Dalla Maria Ludargnani?

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Tra la via Emilia e il west
«Cosa ne diresti» mi chiese, e accennava col mento alla porta di un postribolo, «se entrassimo a vedere?»
La proposta non aveva niente di eccezionale. Tuttavia, venendomi da lui, col quale non avevo mai fatto altro che discorsi seri, mi stupì e mi imbarazzò.
«Non è dei meglio» risposi. «Deve essere di quelli da meno di dieci lire... Comunque, entriamo pure.»
Era tardi, quasi l'una dopo mezzanotte, e l'accoglienza che ci venne riservata non fu certo calorosa. Cominciò una vecchia, una specie di contadina seduta su una seggiola di paglia dietro un battente del portoncino, a far storie perché non voleva le biciclette. Seguì la tenutaria, una donnetta di età indefinibile, secca, livida, con gli occhiali, vestita di nero come una monaca, anche lei lagnandosi delle biciclette e dell'ora. Una serva, poi, che stava già pulendo i salottini con tanto di scopa, straccio della polvere, e manico della pattumiera sotto l'ascella, mentre attraversavamo la saletta d'ingresso ci rivolse un'occhiata carica di disprezzo. Ma nemmeno le ragazze, raccolte tutte quante a conversare pacificamente in un unico salottino attorno a un gruppetto di assidui, ci fecero buona cera. Nessuna di loro ci venne incontro. E passarono non meno di dieci minuti, durante i quali io e Malnate, seduti uno di fronte all'altro nel salottino separato dove la tenutaria ci aveva dirottati, non scambiammo in pratica una sola parola (attraverso le pareti ci giungevano le risa delle ragazze, i colpi di tosse e le voci assonnate dei loro avventori-amici), prima che una biondina dall'aria fine, coi capelli tirati dietro la nuca e vestita sobriamente come una liceale di buona famiglia, si decidesse a presentarsi sulla soglia.
Non sembrava neppure tanto seccata.
«Buona sera» salutò. Ci esaminò tranquilla, gli occhi azzurri pieni di ironia. Quindi disse, rivolta a me:
«E allora tu, celestino, che idee abbiamo?»
«Come ti chiami?» riuscii a balbettare.
«Gisella.»
«Di dove sei?»
«Bologna!» esclamò, sgranando gli occhi come a promettere chissà cosa.
Ma non era vero. Calmo, padrone di sé, Malnate se ne accorse subito.
«Bologna un corno», interloquì. «Secondo me sei lombarda, e neanche di Milano. Devi essere del comasco.»
«Com'è che ha fatto a indovinarlo?» domandò l'altra sbalordita.
Dietro le sue spalle era spuntato frattanto il muso da faina della tenutaria.
«Beh» brontolò, «mi pare che anche qui fate della gran flanella.»
«Ma no» protestò la ragazza, sorridendo e indicandomi.
«Quel celestino là ha delle intenzioni serie. Vogliamo andare?»
Mi girai verso Malnate. Anche lui mi guardava con espressione incoraggiante, affettuosa.
«E tu?» chiesi.
Fece con la mano un gesto vago, e uscì in una breve risata.
«Non pensare a me» soggiunse. «Va' pur su, che ti aspetto.»
Tutto si svolse molto rapidamente. Quando tornammo da basso, Malnate stava chiacchierando con la tenutaria. Aveva tirato fuori la pipa: parlava e fumava. Si informava del «trattamento economico» riservato alle prostitute, del «meccanismo» del loro avvicendamento quindicinale, del «controllo medico», eccetera e la donna gli rispondeva con pari impegno e serietà.
«Bon» disse infine Malnate, accortosi della mia presenza, e si alzò in piedi.
Passammo nell'anticamera, diretti verso le biciclette che avevamo accostato una sull'altra alla parete di fianco all'uscio di strada, mentre la tenutaria, diventata ormai molto gentile, correva avanti ad aprire.
«Arrivederci» la salutò Malnate.
Mise una moneta sul palmo proteso della portinaia, e uscì fuori per primo.
Gisella era rimasta indietro.
«Ciao amore» cantilenò. «Torna, eh!»
Sbadigliava.
«Ciao» risposi, uscendo a mia volta.
«Buona notte, signori» bisbigliò rispettosa la tenutaria alle nostre spalle: e sentii che chiudeva col catenaccio.

[…]

«Sei tu?»
Come era da prevedersi, anche quella notte non ero sfuggito al suo controllo. Di solito, al suo «Sei tu?» acceleravo prontamente il passo: tiravo dritto senza rispondergli e fingendo di non aver sentito. Ma quella notte no. Pur immaginando non senza fastidio il genere di domande alle quali avrei dovuto rispondere, da anni sempre le stesse («Come mai così tardi?», «Sai che ora è?», «Dove sei stato?», eccetera), preferii fermarmi. Socchiuso l'uscio, introdussi il viso nello spiraglio.
«Cosa stai a fare, lì?» disse subito mio padre dal letto, sbirciandomi di sopra agli occhiali. «Entra, entra un momento.»
Piuttosto che sdraiato, stava seduto in camicia da notte, appoggiandosi col dorso e con la nuca alla testiera di biondo legno scolpito, e coperto non più che fino alla base dello stomaco dal solo lenzuolo. Mi colpì come tutto, di lui e attorno a lui, fosse bianco: argentei i capelli, pallido e smunto il viso, candidi la camicia da notte, il guanciale dietro le reni, il lenzuolo, il libro posato aperto sul ventre; e come quella bianchezza (una bianchezza da clinica, pensavo) si accordasse alla serenità sorprendente, straordinaria, all'inedita espressione di bontà piena di saggezza che gli illuminava gli occhi chiari.
«Che tardi!» commentò sorridendo, mentre dava un'occhiata al Rolex da polso, a tenuta d'acqua, dal quale non si separava nemmeno a letto. «Lo sai che ora è? Le due e ventisette.»
Per la prima volta, forse, da quando, compiuti i diciott'anni, avevo ottenuto la chiave di casa, la frase non mi irritò.
«Sono stato in giro» dissi quietamente.
«Con quel tuo amico di Milano?»
«Sì.»
«Di che cosa si occupa? È ancora studente?»
«Macché studente. Ha già ventisei anni. È impiegato... Lavora come chimico alla Zona industriale, in uno stabilimento di gomma sintetica della Montecatini.»
«Guarda un po'. E io che pensavo che fosse ancora all'università. Perché non lo inviti mai a cena?»
«Mah... Supponevo che non fosse il caso di dare alla mamma più lavoro di quello che ha già.»
«Noo, figurati! Che cosa vuoi che conti. Una scodella di minestra in più è roba da ridere. Portalo, portalo pure. E... dove avete cenato? Da Giovanni?»
Annuii.
«Raccontami cos'è che avete mangiato di bello.»
Mi assoggettai di buon grado, non senza essere sorpreso io stesso della mia condiscendenza, a elencargli i vari piatti: quelli scelti da me, e quelli da Malnate.
Intanto mi ero seduto.
«Buono» assentì infine mio padre, compiaciuto.
«E poi» seguitò dopo una pausa, «duv'èla mai ch'a si 'ndà a far dann, tutt du? Scommetto» - qui alzò una mano, come a prevenire una mia eventuale smentita -, «scommetto che siete andati a donne.»
Fra noi non c'era mai stata confidenza, al riguardo. Un pudore feroce, un violento, irrazionale bisogno di libertà e di indipendenza, mi avevano sempre spinto a bloccare sul nascere tutti i suoi timidi tentativi di affrontare questi argomenti. Ma quella notte no. Lo guardavo, così bianco, così fragile, così vecchio, e intanto era come se qualcosa dentro di me, una specie di nodo, di annoso groppo segreto, venisse adagio sciogliendosi.
«Certo» dissi. «Hai proprio indovinato.»
«Sarete stati a casino, immagino.»
«Sì.»
«Ottimamente» approvò.
«Alla vostra età, alla tua soprattutto, i casini sono la soluzione più sana sotto qualsiasi punto di vista, compreso quello della salute. Ma di' un po': e coi soldi, come te la cavi? Ti basta la sabadina che pigli dalla mamma? Se i soldi non ti bastassero, chiedili pure a me. Nel limite del possibile, vedrò di aiutarti io.»
«Grazie.»
«Dove siete stati? Dalla Maria Ludargnani? Ai miei tempi c'era già lei, sulla breccia.»
«No. In un posto di via delle Volte.»
«L'unica cosa che ti raccomando» continuò, assumendo di colpo il linguaggio della professione medica che aveva esercitato soltanto in gioventù, per poi, alla morte del nonno, dedicarsi esclusivamente all'amministrazione della campagna di Masi Torello e dei due stabili che possedeva in via Vignatagliata, «l'unica cosa che ti raccomando è quella di non trascurare mai le necessarie misure profilattiche. È un fastidio, lo so, se ne farebbe volentieri a meno. Però basta niente per prendersi una brutta blenorragia, vulgo uno scolo, o peggio. E soprattutto: se la mattina, svegliandoti, ti capitasse di notare qualcosa che non va, vieni subito in bagno a farmi vedere. Nel caso, ti dirò io come devi regolarti.»
«Ho capito. Sta' tranquillo.»
...


Giorgio Bassani
Il giardino dei Finzi-Contini
 
storie di vita vissuta da nostro padre e dai nostri nonni :yes:
ciao takko :bye: :bye:
 
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