaos, non rimandere alla prossima vita...
Credimi...

Grazie Ace...
è che vedi..., io quel mondo lo conosco
troppo bene, per far finta di non sapere come funziona... :-)
 
Hai talento. Non ti conosco e non conosco la tua storia, ma adesso conosco il tuo talento.

Così capita. Che uno stronzo qualsiasi, che ha dalla sua parte il merito di dire qualche fregnaccia in televisione, può permettersi di vedere il suo nome sulla copertina di un libro insulso e mediocre, mentre a chi ha "solo" talento, resta di poterlo esprimere laddove può e come può.

Per il suo gusto e (in questo caso) per la nostra fortuna ...
 
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