come ogni estate mio padre si sentiva in dovere di coinvolgerci nelle sue temute battute di caccia ai funghi porcini
io e la sorella avremo avuto 10 anni, a giudicare dal disegno grottesco degli scarponcini in similpelle, ereditati da qualche cugino morto, probabilmente durante un'escursione.
scontato che noi non s'avesse la minima voglia di avanzare nel sottobosco fradicio alle sei del mattino, prendendo in faccia le scudisciate dei rami smollati a ghigliottina dal passaggio vigoroso della schiena del mio vecchio......
non s'aveva voglia ma si faceva, perché a quell'età è buona norma collezionare motivi per lenìre i sensi di colpa che in età adulta accompagnano l'abbandono dei propri genitori.
così, ciò che era ferocemente imposto era anche stoicamente sopportato, in attesa che tornasse buono per la stagione dell'indipendenza.
noi si raggiungeva in macchina il prato di partenza (si parte sempre a camminare dal prato), anche quando s'allunga per quattro chilometri prima di declinare, impietosamente fradici, nel bosco di conifere.
i motivi di questo lento ed inutille avvicinamento, naturalmente, sono ignoti ed il viaggio era sgradevole per tre motivi :
il primo motivo era l'andatura turistica di mio padre che conciliava il sonno, ma non ci si poteva addormentare, nonostante l'ora, a causa del secondo e del terzo motivo.
il secondo motivo era che mio padre sottolineava ogni scalata di marcia con scorregge silenziose al curaro, che impregnavano di pongo stercoraceo la zona in corrispondenza del sedile lato guida, dietro il quale io stavo accovacciato nella vana ricerca di una sacca d'aria respirabile.
l'ottundimento che produceva, l'ho sperimentato in seguito soltanto inalando per errore i vapori di una colla per imballaggi industriali........ però in quel caso avevo la maschera microfiltrata, mentre allora ci andavo contro di pura narice, col respiro profondo della narcosi e l'ingenuità tipica del preadolescente.
ci ho messo vent'anni a capire che le scorregge del viaggio d'andata erano propiziatorie e quelle del viaggio di ritorno erano il prodotto della stipsi, ma ormai avevo già smesso di andare in macchina con mio padre, così di questa folgorante scoperta non me ne venne in tasca nulla, a parte un sorriso gratis.
il terzo e ultimo motivo per cui ricordo quei viaggi come le interrogazioni sulla metrica di orazio, è che durante i trasferimenti si decideva la strategia :
mio padre disegnava gli obiettivi nell'aria viziata dell'abitacolo, assegnando porzioni di territorio in funzione del numero degli occupanti della macchina, diviso la radice cubica del dislivello del bosco, al netto del numero di intrusi che contava di incontrare.
in pratica, non capendo un cazzo né di geografia né di tattica militare, ci piazzava a casaccio, un po' più su o più giù della linea ideale che contava di perlustrare personalmente.
una cosa rimaneva fondamentale: mai camminare dietro di lui, perché sarebbe stato uno spreco di risorse, considerando che a quella quota tutto quello che cresceva di edibile non poteva sfuggirgli.
più per evitare una sovraesposizione al curaro gassoso, che per vera convinzione, io quell'ordine lo seguivo alla lettera, prendendo la via della cima del bosco, allontanandomi il più possibile dalle via battute.
mia sorella no.
la sua pigrizia e l'indomabile spinta a fare il contrario di quanto le veniva imposto, regolavano i suoi ritmi biologici, la cadenza del passo e la linea da seguire...... che, invariabilmente, coincideva con quella di mio padre, passo passo, soltanto qualche passo indietro.
il generale reagiva all'insubordinazione da sportivo : bestemmiando.
da sopra la scena era piuttosto comica devo dire, perché cristonava sottovoce, come si fa in chiesa o, appunto, quando temi che il nemico sia in ascolto.
per essere più convincente, il generale accompagnava l'irrispettosa preghiera con ampi gesti dell'avambraccio, che allora interpretavo come necessari al suo equilibrio mentre avanzava nel sottobosco, ma erano solo cortesi inviti a mia sorella, affinchè si togliesse da li dietro.
francamente, ripensando alla postura, direi che la mandava affanculo senza indugi.
questo fatto introduce il secondo comandamento cui attenersi: la regola del silenzio su trionfo.
il trionfo era la scoperta di un fungo nobile e di taglia.
il silenzio invece era necessario per impedire che le iene bergamasche (non v'ho ancora riferito di come censissimo la popolazione del nemico, giudicandone le strategie a seconda del tipo di macchina rinvenuta accanto alla nostra nel parcheggio e della targa di provenienza) scoprissero il giacimento di boleti.
però il nostro generale aveva un punto debole: la curiosità .
dopo un po' che si taceva, ci pensava lui a chiamare, chiedendo a gran voce dove fossimo e che cosa avessimo trovato.
io che il soldato l'ho fatto e che per indole ne anticipavo l' essenza – come da copione, tacevo.
insomma, non bisognava rispondere per non farsi scoprire, ma bisognava far capire che stavo bene, e che si, qualcosa di buono s'era pur trovato.
ci vuole una truppa intelligente per vincere qualunque guerra di nervi.
dovendo tacere, pensai io, per farmi localizzare non mi resta che lo sfruttamento delle risorse del territorio.....
scendendo a valle in direzione del richiamo, io scelsi la risorsa bastone di legno.
caricai la leva del braccio.... il cervello trasmise l'ordine ai tendini ed ai muscoli coinvolti.
li coinvolsi tutti, quei dannati muscoli.....
il giavellotto sibilò nell'aria frizzante, purissima, altissima.
doveva annunciarmi, precedendomi di qualche minuto, fermandosi docile ai piedi del mio vecchio.
doveva, ma andò oltre le attese, incuneandosi di punta tra le spalle del generale.
percepii distintamente il rumore del primo contatto tra il bastone e la clavicola (per essere divulgativo, dirò che produce un rumore simile, ma non uguale, a quello di un sampietrino lasciato cadere da un metro d'altezza sul fondo di un secchio in lamierino, pieno d'acqua).
per qualche secondo non successe niente, tanto che cominciavo a credere di essermi sbagliato.
poi all'improvviso il generale s'abbattè al suolo come un pregiudizio, o un palazzo quando implode.
fu salvato da una betulla, che ebbe la prontezza d'animo di abbracciare.
i rami si inclinarono volentieri sotto il peso del suo affetto.
era la tipica scena madre di un film d'amore ben recitato.
a quel punto, lacerando la sottile linea rossa del silenzio, lui disse solo: "di@@@@cccaneeeee !!!!".
ma lo disse così forte e tirando la "o" così a lungo, che in un primo momento pensai che io non centravo e che mia sorella aveva dovuto camminargli proprio vicino per suscitare una denuncia così convinta.
naturalmente, in un secondo momento, ma solo perché sono molto intelligente, non mi fidai dell'impressione del primo momento e cominciai la risalita verso la vetta, con il passo dello sherpa che mastica la foglia di coca e s'è convinto che battere un record di alpinismo non è solo un passatempo per occidentali annoiati.
mi fermai in prossimità del ghiacciaio, a migliaia di metri sul livello del mare e svariate centinaia sopra il di@ccane che ristagnava minaccioso nell'aria come una nuvola bassa.
scavai una trincea dietro ad un cespuglio di rovi, foderandolo di muschio.
rimasi, rispettando la consegna del silenzio, fino a che non fece nuovamente buio, di quello stesso giorno - mi pare di ricordare.
da quella volta mangio solo funghi porcini comperati e pretendo che siano allevati in serra.
mia sorella ha smesso di credere che non avrebbe mai riso dei film d'amore ben recitati.
mio padre, splendido generale in congedo, per motivi senz'altro riconducibili al rituale, ogni volta che vede un bastone inizia a tremare, anche in piena d'estate.....
come cassius clay, ma con meno grazia e con meno colore addosso.
vi dico soltanto, per rendere l'idea, che mio padre odia i ciechi.
pensate voi che razza di processi di identificazione inconsci sono coinvolti.
naturalmente, da quella volta non tollero chi bestemmia in pubblico e mi costringe a fughe precipitose verso la più vicina montagna, ovunque io sia, senza voltarmi indietro fino a quando non ho raggiunto la vetta.
abitando in pianura, sopportare la maleducazione del prossimo è faticoso, quasi un secondo lavoro.
io e la sorella avremo avuto 10 anni, a giudicare dal disegno grottesco degli scarponcini in similpelle, ereditati da qualche cugino morto, probabilmente durante un'escursione.
scontato che noi non s'avesse la minima voglia di avanzare nel sottobosco fradicio alle sei del mattino, prendendo in faccia le scudisciate dei rami smollati a ghigliottina dal passaggio vigoroso della schiena del mio vecchio......
non s'aveva voglia ma si faceva, perché a quell'età è buona norma collezionare motivi per lenìre i sensi di colpa che in età adulta accompagnano l'abbandono dei propri genitori.
così, ciò che era ferocemente imposto era anche stoicamente sopportato, in attesa che tornasse buono per la stagione dell'indipendenza.
noi si raggiungeva in macchina il prato di partenza (si parte sempre a camminare dal prato), anche quando s'allunga per quattro chilometri prima di declinare, impietosamente fradici, nel bosco di conifere.
i motivi di questo lento ed inutille avvicinamento, naturalmente, sono ignoti ed il viaggio era sgradevole per tre motivi :
il primo motivo era l'andatura turistica di mio padre che conciliava il sonno, ma non ci si poteva addormentare, nonostante l'ora, a causa del secondo e del terzo motivo.
il secondo motivo era che mio padre sottolineava ogni scalata di marcia con scorregge silenziose al curaro, che impregnavano di pongo stercoraceo la zona in corrispondenza del sedile lato guida, dietro il quale io stavo accovacciato nella vana ricerca di una sacca d'aria respirabile.
l'ottundimento che produceva, l'ho sperimentato in seguito soltanto inalando per errore i vapori di una colla per imballaggi industriali........ però in quel caso avevo la maschera microfiltrata, mentre allora ci andavo contro di pura narice, col respiro profondo della narcosi e l'ingenuità tipica del preadolescente.
ci ho messo vent'anni a capire che le scorregge del viaggio d'andata erano propiziatorie e quelle del viaggio di ritorno erano il prodotto della stipsi, ma ormai avevo già smesso di andare in macchina con mio padre, così di questa folgorante scoperta non me ne venne in tasca nulla, a parte un sorriso gratis.
il terzo e ultimo motivo per cui ricordo quei viaggi come le interrogazioni sulla metrica di orazio, è che durante i trasferimenti si decideva la strategia :
mio padre disegnava gli obiettivi nell'aria viziata dell'abitacolo, assegnando porzioni di territorio in funzione del numero degli occupanti della macchina, diviso la radice cubica del dislivello del bosco, al netto del numero di intrusi che contava di incontrare.
in pratica, non capendo un cazzo né di geografia né di tattica militare, ci piazzava a casaccio, un po' più su o più giù della linea ideale che contava di perlustrare personalmente.
una cosa rimaneva fondamentale: mai camminare dietro di lui, perché sarebbe stato uno spreco di risorse, considerando che a quella quota tutto quello che cresceva di edibile non poteva sfuggirgli.
più per evitare una sovraesposizione al curaro gassoso, che per vera convinzione, io quell'ordine lo seguivo alla lettera, prendendo la via della cima del bosco, allontanandomi il più possibile dalle via battute.
mia sorella no.
la sua pigrizia e l'indomabile spinta a fare il contrario di quanto le veniva imposto, regolavano i suoi ritmi biologici, la cadenza del passo e la linea da seguire...... che, invariabilmente, coincideva con quella di mio padre, passo passo, soltanto qualche passo indietro.
il generale reagiva all'insubordinazione da sportivo : bestemmiando.
da sopra la scena era piuttosto comica devo dire, perché cristonava sottovoce, come si fa in chiesa o, appunto, quando temi che il nemico sia in ascolto.
per essere più convincente, il generale accompagnava l'irrispettosa preghiera con ampi gesti dell'avambraccio, che allora interpretavo come necessari al suo equilibrio mentre avanzava nel sottobosco, ma erano solo cortesi inviti a mia sorella, affinchè si togliesse da li dietro.
francamente, ripensando alla postura, direi che la mandava affanculo senza indugi.
questo fatto introduce il secondo comandamento cui attenersi: la regola del silenzio su trionfo.
il trionfo era la scoperta di un fungo nobile e di taglia.
il silenzio invece era necessario per impedire che le iene bergamasche (non v'ho ancora riferito di come censissimo la popolazione del nemico, giudicandone le strategie a seconda del tipo di macchina rinvenuta accanto alla nostra nel parcheggio e della targa di provenienza) scoprissero il giacimento di boleti.
però il nostro generale aveva un punto debole: la curiosità .
dopo un po' che si taceva, ci pensava lui a chiamare, chiedendo a gran voce dove fossimo e che cosa avessimo trovato.
io che il soldato l'ho fatto e che per indole ne anticipavo l' essenza – come da copione, tacevo.
insomma, non bisognava rispondere per non farsi scoprire, ma bisognava far capire che stavo bene, e che si, qualcosa di buono s'era pur trovato.
ci vuole una truppa intelligente per vincere qualunque guerra di nervi.
dovendo tacere, pensai io, per farmi localizzare non mi resta che lo sfruttamento delle risorse del territorio.....
scendendo a valle in direzione del richiamo, io scelsi la risorsa bastone di legno.
caricai la leva del braccio.... il cervello trasmise l'ordine ai tendini ed ai muscoli coinvolti.
li coinvolsi tutti, quei dannati muscoli.....
il giavellotto sibilò nell'aria frizzante, purissima, altissima.
doveva annunciarmi, precedendomi di qualche minuto, fermandosi docile ai piedi del mio vecchio.
doveva, ma andò oltre le attese, incuneandosi di punta tra le spalle del generale.
percepii distintamente il rumore del primo contatto tra il bastone e la clavicola (per essere divulgativo, dirò che produce un rumore simile, ma non uguale, a quello di un sampietrino lasciato cadere da un metro d'altezza sul fondo di un secchio in lamierino, pieno d'acqua).
per qualche secondo non successe niente, tanto che cominciavo a credere di essermi sbagliato.
poi all'improvviso il generale s'abbattè al suolo come un pregiudizio, o un palazzo quando implode.
fu salvato da una betulla, che ebbe la prontezza d'animo di abbracciare.
i rami si inclinarono volentieri sotto il peso del suo affetto.
era la tipica scena madre di un film d'amore ben recitato.
a quel punto, lacerando la sottile linea rossa del silenzio, lui disse solo: "di@@@@cccaneeeee !!!!".
ma lo disse così forte e tirando la "o" così a lungo, che in un primo momento pensai che io non centravo e che mia sorella aveva dovuto camminargli proprio vicino per suscitare una denuncia così convinta.
naturalmente, in un secondo momento, ma solo perché sono molto intelligente, non mi fidai dell'impressione del primo momento e cominciai la risalita verso la vetta, con il passo dello sherpa che mastica la foglia di coca e s'è convinto che battere un record di alpinismo non è solo un passatempo per occidentali annoiati.
mi fermai in prossimità del ghiacciaio, a migliaia di metri sul livello del mare e svariate centinaia sopra il di@ccane che ristagnava minaccioso nell'aria come una nuvola bassa.
scavai una trincea dietro ad un cespuglio di rovi, foderandolo di muschio.
rimasi, rispettando la consegna del silenzio, fino a che non fece nuovamente buio, di quello stesso giorno - mi pare di ricordare.
da quella volta mangio solo funghi porcini comperati e pretendo che siano allevati in serra.
mia sorella ha smesso di credere che non avrebbe mai riso dei film d'amore ben recitati.
mio padre, splendido generale in congedo, per motivi senz'altro riconducibili al rituale, ogni volta che vede un bastone inizia a tremare, anche in piena d'estate.....
come cassius clay, ma con meno grazia e con meno colore addosso.
vi dico soltanto, per rendere l'idea, che mio padre odia i ciechi.
pensate voi che razza di processi di identificazione inconsci sono coinvolti.
naturalmente, da quella volta non tollero chi bestemmia in pubblico e mi costringe a fughe precipitose verso la più vicina montagna, ovunque io sia, senza voltarmi indietro fino a quando non ho raggiunto la vetta.
abitando in pianura, sopportare la maleducazione del prossimo è faticoso, quasi un secondo lavoro.