Volevo assecondarla, esplorare con lei la sessualità che aveva confessato piacerle, con quella falsa pudicizia di chi sa bene cosa va cercando, ma teme il giudizio nel manifestarlo. Armato di santa pazienza avevo speso un’oscenità online per attrezzarmi all’evenienza. No, non ve lo dico quanto, mi lincereste, dico solo che ammontava a più di due Angeline (questa è per pochi).
L’idea era quella di vederci nella solita alcova, come programmato, quella lontana da occhi indiscreti. Intendevo accoglierla con teneri baci, in un clima disteso per bendarla con il sorriso. Mi sarei sentito goffo ad armeggiare mentre mi osservava. In più ritenevo che la perdita sensoriale della vista avrebbe creato in lei quell’incertezza, quel timore eccitante. Occlusa la vista l’avrei denudata come se fossi stato un medico che si appresta ad operare, con fare distaccato, professionale. Nel mio film mentale riponevo con cura maniacale i suoi indumenti, man mano che glieli sottraevo. Nuda e cieca l’avrei adornata per prima cosa del collare, avendo cura di lasciare un dito o due di tolleranza tra la sua cute e la pelle nera. La fibbia di metallo freddo trasmette una vibrazione al suo corpo elegante. Poi polsiere e cavigliere. Due clip unite da una catenina a pinzarle i capezzoli. Così conciata l’avrei distesa a pancia in giù sul letto, le avrei divaricato le gambe ed avrei piegato gli stinchi fino ad agganciare le caviglie ai rispettivi polsi.
Un plug delicatamente nel culo ed il cazzo in gola. Spinte lente man mano più profonde. Poi la ciliegina sulla torta: la gag ball a tapparle la bocca e via la benda dagli occhi, via il plug dal culo. Il copione seguiva con poche carezze all’inguine, lo sculacciatore severo ad arrossarne le natiche, due dita dentro a drenare la broda, lubrificante al culo e sodomizzazione al guinzaglio fino alle lacrime d’esasperazione.
Una volta aperto il culo le avrei liberato i piedi e i polsi, le avrei tolto la palla da bocca per trascinarla con me sulla cassapanca, mi confessò che desiderava esserci chiusa dentro. Ci avrei piantato quel grosso dildo sopra per farcela accomodare con la fica. Io a cavalcioni dietro di lei ad infilzarle l’altro buco libero, la cospargevo di olio, le massaggiavo le tette lucide ed il clitoride fino a farla godere penetrata davanti e di dietro. Era tutto perfetto. Eccola alla porta. Ero pronto….
“Tesoro oggi sono arrivati i tuoi giocattoli”
“Fammi vedere, dove li hai messi?”
“Non così di fretta, baciami e te lo dico”
Un bacio tira l’altro, via la camicetta, via la mia maglia, fanculo i pantaloni, le alzo la gonna, abbasso il perizoma a mezza chiappa. Solo la punta, ora le faccio sentire solo la punta ripetevo nella mia mente.
E la punta è diventata mezz’asta. Che cazzo sto combinando, non era questo l’ordine delle cose. Ma quella peluria soffice che pizzicava la cappella, quel solco già madido e scivoloso. Le sue natiche lisce, anche un po’ fredde. Bisognava riscaldarle, c’era bisogno di calore. E dentro quanto cazzo è calda.
“Amore ma i giocattoli?”
Non lo diceva perché veramente se ne fregasse qualcosa ma perché aveva capito che mi ero incartato nella sua vagina. Insomma mi sfotteva. Sorrideva.
“Un secondo, solo un attimo, ci giochiamo dopo…”
Spingo il resto, glielo ficco dentro e me la sbatto a suon dei rispettivi affanni, in piedi, in fica, ancora mezza vestita e fanculo i giocattoli, non riesco a fermarmi, vedo il traguardo, i coglioni mi friggono, il cervello è in estasi ed eccolo, finalmente, il senso di liberazione, tutto il mio seme a schizzarle l’utero, a fecondarla.
Se non fosse stato così appagante quasi mi sarei sentito in colpa per non aver assecondato un suo kink, una volta tanto che ne aveva condiviso uno. Ma si sa che dopo aver sborrato, lo sticazzi accresce in maniera incommensurabile senza lasciare spazio ad alcun rimpianto. Eppure mi ero attrezzato, avevo passato tutta la mattinata a studiare la scena, i tempi, il tono delle cattiverie che avrei proferito. La verità è che io con questi ammennicoli ho un rapporto conflittuale e non ci sono preliminari che tengano quando la voglia monta e l’esigenza impellente è di metterlo dentro. Ma non mi arrendo.