Il Col. Massimo GOTTA,Medaglia d'Argento al Valor Militare, reduce della gloriosa carica diIsbuschenskij del 24 agosto 1942, Presidente Onorario della Sezionedi Milano della'Associazione Nazionale Arma di Cavalleria "DavoiaCavalleria", nacque il 10 gennaio 1916.
Figlio del grande SalvatorGotta autore del "Il Piccolo Alpino", si arruològiovanissimo e, Tenente in Savoia Cavalleria, partecipò allaCampagna di Russia con il suo amatissimo Palù, caduto sotto il fuoconemico durante la carica.
Fu un grande soldato egrande uomo, vissuto sempre nello spirito e nei valori dellaCavalleria, la Nobile Arma alla quale Rimase sempre legato ed alla quale dedicò la sua esistenza terrena, in compagnia dell'amata e inseparabile moglie, Donna Virginia.
Morì la notte tra il 22 eil 23 febbraio 2011 nella sua abitazione milanese poco dopo aver compiuto il suo 95° compleanno e le esequie si tennero il 24 febbaraio 2011 alle ore 11.00 presso la Parrocchia di Via San Vittore a Milano (adiacente il Museo della Scienza e della Tecnica).
Riposa nel Cimitero diIvrea.
"Dopo giorni di duri combattimenti, il Reggimento si trovava la notte sul 24 agosto 1942 a quota 213,5 nei pressi di Insbuscenskj. In attesa dell'alba per riprendere il movimento verso il fiume, il «Savoia» aveva assunto una formazione di sicurezza, chiudendosi in un quadrato di armi automatiche, artiglierie e pezzi controcarro a protezione degli uomini e dei cavalli che, al centro, riposavano all'addiaccio.
Alle 3,30 il Colonnello Comandante fece uscire una pattuglia con compiti esplorativi. Dopo poche centinaia di metri essa si scontrò con elementi nemici sistemati a difesa. Immediatamente tutto lo schieramento avversario divampò tenendo sotto il suo tiro il Reggimento che aveva appena iniziato le operazioni per riprendere il movimento. Vi furono attimi di incertezza. Poi le nostre armi automatiche presero a rispondere al nemico. Infine si udì un ordine: «Secondo squadrone, a cavallo!».« Savoia Cavalleria », per l'ultima volta nella storia dell'Arma,si apprestava alla carica.
Mi svegliai di soprassalto e cacciai la testa fuori del sacco a pelo, dentro il quale mi ero allungato per terra, le briglie di Palú legate al polso destro. Adesso i colpi che mi avevano strappato al sonno si erano fatti più intensi. Cercai di volgere lo sguardo verso la zona da cui provenivano e vidi la notte punteggiata dalle fiammelle azzurre delle mitragliatrici.
«Ci síamo» pensai.
E appena un attimo dopo udii da qualche parte il comando:
«Secondo squadrone, a cavallo!»
Ero in piedi prima ancora che il cervello cominciasse a pensare. Gettai il sacco a pelo a Balsamo, il mio attendente, e montai a cavallo. Mentre raggiungevo la testa dello squadrone, sentii pesarmi addosso la vastità di quel cielo notturno, che da un momento all'altro si sarebbe illuminato agiorno.
«Ma che succede? Ci ritiriamo?»
Questa fu la mia prima reazione cosciente, quando mi resi conto che ci stavamo allontanando dai fuochi azzurri. E non fu un pensiero piacevole, perché a ridosso della linea di combattimento c'era un grande vuoto, uno spazio enorme senza alcun punto di appoggio,
Erano quattro giorni chenon toglievamo le selle ai cavalli. Dormivamo quando e come era possibile. La situazione precisa del fronte ci era ignota. Sapevamo unicamente che i russi si erano infiltrati nelle nostre linee e che cercavano di sfruttare i loro successi iniziali. Il nostro compito consisteva soprattutto nell'accorrere a turare le falle più preoccupanti, nel dare al nemico la sensazione di non poter sentirsi sicuro in nessun posto.
La sera del 23 avevamo ricevuto l'ordine di raggiungere una certa quota difficilmente identificabile in quella zona piatta, movimentata da lievi ondulazioni del terreno e costellata di campi di girasoli. A un certo punto del cammino ci eravamo fermati per dare un po' di riposo agli uomini e ai cavalli e anche perché era pericoloso e inutile proseguire nella fitta oscurità.
In attesa dell'alba, il Reggimento si sistemò a difesa: noi del secondo squadrone ci collocammo all'interno del quadrato, disposti a gruppi, pronti a balzare su al minimo allarme. La notte era fredda, il silenzio intenso. Uomini e cavalli (i primi sdraiati, i secondi in piedi) ci addormentammo di colpo.
Quella notte, qualcuno forse si domandò se per caso non avessimo sbagliato direzione,andandoci ad attestare lontano dall'obbiettivo fissato alla nostra incursione: una strada attraverso la quale i russi, che avevano superato il Don, ricevevano munizioni e rifornimenti. Nella steppa tutto è possibile, data la mancanza di riferimenti topografici precisi.
Invece noi e i russi, gli uni all'insaputa degli altri, ci eravamo accampati a meno di un chilometro di distanza. Anche gli scopi della manovra erano gli stessi: noi volevamo sorprendere il nemico sul fianco e interrompere i suoi rifornimenti; loro cercavano di tagliare la ritirata ai nostri reparti attestati lungo il fiume.
Ma in quell'alba sul Don,cavalcando alla testa dei miei cavalieri, io non potevo avere coscienza che del brusco risveglio e dei fuochi azzurri che ci lasciavamo alle spalle. Sentivo alla nuca il respiro degli uomini del mio plotone, e sapevo che non avrebbero indietreggiato di fronte a nessun pericolo.
Ed ecco a un tratto,mentre i cavalli acceleravano l'andatura, improvvisamente i fuochi azzurri apparvero sulla sinistra. Dunque la nostra non era una ritirata! Avevamo semplicemente fatto una conversione al largo per poter piombare sul fianco del nemico con la massima potenza d'urto.
Il cuore mi diede una scossa nel petto e mi strinsi a Palù, trasmettendogli il mio entusiasmo e la mia esaltazione. Sentii il cavallo vibrare, tendersi in avanti come se a un tratto avesse capito che qualcosa di meraviglioso stava per compiersi, che la vecchia cavalleria tornava a essere una catapulta che piomba sul nemico, consumando in pochi minuti i frutti di una lunghissima preparazione.
Ma era ancora possibile,nell'epoca dei carri armati e delle armi automatiche, condurre vittoriosamente a termine questo compito classico? Il quesito mi balenò alla mente solo per rendermi avvertito che la risposta l'avremmo avuta fra poco e che, comunque fosse andata la carica,ormai per noi non esistevano più alternative di sorta: bisognava andare avanti e tenersi stretti, serrare le file al massimo, formare un corpo unico di uomini e cavalli. Sì, anche di cavalli; perché questi animali così sensibili, così ombrosi, così facili a impressionarsi e a cambiare rotta, avanzavano ora con un galoppo terribile, gli occhi miopi, dilatati nell'esaltazione della carica, puntati sulle fiammelle azzurre delle mitragliatrici.
Fu nel momento preciso in cui la carica si scatenava che un cavaliere apparve al fianco del comandante dello squadrone. Era il maggiore Manusardi, che qualche mese prima aveva lasciato il comando del reparto perché promosso di grado.
«De Leone», gridò,
«sono un tuo gregario. Voglio caricare anch'io col mio vecchio squadrone!»
L'interpellato fece cenno di assenso, mentre le fiammelle azzurre erano diventate paurosamente vicine e le palle fischiavano da ogni parte, tagliando l'aria come staffilate, e i cavalieri cominciavano a urlare il loro grido di guerra:
«Savoia!».
Palù, il mio fido,scorbutico cavallo dal manto grigio non regolamentare, che a suo tempo avevo ricevuto in eredità dal comandante di «SavoiaCavalleria», Raffaele Cadorna, diede allora uno strappo alle redinie partì, prima affiancando e poi superando il cavallo del comandante, capitano De Leone, che mi gridò arrabbiato per l'atto di indisciplina:
«Dove vai con quel brocco?» ribattei, sullo stesso tono:
«Tienilo tu, se ne sei capace! Io non ci riesco!».
E poi vidi De Leone cadere dal cavallo che era stato falciato dalla mitraglia. Allora Manusardi assunse il comando dello squadrone, brandendo come arma il frustino da cui non si separava mai. Ed eravamo ormai sui russi, che ci balzavano incontro, chi cercando di colpirci, chi sollevando le braccia in segno di resa, chi correndo alla cieca nell'illusione di sottrarsi all'urto dei cavalli. Dietro di me, intanto, il trombettiere Carenzi, detto «Facciun», si affannava invano a tirar fuori la pistola Very per segnalare ai nostri che cessassero il fuoco. Ci riuscì infine, ma quando ormai eravamo passati e il quarto squadrone, che attaccava frontalmente, a piedi, si era già reso conto della situazione.
«Massimo, il tuo cavallo muore!»
Questo grido mi meravigliò. Non mi ero accorto che Palù fosse ferito, e tanto meno ferito a morte. Avevo soltanto avvertito, a un certo momento, che non riuscivo più a tenerlo e le redini mi avevano tagliato le mani nello sforzo di mantenerne il comando. Comunque mi volsi alla voce, che era quella del Tenente Pio Bruni, e constatai che aveva ragione. Il cavallo perdeva sangue da innumerevoli ferite e mi bastò un'occhiata percapire che stava per crollare. Smontai di sella e mi cercai un'altra cavalcatura, mentre Palù, eccitato dal fragore e dalle ferite,riprese a correre, scomparendo nel polverone.
Parecchi cavalli, anche dopo aver perso i loro cavalieri, avevano continuato la carica, superando con lo squadrone le linee russe
Alcuni si abbattevano al suolo adesso, dissanguati.
Uno aveva addirittura una delle gambe anteriori troncata; eppure non si era arrestato, perché soltanto la morte può fermare un cavallo quando carica.
Il maggiore Manusardi, intanto, riordinava le file dello squadrone. Dal canto loro i russi,passato lo spavento e l'orgasmo, riprendevano coraggio e cominciavano a bersagliarci di colpi. Sostare era pericoloso. Saltai sul primo cavallo illeso che mi venne sottomano e mi accinsi a partire per la seconda carica, seguito dal mio attendente.
E ancora una volta, a ranghi serrati, ci lanciammo sulle linee russe, seguendo il frustino del maggiore Manusardi. L'urlo dei cavalieri copri il fischio delle pallottole, l'impeto della carica ci impedì di vedere chi cadeva e chi proseguiva. lo avvertii a un tratto che il mio nuovo cavallo allentava il suo galoppo... Cercai comunque di spingerlo a dare il massimo di se stesso e il cavallo rispose tendendosi in uno sforzosupremo. Non durò a lungo, però: con una grande spruzzata dì sangue - era stato anche lui colpito a morte - si afflosciò al suolo.
Mi rialzai e raggiunsi le linee italiane mentre il terzo squadrone, guidato dal capitano Marchio, puntava a sua volta contro i russi, per la terza carica. Nel frattempo il quarto squadrone, che per primo aveva impegnato il nemico con un attacco frontale, a piedi, guadagnava terreno,attestandosi in vista dell'assalto risolutivo.
Una delle prime notizie che appresi fu la morte del capitano Silvano Abba, comandante del quarto squadrone. Costretto dalle necessità tattiche a operare come un fante...la vista dei compagni che andavano alla carica lo aveva riempito di amarezza. Avrebbe voluto poter saltare anche lui in sella al suo cavallo e partire al galoppo, ma dovette contenersi. E allora pensò che se non gli era concesso di partecipare alla carica, nessuno poteva impedirgli di fotografare il «Savoia Cavalleria» mentre irrompeva sui russi.
Ma le fotografie scattate da Silvano Abba, le fotografie che dovevano consegnare alla storia il documento della carica eroica dei cavalieri italiani fra i girasoli del Don, tranne alcune, si persero nel turbine della battaglia. Silvano Abba cadde fulminato da una raffica di mitraglia, che mandò in frantumi la macchina fotografica. Egli perciò non vide gli uomini del quarto squadrone compiere l'ultimo balzo e snidare i russi dalle loro posizioni, dopo che la terza carica li aveva letteralmente sconvolti.
Quando io rientrai, a ogni modo, la battaglia era ancora nel pieno svolgimento e l'esito finale appariva incerto, tanto più che i russi avevano rivelato di essere nettamente superiori, sia per quantità di uomini che di mezzi.Tuttavia qualsiasi considerazione di ordine generale passò in secondo piano, ai miei occhi, di fronte al fatto che il mio attendente era scomparso nel tratto più tremendo della carica.
Passò del tempo. Il sole saliva nel cielo e l'aria si faceva calda. Sulle posizioni nemiche, la lotta si andava frazionando in cento episodi singoli allorché mi vidi sbucare dinanzi tre uomini con le mani alzate, sospinti in avanti da un soldato italiano armato in un modo inverosimile e quasi curvo sotto il peso di certe grosse borse che si era appese al collo.
«Signor tenente, le ho portato questi!»
gridò lo strano soldato. Era il mio attendente. Appena si fu liberato dei prigionieri, mi agitò sotto gli occhi il sacco a pelo.
«Non l'ho lasciato indietro!», disse con orgoglio.
Come sì sia svolta l'avventura del mio attendente, non l'ho mai saputo di preciso; ma forse neppure il protagonista dell'incredibile vicenda sa con esattezza come fece a catturare un ufficiale e due soldati armatissimi, lui provvisto soltanto di una modestissima bomba a mano O.T.O., una bombetta di quelle che i bersaglieri ritenevano adatte alle signorine.
Una spiegazione dell'episodio c'è, tuttavia, e me la diede lui stesso con semplicità:
«Che vuole, signor tenente», disse, «la carica li aveva storditi, non capivano più nulla».
E per lui il discorso fu concluso, né lo riapri quando gli comunicai che nella borsa appartenente all'ufficiale c'erano documenti importantissimi, che contenevano i piani dettagliati delle azioni che il nemico si proponeva di svolgere per annientare la nostra resistenza.
Il resto, almeno per me, non ha storia. Molto prima di mezzogiorno la battaglia era finita e «Savoia Cavalleria» si trovava a essere padrone assoluto del campo,con un numero di prigionieri superiore ai suoi effettivi. Nel posto di soccorso, dove avevamo concentrato i feriti, italiani e russi, trovai un soldato del mio plotone che aveva perso una gamba. Era Sulas, un sardo di carattere ombroso e diffidente, un tipo molto difficile da trattare.
Mi chinai su di lui ed egli mi strinse la mano.
Disse:
«Ne valeva la pena,signor tenente».
La carica era finita... Il sole era salito alto nel cielo e l'aria siera fatta calda. Vidi allora lo Stendardo sventolare glorioso nel cielo, vidi i nostri morti allineati in attesa di sepoltura.... vidii nostri cavalli che ancora erano in grado di camminare, nonostante le loro ferite, avviarsi lentamente verso la nostra base operativa.
Cercai fra loro Palù, ma Palù non c'era. Andai allora con il mio attendente alla sua ricerca e, a piedi, ritornai sul campo di battaglia passando fra morti, feriti e soldati russi che mi guardavano con assoluto disinteresse. Mi lasciai guidare dall'istinto.
Palùs offriva di reumatismi, non aveva più molti anni da vivere, era proprio un vecchio cavallo... quando a sera finalmente lo trovai era disteso al suolo fra i girasoli, nello stesso atteggiamento di sereno abbandono per lui abituale quando, al termine delle marce, si sdraiava sulla paglia al mio fianco, nella stessa isba.
Vidi il suo candido mantello diventato vermiglio del suo sangue, vidi gli squarci delle ferite nel petto e sulla testa, vidi i suoi occhi sbarrati ancora pieni di furore ed ebbi la sensazione di venire meno e fui costretto ad appoggiarmi al soldato che mi accompagnava,
Mi inginocchiai vicino a lui, sciolsi la sella bagnata del suo sangue,letteralmente crivellata di schegge... con il suo corpo mi aveva protetto...
...presi la sua bella testa fra le mie mani... rimasi a lungo, solo, con lui,in silenzio..."
COL. MASSIMO GOTTA M.A.V.M.
Un mese prima della sua morte andai a trovarlo a casa in compagnia di un altro reduce, in occasione del suo Compleanno.
Restammo un paio d'ore in sua compagnia, Donna Virginia volle offrirci il caffè, mentre lui raccontava ancora una volta di quei tempi lontani, e ogni volta la memoria gli restituiva qualcosa di nuovo.
Prima di salutarlo lo aiutai a sistemarsi meglio sulla poltrona:
"Mi raccomando Sig. Colonnello, si riguardi che ad agosto dobbiamo andare a Grosseto per la festa di Savoia, vengo a prenderla io, non deve preoccuparsi di nulla... guardi che ci conto..."
Da soldato cercò di alzarsi, ma era troppo debole e un po' sconsolato con un mezzo sorriso rinunciò... mi sorrise, mi accarezzò e mi salutò stringendomi la mano:
"Sai Gianluca... tra poco sarò ancora insieme a Palù... per sempre... ogni tanto vieni a trovare Virginia..."
lo abbracciai e uscii da quella casa, che trasudava di suoi ricordi, in compagnia del suo vecchio amico e compagno d'armi.
Fu il nostro ultimo incontro...
Sono sicuro che ora, finalmente, sia in compagnia del suo Palù, al galoppo nelle immense praterie del cielo...!
Savoia Cavalleria nei pressi di Isbuschenskij - agosto 1942
Il Ten. Massimo Gotta in sella a Palù pochi giorni prima della Carica
Il Col. Massimo Gotta in una delle ultime fotografie - agosto 2010
Figlio del grande SalvatorGotta autore del "Il Piccolo Alpino", si arruològiovanissimo e, Tenente in Savoia Cavalleria, partecipò allaCampagna di Russia con il suo amatissimo Palù, caduto sotto il fuoconemico durante la carica.
Fu un grande soldato egrande uomo, vissuto sempre nello spirito e nei valori dellaCavalleria, la Nobile Arma alla quale Rimase sempre legato ed alla quale dedicò la sua esistenza terrena, in compagnia dell'amata e inseparabile moglie, Donna Virginia.
Morì la notte tra il 22 eil 23 febbraio 2011 nella sua abitazione milanese poco dopo aver compiuto il suo 95° compleanno e le esequie si tennero il 24 febbaraio 2011 alle ore 11.00 presso la Parrocchia di Via San Vittore a Milano (adiacente il Museo della Scienza e della Tecnica).
Riposa nel Cimitero diIvrea.
"Dopo giorni di duri combattimenti, il Reggimento si trovava la notte sul 24 agosto 1942 a quota 213,5 nei pressi di Insbuscenskj. In attesa dell'alba per riprendere il movimento verso il fiume, il «Savoia» aveva assunto una formazione di sicurezza, chiudendosi in un quadrato di armi automatiche, artiglierie e pezzi controcarro a protezione degli uomini e dei cavalli che, al centro, riposavano all'addiaccio.
Alle 3,30 il Colonnello Comandante fece uscire una pattuglia con compiti esplorativi. Dopo poche centinaia di metri essa si scontrò con elementi nemici sistemati a difesa. Immediatamente tutto lo schieramento avversario divampò tenendo sotto il suo tiro il Reggimento che aveva appena iniziato le operazioni per riprendere il movimento. Vi furono attimi di incertezza. Poi le nostre armi automatiche presero a rispondere al nemico. Infine si udì un ordine: «Secondo squadrone, a cavallo!».« Savoia Cavalleria », per l'ultima volta nella storia dell'Arma,si apprestava alla carica.
Mi svegliai di soprassalto e cacciai la testa fuori del sacco a pelo, dentro il quale mi ero allungato per terra, le briglie di Palú legate al polso destro. Adesso i colpi che mi avevano strappato al sonno si erano fatti più intensi. Cercai di volgere lo sguardo verso la zona da cui provenivano e vidi la notte punteggiata dalle fiammelle azzurre delle mitragliatrici.
«Ci síamo» pensai.
E appena un attimo dopo udii da qualche parte il comando:
«Secondo squadrone, a cavallo!»
Ero in piedi prima ancora che il cervello cominciasse a pensare. Gettai il sacco a pelo a Balsamo, il mio attendente, e montai a cavallo. Mentre raggiungevo la testa dello squadrone, sentii pesarmi addosso la vastità di quel cielo notturno, che da un momento all'altro si sarebbe illuminato agiorno.
«Ma che succede? Ci ritiriamo?»
Questa fu la mia prima reazione cosciente, quando mi resi conto che ci stavamo allontanando dai fuochi azzurri. E non fu un pensiero piacevole, perché a ridosso della linea di combattimento c'era un grande vuoto, uno spazio enorme senza alcun punto di appoggio,
Erano quattro giorni chenon toglievamo le selle ai cavalli. Dormivamo quando e come era possibile. La situazione precisa del fronte ci era ignota. Sapevamo unicamente che i russi si erano infiltrati nelle nostre linee e che cercavano di sfruttare i loro successi iniziali. Il nostro compito consisteva soprattutto nell'accorrere a turare le falle più preoccupanti, nel dare al nemico la sensazione di non poter sentirsi sicuro in nessun posto.
La sera del 23 avevamo ricevuto l'ordine di raggiungere una certa quota difficilmente identificabile in quella zona piatta, movimentata da lievi ondulazioni del terreno e costellata di campi di girasoli. A un certo punto del cammino ci eravamo fermati per dare un po' di riposo agli uomini e ai cavalli e anche perché era pericoloso e inutile proseguire nella fitta oscurità.
In attesa dell'alba, il Reggimento si sistemò a difesa: noi del secondo squadrone ci collocammo all'interno del quadrato, disposti a gruppi, pronti a balzare su al minimo allarme. La notte era fredda, il silenzio intenso. Uomini e cavalli (i primi sdraiati, i secondi in piedi) ci addormentammo di colpo.
Quella notte, qualcuno forse si domandò se per caso non avessimo sbagliato direzione,andandoci ad attestare lontano dall'obbiettivo fissato alla nostra incursione: una strada attraverso la quale i russi, che avevano superato il Don, ricevevano munizioni e rifornimenti. Nella steppa tutto è possibile, data la mancanza di riferimenti topografici precisi.
Invece noi e i russi, gli uni all'insaputa degli altri, ci eravamo accampati a meno di un chilometro di distanza. Anche gli scopi della manovra erano gli stessi: noi volevamo sorprendere il nemico sul fianco e interrompere i suoi rifornimenti; loro cercavano di tagliare la ritirata ai nostri reparti attestati lungo il fiume.
Ma in quell'alba sul Don,cavalcando alla testa dei miei cavalieri, io non potevo avere coscienza che del brusco risveglio e dei fuochi azzurri che ci lasciavamo alle spalle. Sentivo alla nuca il respiro degli uomini del mio plotone, e sapevo che non avrebbero indietreggiato di fronte a nessun pericolo.
Ed ecco a un tratto,mentre i cavalli acceleravano l'andatura, improvvisamente i fuochi azzurri apparvero sulla sinistra. Dunque la nostra non era una ritirata! Avevamo semplicemente fatto una conversione al largo per poter piombare sul fianco del nemico con la massima potenza d'urto.
Il cuore mi diede una scossa nel petto e mi strinsi a Palù, trasmettendogli il mio entusiasmo e la mia esaltazione. Sentii il cavallo vibrare, tendersi in avanti come se a un tratto avesse capito che qualcosa di meraviglioso stava per compiersi, che la vecchia cavalleria tornava a essere una catapulta che piomba sul nemico, consumando in pochi minuti i frutti di una lunghissima preparazione.
Ma era ancora possibile,nell'epoca dei carri armati e delle armi automatiche, condurre vittoriosamente a termine questo compito classico? Il quesito mi balenò alla mente solo per rendermi avvertito che la risposta l'avremmo avuta fra poco e che, comunque fosse andata la carica,ormai per noi non esistevano più alternative di sorta: bisognava andare avanti e tenersi stretti, serrare le file al massimo, formare un corpo unico di uomini e cavalli. Sì, anche di cavalli; perché questi animali così sensibili, così ombrosi, così facili a impressionarsi e a cambiare rotta, avanzavano ora con un galoppo terribile, gli occhi miopi, dilatati nell'esaltazione della carica, puntati sulle fiammelle azzurre delle mitragliatrici.
Fu nel momento preciso in cui la carica si scatenava che un cavaliere apparve al fianco del comandante dello squadrone. Era il maggiore Manusardi, che qualche mese prima aveva lasciato il comando del reparto perché promosso di grado.
«De Leone», gridò,
«sono un tuo gregario. Voglio caricare anch'io col mio vecchio squadrone!»
L'interpellato fece cenno di assenso, mentre le fiammelle azzurre erano diventate paurosamente vicine e le palle fischiavano da ogni parte, tagliando l'aria come staffilate, e i cavalieri cominciavano a urlare il loro grido di guerra:
«Savoia!».
Palù, il mio fido,scorbutico cavallo dal manto grigio non regolamentare, che a suo tempo avevo ricevuto in eredità dal comandante di «SavoiaCavalleria», Raffaele Cadorna, diede allora uno strappo alle redinie partì, prima affiancando e poi superando il cavallo del comandante, capitano De Leone, che mi gridò arrabbiato per l'atto di indisciplina:
«Dove vai con quel brocco?» ribattei, sullo stesso tono:
«Tienilo tu, se ne sei capace! Io non ci riesco!».
E poi vidi De Leone cadere dal cavallo che era stato falciato dalla mitraglia. Allora Manusardi assunse il comando dello squadrone, brandendo come arma il frustino da cui non si separava mai. Ed eravamo ormai sui russi, che ci balzavano incontro, chi cercando di colpirci, chi sollevando le braccia in segno di resa, chi correndo alla cieca nell'illusione di sottrarsi all'urto dei cavalli. Dietro di me, intanto, il trombettiere Carenzi, detto «Facciun», si affannava invano a tirar fuori la pistola Very per segnalare ai nostri che cessassero il fuoco. Ci riuscì infine, ma quando ormai eravamo passati e il quarto squadrone, che attaccava frontalmente, a piedi, si era già reso conto della situazione.
«Massimo, il tuo cavallo muore!»
Questo grido mi meravigliò. Non mi ero accorto che Palù fosse ferito, e tanto meno ferito a morte. Avevo soltanto avvertito, a un certo momento, che non riuscivo più a tenerlo e le redini mi avevano tagliato le mani nello sforzo di mantenerne il comando. Comunque mi volsi alla voce, che era quella del Tenente Pio Bruni, e constatai che aveva ragione. Il cavallo perdeva sangue da innumerevoli ferite e mi bastò un'occhiata percapire che stava per crollare. Smontai di sella e mi cercai un'altra cavalcatura, mentre Palù, eccitato dal fragore e dalle ferite,riprese a correre, scomparendo nel polverone.
Parecchi cavalli, anche dopo aver perso i loro cavalieri, avevano continuato la carica, superando con lo squadrone le linee russe
Alcuni si abbattevano al suolo adesso, dissanguati.
Uno aveva addirittura una delle gambe anteriori troncata; eppure non si era arrestato, perché soltanto la morte può fermare un cavallo quando carica.
Il maggiore Manusardi, intanto, riordinava le file dello squadrone. Dal canto loro i russi,passato lo spavento e l'orgasmo, riprendevano coraggio e cominciavano a bersagliarci di colpi. Sostare era pericoloso. Saltai sul primo cavallo illeso che mi venne sottomano e mi accinsi a partire per la seconda carica, seguito dal mio attendente.
E ancora una volta, a ranghi serrati, ci lanciammo sulle linee russe, seguendo il frustino del maggiore Manusardi. L'urlo dei cavalieri copri il fischio delle pallottole, l'impeto della carica ci impedì di vedere chi cadeva e chi proseguiva. lo avvertii a un tratto che il mio nuovo cavallo allentava il suo galoppo... Cercai comunque di spingerlo a dare il massimo di se stesso e il cavallo rispose tendendosi in uno sforzosupremo. Non durò a lungo, però: con una grande spruzzata dì sangue - era stato anche lui colpito a morte - si afflosciò al suolo.
Mi rialzai e raggiunsi le linee italiane mentre il terzo squadrone, guidato dal capitano Marchio, puntava a sua volta contro i russi, per la terza carica. Nel frattempo il quarto squadrone, che per primo aveva impegnato il nemico con un attacco frontale, a piedi, guadagnava terreno,attestandosi in vista dell'assalto risolutivo.
Una delle prime notizie che appresi fu la morte del capitano Silvano Abba, comandante del quarto squadrone. Costretto dalle necessità tattiche a operare come un fante...la vista dei compagni che andavano alla carica lo aveva riempito di amarezza. Avrebbe voluto poter saltare anche lui in sella al suo cavallo e partire al galoppo, ma dovette contenersi. E allora pensò che se non gli era concesso di partecipare alla carica, nessuno poteva impedirgli di fotografare il «Savoia Cavalleria» mentre irrompeva sui russi.
Ma le fotografie scattate da Silvano Abba, le fotografie che dovevano consegnare alla storia il documento della carica eroica dei cavalieri italiani fra i girasoli del Don, tranne alcune, si persero nel turbine della battaglia. Silvano Abba cadde fulminato da una raffica di mitraglia, che mandò in frantumi la macchina fotografica. Egli perciò non vide gli uomini del quarto squadrone compiere l'ultimo balzo e snidare i russi dalle loro posizioni, dopo che la terza carica li aveva letteralmente sconvolti.
Quando io rientrai, a ogni modo, la battaglia era ancora nel pieno svolgimento e l'esito finale appariva incerto, tanto più che i russi avevano rivelato di essere nettamente superiori, sia per quantità di uomini che di mezzi.Tuttavia qualsiasi considerazione di ordine generale passò in secondo piano, ai miei occhi, di fronte al fatto che il mio attendente era scomparso nel tratto più tremendo della carica.
Passò del tempo. Il sole saliva nel cielo e l'aria si faceva calda. Sulle posizioni nemiche, la lotta si andava frazionando in cento episodi singoli allorché mi vidi sbucare dinanzi tre uomini con le mani alzate, sospinti in avanti da un soldato italiano armato in un modo inverosimile e quasi curvo sotto il peso di certe grosse borse che si era appese al collo.
«Signor tenente, le ho portato questi!»
gridò lo strano soldato. Era il mio attendente. Appena si fu liberato dei prigionieri, mi agitò sotto gli occhi il sacco a pelo.
«Non l'ho lasciato indietro!», disse con orgoglio.
Come sì sia svolta l'avventura del mio attendente, non l'ho mai saputo di preciso; ma forse neppure il protagonista dell'incredibile vicenda sa con esattezza come fece a catturare un ufficiale e due soldati armatissimi, lui provvisto soltanto di una modestissima bomba a mano O.T.O., una bombetta di quelle che i bersaglieri ritenevano adatte alle signorine.
Una spiegazione dell'episodio c'è, tuttavia, e me la diede lui stesso con semplicità:
«Che vuole, signor tenente», disse, «la carica li aveva storditi, non capivano più nulla».
E per lui il discorso fu concluso, né lo riapri quando gli comunicai che nella borsa appartenente all'ufficiale c'erano documenti importantissimi, che contenevano i piani dettagliati delle azioni che il nemico si proponeva di svolgere per annientare la nostra resistenza.
Il resto, almeno per me, non ha storia. Molto prima di mezzogiorno la battaglia era finita e «Savoia Cavalleria» si trovava a essere padrone assoluto del campo,con un numero di prigionieri superiore ai suoi effettivi. Nel posto di soccorso, dove avevamo concentrato i feriti, italiani e russi, trovai un soldato del mio plotone che aveva perso una gamba. Era Sulas, un sardo di carattere ombroso e diffidente, un tipo molto difficile da trattare.
Mi chinai su di lui ed egli mi strinse la mano.
Disse:
«Ne valeva la pena,signor tenente».
La carica era finita... Il sole era salito alto nel cielo e l'aria siera fatta calda. Vidi allora lo Stendardo sventolare glorioso nel cielo, vidi i nostri morti allineati in attesa di sepoltura.... vidii nostri cavalli che ancora erano in grado di camminare, nonostante le loro ferite, avviarsi lentamente verso la nostra base operativa.
Cercai fra loro Palù, ma Palù non c'era. Andai allora con il mio attendente alla sua ricerca e, a piedi, ritornai sul campo di battaglia passando fra morti, feriti e soldati russi che mi guardavano con assoluto disinteresse. Mi lasciai guidare dall'istinto.
Palùs offriva di reumatismi, non aveva più molti anni da vivere, era proprio un vecchio cavallo... quando a sera finalmente lo trovai era disteso al suolo fra i girasoli, nello stesso atteggiamento di sereno abbandono per lui abituale quando, al termine delle marce, si sdraiava sulla paglia al mio fianco, nella stessa isba.
Vidi il suo candido mantello diventato vermiglio del suo sangue, vidi gli squarci delle ferite nel petto e sulla testa, vidi i suoi occhi sbarrati ancora pieni di furore ed ebbi la sensazione di venire meno e fui costretto ad appoggiarmi al soldato che mi accompagnava,
Mi inginocchiai vicino a lui, sciolsi la sella bagnata del suo sangue,letteralmente crivellata di schegge... con il suo corpo mi aveva protetto...
...presi la sua bella testa fra le mie mani... rimasi a lungo, solo, con lui,in silenzio..."
COL. MASSIMO GOTTA M.A.V.M.
Un mese prima della sua morte andai a trovarlo a casa in compagnia di un altro reduce, in occasione del suo Compleanno.
Restammo un paio d'ore in sua compagnia, Donna Virginia volle offrirci il caffè, mentre lui raccontava ancora una volta di quei tempi lontani, e ogni volta la memoria gli restituiva qualcosa di nuovo.
Prima di salutarlo lo aiutai a sistemarsi meglio sulla poltrona:
"Mi raccomando Sig. Colonnello, si riguardi che ad agosto dobbiamo andare a Grosseto per la festa di Savoia, vengo a prenderla io, non deve preoccuparsi di nulla... guardi che ci conto..."
Da soldato cercò di alzarsi, ma era troppo debole e un po' sconsolato con un mezzo sorriso rinunciò... mi sorrise, mi accarezzò e mi salutò stringendomi la mano:
"Sai Gianluca... tra poco sarò ancora insieme a Palù... per sempre... ogni tanto vieni a trovare Virginia..."
lo abbracciai e uscii da quella casa, che trasudava di suoi ricordi, in compagnia del suo vecchio amico e compagno d'armi.
Fu il nostro ultimo incontro...
Sono sicuro che ora, finalmente, sia in compagnia del suo Palù, al galoppo nelle immense praterie del cielo...!
Savoia Cavalleria nei pressi di Isbuschenskij - agosto 1942
Il Ten. Massimo Gotta in sella a Palù pochi giorni prima della Carica
Il Col. Massimo Gotta in una delle ultime fotografie - agosto 2010