Della nostalgia

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bologna
tutto quanto segue questa riga è vero

Solo un uomo (parte prima)

Tutto è cominciato ieri sera.
Avevo finito da poco di cenare e stavo fumando seduto sul divano, con un vecchio cd sul compattino a basso volume e il caffè appena versato nella tazzina che spandeva un aroma invitante.
Ero stanco ma abbastanza sereno. Aspettavo una telefonata di mia moglie.
È durato meno di un giorno. Ma è stato puro delirio. E se ne sono uscito è solo grazie a Helena. Sono salvo solo per via di un caso fortunato e improbabile.
Ero sereno e rilassato. Più tardi avrebbe chiamato anche Paola, forse. È ancora un poco arrabbiata con me e qualche volta emerge il suo lato vendicativo.
Le passerà, pensavo ottativo girando il caffè con il cucchiaino.
E prima di mezzanotte sarei uscito. Solo un rapido giro per i viali, per non perdere di vista il movimento e tenermi informato sull'offerta. Senza fermarmi neppure a contrattare, certo. Giusto una perlustrazione.
Tanto, alle due sarebbe arrivata Helena, come spesso accade il giovedì notte, in questo periodo.
E rimane sempre fino a tardi. Qualche volta dorme da me.
Mi stavo stiracchiando soddisfatto. La vita è fatta anche di questi momenti di autocompiacimento minore. Di aspettativa debole.
Poi, è successo. Non me lo ricordavo quel passaggio.
Nel vecchio cd di mp3, dopo un brano di jazz, si caricò una ballata di Bert Yansch; Lord Franklin.
E il cuore mi è salito in gola.
La canzone non c'entrava niente con lei. Non l'avevamo neppure mai sentita insieme.
Ma con la musica mi era tornata in mente un'immagine.
Un'immagine e un odore.
L'immagine era quella del suo viso mentre si addormentava tra le mie braccia in un fredda notte d'inverno. A casa mia.
E l'odore era quello dei suoi capelli. Tra i quali avevo affondato il viso per la commozione di quell'attimo.
Era un momento difficile. La mattina dopo dovevamo andare insieme a fare le analisi. Ed eravamo molto tesi.
Io l'accusavo di avermi ingannato. Erano giorni interi che l'inseguivo e le sfuggivo.
Che mi chiamava perché voleva spiegarsi. A suo modo, almeno.
Lei neppure capiva la cifra dei miei discorsi, non ne riconosceva l'etica. Pareva totalmente disorientata dai miei ragionamenti.
Vabbé, sembrava rispondere con un sorriso nervoso quando l'accusavo di avermi mentito, che sarà mai? Tu non menti mai?
No, pensavo, io non ti ho mai mentito.
E sembrava che nel suo mondo delle idee, questo non fosse neppure un merito. Che nel suo ambito mentale, mentire fosse una delle tante cose che succedono e di cui non ci si deve proprio stupire.
Quanta saggezza, pensavo con il viso premuto contro la sua chioma. Una saggezza antica, una specie di rassegnazione da civiltà raffinata e decadente. Sul punto di estinguersi per l'arrivo di oscuri barbari. Noi.
Strani marziani che neppure capivano che non era per cattiveria se non voleva dire dove abitava adesso e con chi stava. Che comunque era trascurabile.
Possibile che non fosse chiaro che non importa cosa succede quando non siamo insieme?
Tanto stupidi da non capire che non spiegare era una specie di dimostrazione di affetto. Per preservarci dal dover testimoniare altre miserie.
Stanne fuori, cretino, diceva senza dirlo, alzando appena un sopracciglio.
Nella sua primitiva saggezza, sapeva che c'erano cose che era meglio non sapessi.
Aveva deciso lei quali. Perché era semplicemente suo diritto.
E, quindi, che cazzo vuoi? Sembrava rispondere con il suo solito sorriso teso, ogni volta che cercavo nei dettagli delle sue spiegazioni contraddizioni e vaghe conferme ai miei sospetti.
Io tradito? Ridacchiava con un'alzata stizzita delle spalle.
Lavoro, ammettevo io colpevole e confuso.
E tu, allora? Chiedevano i suoi occhi velati di tristezza.
Dici tu, obiettavo, che ognuno spende i suoi soldi come gli pare.
Appunto, stabiliva ferendomi.
Era stata una notte lunga.
Potevi aspettarmi, aveva mormorato prima di addormentarsi.
Certo, avevo ammesso dandole ragione.
Ma sapendo che aveva torto.
Mentre lei dormiva, ogni tanto le annusavo i capelli. Sapevano di aceto e di miele.
E adesso mi era tornato in mente. La parte più primitiva del mio pensiero invasa dal quel ricordo.
Mi manchi, pensai ieri sera, stravolto dalla nostalgia. Mi manchi da morire.
Non me ne ero mai accorto.
Ogni tanto mi venivi in mente. Di solito quando passo alla pasticceria di Porta Mazzini, dove ci siamo incontrati l'ultima volta, qualche giorno dopo quella notte.
Spensi la sigaretta pervaso da quel nuovo doloroso ricordo.
Come cazzo ho fatto a non accorgermene?
Sono mesi che la penso con straziante nostalgia senza saperlo.
Mesi che le immagini di lei stanno in agguato in ogni cosa che faccio.
Ed è bastato il ricordo di un odore a far riemergere tutto.
Non ho certo buona memoria, ma per un momento mi sembrò che il tempo vissuto insieme fosse distribuito su un piano. Tutto mi era tornato in mente con la stessa chiarezza. Ogni dettaglio.
Questo è un sintomo di schizofrenia, pensai emergendo da quell'attimo di folle prostazione, allo squillo del telefono di casa.
Mia moglie.
Che hai? Mi chiese subito intuitiva mentre balbettavo le solite affettuosità.
Le donne sono magiche.
Stanchezza, mi giustificai.
Totale, travolgente passione, dicevo tra me e me. Passione frustrata.
Oggetto d'amore perduto, depressione. Sono a pezzi. E non lo sapevo.
Perché non me ne sono mai accorto?
Quando avevamo smesso di vederci, mi sentivo quasi esaltato.
Era una prova superata. Cazzo di cane.
Quante volte capita nella vita di un punter di innamorarsi, riamato, di una puttana?
Riamato a suo modo, ovviamente.
Per me era la seconda volta, forse la terza. Ma questa era stata davvero tosta.
Interi pomeriggi a far l'amore guardandoci negli occhi. O fissando i suoi occhi chiusi scommettendo su come sarebbero stati quando li avrebbe aperti.
All'inizio non volevo crederci. Era praticamente una bambina, neanche vent'anni.
Le prime volte, mi guardava con aria di sfida quando le entravo.
Quel che faccio con te, lo faccio con tutti, diceva senza dirlo.
E poi, una volta, ci ritrovammo senza preservativi e lei annuì stendendosi.
Facciamo lo stesso, aveva mormorato.
E io, ok.
Sempre all'idiota ricerca di quell'estremo intrinseco nelle cose.
E dopo, abbracciati, sudati e stanchi, aveva detto che rimaneva.
E io non ero neppure tanto contento, il giorno dopo dovevo essere a lavorare presto.
Ma, intanto, lo avevamo fatto. Perché non un'altra volta?
Così, ancora abbracciati, ero tornato a baciarla e accarezzarla, fino a farla girare per penetrarla da dietro. Con quel poco di tenerezza che mi restava.
E lei aveva girato la testa e mi aveva fissato terrorizzata.
Che cazzo mi stai facendo? Diceva e non diceva trattenendo un piccolo ansito.
Per una volta senza cercare di venirle in gola o di romperle il culo. Di infilarglielo fino all'utero o di stringerle forte la testa per guidare la sua bocca.
Solo per una volta, questa volta, pensavo.
Cazzo mi fai? Chiedeva e non chiedeva fissandomi quasi terrorizzata mentre la stringevo in un abbraccio al quale sembrava quasi sul punto di volersi sottrarre.
Forse l'avevo presa impreparata.
E non aveva detto niente, neppure un gemito. Ma sentivo il suo piacere quasi fosse il mio.
Per settimane intere, dopo, lei venne da me poco volentieri.
Si stendeva sul letto e apriva le gambe in un invito che voleva ristabilire i ruoli.
E mi sorrideva sardonica.
Non me la fai, diceva e non diceva. È successo una volta, ma non succederà mai più.
Io, da vero imbecille, cercavo ancora l'estremo.
E rivendicavo oscuri diritti.
Potevi aspettarmi, diceva già allora.
Erano le quattro spiegavo cercando di penetrarla più forte che potevo.
Potevi aspettarmi, insisteva.
Io pago, obiettavo, e non aspetto.
Bravo, rideva lei, tu sai come si trattano le donne. Ti sei divertito almeno?
Non era lavoro, cercavo di sferzarla.
Perché mi sentivo in qualche modo ferito.
Era umiliante delle volte farsi mettere in buca da una puttana romena di neppure vent'anni.
Sono donna e ho un figlio, diceva seria, ci sono cose che tu non capirai mai.
Ho cinquant'anni e sono uomo, ribattevo, ci sono cose che tu non capirai mai.
Dammi tempo, inveiva, e le capirò. Siete tanto facili voi uomini.
Con lei non scopavo, esercitavo un latente rapporto di forza.
In cui finivo sempre per sentirmi in qualche modo ferito.
Avvertivo la sua superiorità. Il suo sentirsi comunque migliore. Ero io quello che pagava.
Finita la telefonata con mia moglie, ieri sera mi misi al computer innervosito a trovare tracce della sua presenza nel forum.
Quella stronza si era sputtanata e non sarebbe mai tornata.
Dio, quanto mi mancava.
Mi rollai un paio di canne nel tentativo di calmarmi.
Forse Paola avrebbe chiamato. Erano ormai le dieci passate ma spesso mi telefonava anche dopo le undici. Un'amante, col tempo, diventa quasi una moglie surrogatoria. Non si soffre più per i suoi capricci. E per le sue ragioni.
Nonostante mi fossi ripromesso di non farlo, chiamai tutti i numeri che nel tempo mi aveva lasciato la ragazza. Ma erano tutti ormai disattivati.
Forse è in Spagna, pensai, come mi aveva detto una sua conoscente, o chissà.
Ma non tornerà qui a Bologna.
Me l'aveva detto una sera per telefono, prima di partire.
E non credo proprio cambierà idea.
Sicuramente è stata anche un po' colpa mia.
Ha dovuto cambiare aria. Troppo sputtanata.
Forse non avrei dovuto inutilmente indagare tra le sue amiche, ma allora ero totalmente fuori di testa.
Dovevo sapere se, come sospettavo, faceva scoperto anche con altri.
E, purtroppo, i miei sospetti erano fondati. Secondo i miei pochi conoscenti nel giro e le sue amiche, almeno. Amiche si fa per dire.
Anche se lei negava, le testimonianze erano troppe e troppo ben circostanziate.
Non mi importava tanto che lo facesse. Importava che mi avesse mentito. Che mi avesse spergiurato che lo faceva solo con me. E che mi avesse ingannato, facendo rischiare anche me.
Che cazzate che sto dicendo! Certo che mi importava. Mi importava che rischiasse di ammalarsi. Che finisse male.
Perché, alla fine di quel lungo periodo di inseguimenti e sfide affilate, lei aveva deciso che doveva insegnarmi. Prese in mano la situazione.
Ok, così non andiamo da nessuna parte. Lascia fare a me.
Non mi voleva insegnare a fare l'amore. In quello riconosceva che ne sapevo più di lei. Mi voleva insegnare a fare l'amore con lei.
Vuoi davvero farmelo piacere? Chiedeva e non chiedeva. Allora smettila.
Niente bocca, niente culo. Fai come ti dico.
Lo diceva senza dirlo.
Per una volta, sorrideva imbarazzata, proverai piacere nel darmi piacere. Se è quello che vuoi.
Basta bocca, basta spingere tanto. Basta culo.
Quel culo stretto che, a quanto si diceva, non dava a nessuno.
Vienimi dentro e stammi dentro. Piano, non muoverti. Stammi dentro e baciamoci appena.
Lo diceva e non lo diceva.
Mi guidava come si guida un cane. Premiandolo quando fa bene.
Interi pomeriggi allacciati stretti sfiorandoci appena le labbra.
Al lavoro si chiedevano tutti come mai ci andassi tanto poco. Io eludevo, spiegando che ormai eravamo quasi a natale.
Pomeriggio interi. E delle volte anche di notte. Il mio cazzo teso dentro la sua passerina.
I movimenti erano graditi solo se minimali e lenti, mai un gemito, mai un ansito.
Solo gli occhi che si spalancavano ogni tanto per la sorpresa di provare piacere.
Per il resto, li teneva chiusi.
Il piacere come abbandono assoluto.
Una cosa che so ma che faccio fatica a praticare per frenesia.
Forse è vero che gli uomini sono tanto semplici.
Mentre ci pensavo, ieri sera, spensi il computer e fumai le due canne di fila, senza alcun piacere.
Ormai Paola non avrebbe chiamato. 'Fanculo anche ai suoi capricci e alle sue ragioni.
Ero tanto stravolto, che il tempo scorreva velocissimo. Mi scappava di tra le mani.
E non avevo nessuna voglia di uscire e fare il giro perlustrativo.
Alla fine, non mi andava neppure di incontrare Helena.
Avrei voluto solo che lei fosse stata lì.
Anche solo per vedere il suo sorriso sardonico di quando stava elaborando un'evidente menzogna.
O il taglio malandrino dei suoi occhi.
Dio, quanto mi mancava! Come avevo potuto non accorgermente in tutti questi mesi?
Non avevo più fumo, per cui mi stappai nervosamente una birra e mi rollai un paio di sigarette col tabacco.
Chiamai la sua amica Giannina, anche se sapevo che mi avrebbe fatto male.
Ovviamente non rispondeva, come faceva anche lei quasi sempre.
Forse era con un cliente. O forse non voleva parlare con me.
Entrambe le ipotesi mi lasciavano del tutto indifferente.
Perché stavo chiamando Giannina, certo.
Quando chiamavo lei e non rispondeva, mi incazzavo da matti.
Almeno, appena ti liberi, fammi uno squillo, pensavo.
Ma lei no.
Magari chiamava dopo due giorni. E non aveva spiegazioni da dare.
Non mi importava se aveva lavorato. Cazzo di cane, sei una puttana. Scopi per vivere, non me ne frega niente.
Potevi aspettarmi, diceva e non diceva.
Erano le quattro passate, obiettavo.
Avevo ragione, era evidente. Come cazzo facevo ad aspettarla, se neppure mi chiamava?
Provavo e riprovavo a telefonarle, poi uscivo e scopavo la prima che beccavo.
Spesso, insoddisfatto, tornando a casa ne cercavo un'altra.
Ti sei divertito, almeno?
Non era lavoro, rispondevo nel tentativo di ferirla.
Tanto, anche se non ce l'eravamo mai detto, lei lo sapeva che volevo bene solo a lei. Era solo scocciata che spendessi i miei soldi con altre.
E io ingelosito dall'idea che anche con altri facesse quello che faceva con me.
No, sorrideva fissandomi sardonica, solo con te. Fai piano, non ti muovere, baciamoci appena.
Troia, bugiarda, adesso te lo metto nel culo.
Allora non mi ero ancora rassegnato a lasciarla fare. Volevo comandare.
Ok, annuiva sarcastica, tu sai come trattare le donne.
Ti sborro nel culo, puttana.
Siete tanto semplici, voi uomini.
Non potevo farmi umiliare da una prostituta romena di neppure vent'anni.
Come faceva a sentirsi tanto superiore?
Vieni qui, ingoia.
Ci sai fare con le donne, mormorava scatarrando e sputando quello che non aveva bevuto.
Non scopavamo, esercitavamo un evidente rapporto di forza.
Devo dormire, adesso.
Non lo farò mai più, sono uno stronzo. Perdonami.
Lascia stare, è il mio mestiere.
Con me, singultavo offeso, non è mestiere.
Davvero? Sorrideva enigmatica.
È colpa mia, perdonami.
Adesso devo dormire.
Ok, mi rassegnavo.
Ma poi, durante la notte, si svegliava.
La sentivo prepararsi un tè e fumare in soggiorno.
Troppo stanco per alzarmi e farle compagnia, la pensavo nel dormiveglia con un fitta di dolore da possesso mancato.
Fino a quando non tornava a coricarsi e mi abbracciava stretto.
Piano, non muoverti, voglio sentirti.
Immobile, seduta sul mio bacino. Mentre mi stringeva il petto, si mordeva le labbra fissandomi.
Quando mi piace, mormorava, devo chiudere gli occhi.
Sapeva che il suo sguardo mi piaceva immensamente.
Le dispiaceva dispiacermi.
Mai un ansito, mai un gemito.
Ogni tanto spalancava gli occhi per la sorpresa di provare piacere.
E mi sorrideva misteriosa.
Una puttana romena di neppure vent'anni.
La mattina scappavo da casa mia come un clandestino, in silenzio. Lasciavo dolorosamente il letto caldo, inconsapevole del futuro.
Lavoravo, mangiavo, scherzavo con gli amici.
Potevi aspettarmi, diceva e non diceva al telefono quando si alzava verso le due.
Ma ieri notte ti ho aspettata, obiettavo.
Questa mattina te ne sei andato, osservava evidente.
Avevo ragione, certo, tutto mi dava ragione. Ma capivo la sua illogica ragione.
Quando tornavo la sera, trovavo i suoi resti.
Le impronte ancora umide dei suoi piedi sul pavimento del bagno, di fianco alla doccia. Tazze sporche e cicche nei posacenere.
Non mangiava mai. Come cazzo faceva a tenersi su?
Neppure io mangiavo molto in quel periodo. Ero troppo preso.
Giusto, mangiare. Pensai questa notte.
Nonostante non avessi fame, andai a prepararmi un tè con i biscotti. Mi sarebbero venuti su fino a domattina, ma chissenefrega.
Chiamai Helena e la pregai di non venire.
Lei disse ok, ma sembrava un po' irritata.
Del resto, con me finiva la nottata senza troppi problemi. Sa come prendermi e sa cosa mi piace.
Meglio passare due ore a giocare sul letto per cento euro che sbattersi a fare tre pompini in macchina in strada per la stessa cifra, pensavo cinicamente.
Nonostante questo, riflettevo, devo ammettere che anche lei, a suo modo, mi ricambia. Con la differenza che, anche se le riconosco, le sue cifre non m'incantano. Non mi fanno soffrire.
Forse, non si ama senza soffrire, senza avvertirsi mancanti in qualcosa.
Non ti muovere, fammi sentire.
Questa volta ti ho aspettata.
Ti eri addormentato, obiettava ridacchiando.
Non mi ero ancora del tutto rassegnato, allora.
Siete tanto facili, voi uomini.
Non mi andava di prendere lezioni da una puttana romena di neanche vent'anni.
Adesso te lo ficco in gola fino alle palle.
Certo, capo.
Mi guardava torva elaborando oscuramente il modo migliore per farmela pagare.
Non si sottraeva a nessuna delle mie richieste.
Si tirava via dal mio grembo, con il pube glabro ancora umido e si inginocchiava per terra, per facilitarmi le cose.
Fino alle palle, borbottavo stringendole forte la testa.
Serrava gli occhi per lo sforzo di tenermi dentro. E ogni tanto tratteneva un conato.
Tutta dentro, decidevo.
E lei ingoiava tossendo.
Poi, si tirava via con uno scatto che tradiva il nervosismo.
Certo, sorrideva storta, che sai come prenderle le donne.
Scusami, sono uno stronzo, imploravo contrito.
Siete tanto facili, diceva e non diceva il taglio triste dei suoi occhi neri quasi orientali.
Adesso dormiamo, proponevo cercando di abbracciarla.
Travolto non ancora dai sensi di colpa, ma dalla certezza di commettere continuamente errori, per mancanza di comprensione.
Si lasciava avvolgere dai miei arti, ma non si lasciava andare.
Meditava, forse, su come mi avrebbe ferito alla prima occasione.
Ma dopo, passato il livore, si addormentava apparentemente serena.
Un sonno lieve e passeggero, che non durava.
Prima, mi fissava un po' con aria stanca e mi allungava le labbra.
Mi piace come baci, diceva e non diceva strusciando il seno sul mio petto.
Così, quando si svegliava con una piccola scossa, la baciavo di nuovo, con la bocca impastata e l'affare ancora duro e impaziente.
La giravo e, con la poca tenerezza che mi era rimasta, la penetravo piano.
E lei torceva il collo, torceva sempre il collo quando le entravo da dietro, e mi guardava terrorizzata.
Ma che cazzo stai facendo? Diceva.
Diceva e non diceva.
È successo una volta, e solo perché mi hai presa impreparata. Ma non puoi decidere sempre tu.
Si tirava via e si metteva supina. E allargava le gambe, ripristinando la correttezza dei ruoli.
Non hai voluto fare come dicevo, diceva e non diceva il suo sorriso sardonico, allora non andremo da nessuna parte.
La fottevo, la fottevo, la fottevo.
E lei neppure un ansito, mai un gemito.
Gli occhi sempre spalancati a controllare e giudicare.
Siete tanto facili, voi uomini.
Troia, puttana, stronza, inveivo con frustrazione incontrollabile liberandomi della tensione dentro di lei.
Non prima di averla messa a pecora e dopo averle inumidito il buchino dietro.
Quello che faccio con te, diceva e non diceva stringendo forte le lenzuola tra le dita contratte per il dolore, lo faccio con tutti.
A parte il preservativo, mi auguravo cercando inutilmente di ingannarmi.
Profilattico a parte, annuiva con l'aria sardonica di quando stava mentendo forte.
Dio, quanto la odiavo.
Si sentiva che si sentiva superiore.
Quanto mi sei mancata! Come ho fatto a non accorgermene in tutti questi mesi?
Perché, anche se lei mi insegnava - sta fermo, non muoverti - io ero un allievo indisciplinato, sempre preso a strolicare, stravolto da ansie di capire.
Quello che non si poteva capire.
Troia, inveivo alla fine di quegli interminabili pomeriggi passati a guardarci fissi negli occhi e baciarci appena, il mio affare sempre dentro la sua passerina stretta.
Facendo questo mestiere, si vantava, scopo tutto il giorno. Ma sono elastica.
Elastica 'sto cazzo! Ruminavo spingendo più che potevo. Adesso te la rompo.
Ma lei, quando cominciavo con la mia ossessione, sorrideva superiore.
Quello che faccio con te, diceva e non diceva, lo faccio con tutti.
Uscivo da davanti e le entravo dietro senza neppure bagnarla.
Troia, inveivo stringendole il collo.
Il cazzo nel suo culo fino alle palle e i suoi piedi sul petto che cercavano di spingermi via.
Stringeva le lenzuola con le dita adunche e quando si sentiva soffocare tirava fuori la lingua.
Quello che faccio con te, lo faccio con tutti. Basta che pagano.
Questo no, mormoravo.
Anche questo, sussurrava impietosa, basta che pagano.
Questo no, insistevo straziato da una gelosia genetica e inconsapevole.
Questo no, ammetteva tossendo ormai quasi cianotica.
Mi tiravo via e mi rannnicchiavo in un angolo del letto, ancora inconcluso e sporco di merda, mentre lei ansimava per lo sforzo di riprendere a respirare.
Mai un ansito, mai un singhiozzo, mai un lamento.
Solo quegli occhi spalancati di stupore, ogni tanto. Quando dettava lei i tempi del fare l'amore.
Mi hai ingannato, le sussurravo amaro negli ultimi giorni. Ormai rassegnato a lasciarle comandare quel gioco.
Mi permetteva di starle sopra. Sempre senza muovermi.
Ad occhi chiusi, ogni tanto tirava un respiro forte.
Poi li spalancava.
Ogni volta scommettevo su come sarebbero stati.
Spaventati per il piacere, terrorizzati per un orgasmo ormai prossimo, sardonici e impietosi.
Perdevo sempre.
Io ingannato? Obiettava, e tu allora?
Io non ti ho mai mentito.
Sapevo di avere ragione.
Lei alzava le spalle.
Hai scopato con altri senza, l'accusavo.
Solo con te, mentiva.
La mail del mio amico, insistevo.
Io quello non lo conosco.
Ma lui sì.
Solo con te, perorava cocciutamente stringendomi in un abbraccio straziante.
Sapevo di avere ragione. Ma capivo le sue ragioni.
Dovevi aspettarmi, dichiarava in modo del tutto incoerente, quasi rituale.
Erano le quattro passate, rispondevo come fossero le battute di una commedia non ancora mandata del tutto a memoria.
Ti sei divertito, almeno?
Non era lavoro.
Così, lei taceva. E mi faceva tacere.
Dio, pensavo questa notte prostrato sul divano. Sono quasi le quattro e mi sei mancata da matti. Come ho potuto non accorgermene in tutti questi mesi?
Il tempo fluiva svelto come pioggia sul cemento. E faceva lo stesso rumore inutile.
Ma quella sera, la sera in cui si addormentò tra le mie braccia e annusai i suoi capelli conservandone un ricordo indelebile. Quella sera, eravamo tesi da matti.
Erano settimane che la terrorizzavo spiegandole che, con quello che era successo, potevamo entrambi essere sieropositivi. E che lei aveva anche più probabilità di me. Sempre che i miei sospetti e quanto avevo appreso indagando fosse vero.
E tutto lasciava intendere che lo fosse.
E la mattina dopo avevamo un appuntamento alle sette in ambulatorio.
Si addormentò con uno dei suoi lunghi sospiri da ragazzina esausta.
Dopo che le avevo chiesto se voleva fare l'amore. E lei aveva risposto che era troppo nervosa. Che domani, dopo la risposta degli esami. Dopopranzo.
Ok, mi ero arreso.
E lei mi aveva abbracciato stretto, si era scavata un posto tra il mio fianco e il materasso e si era addormentata.
E io, sedato dalla sua provvisoria serenità, l'avevo imitata.
Ma solo mezz'ora dopo, lei si era svegliata. Aveva fatto una specie di piccolo scatto.
E mi ero svegliato anch'io.
Ero troppo imbambolato per fare la scommessa di come sarebbe stato il suo sguardo.
Ma quando aprì gli occhi, erano tristi.
Tu mi ami, aveva mormorato.
Non era una domanda, era l'evidenza di una constatazione.
Aveva ragione, anche se non lo sapevo.
Non avevamo mai parlato d'amore. Questa era una novità. Fino a quel momento, l'amore era fare l'amore.
E io, che avevo crudelmente aspettato quell'occasione di rivalsa da mesi, avevo scosso il capo in un muto diniego.
Tu mi ami! Aveva esclamato indignata. Sicura di avere ragione.
Ma io continuavo a negare. Che senso aveva dirselo?
Che senso aveva chiederselo?
Tu mi ami, tu mi ami, tu mi ami, insisteva irritata cominciando a colpirmi il viso e le spalle.
Cercavo di difendermi tenendole le mani.
Tu mi ami, singhiozzava con le guance rigate dalle lacrime, quando l'ebbi imprigionata.
Lo sguardo ancora una volta terrorizzato e un falso sorriso frustrato.
Dimmi che mi ami, figlio di puttana, implorava con il petto scosso dai singhiozzi, per una volta dimmi la verità. Bastardo! E poi sarei io quella che mente!
Mi spiace, mormoravo ipocrita, colpevole e sempre più disorientato.
Tu mi ami, piagnucolò ancora rassegnata.
Mi dispiace, risposi perfidamente.
La ragazza si girò a darmi le spalle, continuando a lacrimare in silenzio.
Tu mi ami, diceva piano ogni tanto.
E tu? Trovai in coraggio di chiedere.
Taceva piangendo, le spalle frementi per il disappunto.
Quello che faccio con te, diceva e non diceva, lo faccio con tutti.
Basta che pagano, pensai sgrammaticando, basta che pagano.
Sapevo di avere torto. Ma delle volte si preferisce l'errore.
Io, mormorò a un certo punto, si sa.
Si sa 'sto cazzo! Inveii, troia, puttana e stronza. Non hai fatto altro che ingannarmi. Mi hai mentito.
Lei scuoteva le spalle inconsapevole.
E allora? Sembrava dire torcendo il collo. Che differenza farà mai?
Il suo sguardo malandrino era irresistibile, nonostante le palpebre gonfie per il pianto e le guance umide e arrossate.
E tu? Chiese invece.
Io non ti ho mai mentito, borbottai sicuro di avere ragione.
Ma quella spiegazione sembrava senza senso.
Che importa mentire? È una delle tante cose che succedono, perché preoccuparsi?
Tu mi ami, sorrise speranzosa girandosi ad abbracciarmi.
Mi dispiace, tenni duro.
Mi guardava incerta se la stessi prendendo in giro o parlassi sul serio.
Non poteva accettare nessuna delle due ipotesi. Come potevo non amarla?
Non ne avevamo mai parlato, ma era evidente che l'unica idea che potesse accettare era che io l'amavo. Era semplicemente nelle cose.
Lei sapeva di avere ragione.
Tu mi ami, sussurrò titubante.
La fissavo senza rispondere. La cosa si stava facendo seria.
Che importanza aveva dirselo?
Sentivo che stavo commettendo un altro errore. Qualsiasi cosa avessi fatto sarebbe stato un errore.
Dobbiamo dormire, le ricordai.
E lei annuì seria, forse capendo che qualcosa era finito.
Mi strinse con un affetto che non conoscevo. Forse l'affetto della nostalgia preventiva di chi sta per lasciarsi.
Dormiamo, aveva acconsentito.
E io l'avevo guardata di nuovo rilassare i muscoli del viso e respirare piano.
E quando fui sicuro che stava dormendo, immersi ancora una volta il viso nei suoi capelli.
Sapevano di aceto e di miele. Un sapore antico, un sapore saggio.
Indimenticabile.
Era ormai quasi l'alba, questa notte, ed ero ancora prostrato da tutti quei ricordi e dall'amaro che mi lasciavano in gola. Frenetico per il desiderio di fare qualcosa e frustrato dall'inutilità di intraprendere qualsiasi iniziativa.
Quanto mi sei mancata, cazzo di cane, come ho fatto a non accorgermene in tutti questi mesi?
Era quasi l'alba e la mia ansia peggiorava. Forse avrei dovuto dormire.
Ma come potevo dormire con il ricordo del suo viso impresso nella memoria e il retrogusto amaro dell'odore dei suoi capelli nel naso?
Forse non sarei mai più riuscito a dormire.
Che senso ha dormire?
Il tempo è fatto per esserci, non per essere assenti.
E, senza di lei, questo tempo perde senso. Questo tempo è solo assenza.
Stavo da cani.
Verso le sei, preso dallo sconforto, cancellai in modo permanente tutti i suoi numeri dalla memoria del mio cellulare. Deliravo, lo so.
Poi mi ricordai che era anche nei contatti della mia posta elettronica.
Cancellai anche quelli.
Dovevi aspettarmi, rispondeva sempre cercando di sviare le mie domande.
Io ribadivo i miei dubbi, sapendo di avere sacrosanta ragione.
Ancora non sapevo che, di lì a qualche giorno, avrei dovuto aspettarla per sempre.
Mi sei mancata da matti, pensavo cancellando anche le sue foto dalla memoria del cellulare e da tutte le cartelle del computer.
E ti aspetterò per il resto della mia vita.
Obbedendo alla frenesia di quell'ossessione iconoclasta, cercai la molla per i capelli e il nastro che si era dimenticata a casa mia e li bruciai nel posacenere.
Facevano una certa puzza e una fiamma azzurra.
Probabilmente sprigionavano gas velenosi, che mi avrebbero definitivamente intossicato.
Poi mi ricordai del vaso di ciclamini che mi aveva regalato in dicembre. Erano bianchi e avevo detto a mia moglie di averli comprati in un negozio in centro. Che mi sembravano molto belli. Tra l'altro era vero.
Sradicai la piantina e la gettai nella pattumiera. La terra che era rimasta la buttai un po' alla volta nel water, e la dispersi tirando l'acqua.
Poi ruppi in tanti prezzi il vaso di terracotta.
Con quello, mi sembrava di essermi liberato di tutto quanto era stato suo.
Tranne me.
Quel giorno, dopo le analisi, non andai a lavorare, presi un giorno di ferie. Ero troppo teso.
Lei sosteneva di avere un gran mal di testa e voleva dormire, così l'accompagnai a casa sua. Da me non si poteva, doveva venire la donna delle pulizie.
Verso le quattro del pomeriggio, parecchio agitato per la tensione a la paura, andai a prelevare i referti. Aprii il mio. Negativo, certificava.
La chiamai.
Ovviamente, non rispondeva.
Con qualche titubanza, aprii anche il suo. Miracolosamente negativo a tutti i test.
La richiamai.
Possibile che non fosse curiosa di sapere se era malata?
Presi la macchina e andai verso casa sua. Per qualche settimana mi aveva tenuto nascosto che aveva cambiato appartamento. Lo sapevo lo stesso, ma ero furioso per quella menzogna per omissione.
Finalmente rispose.
Allora? Chiese con una punta di ansia.
Stavi lavorando, prima? Elusi.
Stavo dormendo, rispose evasiva, ho un terribile mal di testa.
Negativo, la tranquillizzai, scendi che te le do. Poi me ne vado.
Sembrava incerta.
Avevamo detto..., borbottò.
Lo so cosa avevamo detto, risposi, ma è tardi, tu hai già scopato non so quanti clienti e non mi va.
Stavo dormendo! Protestò alterandosi.
Me ne frega un cazzo, dichiarai sinceramente esasperato, scendi che ti do le analisi.
Fottiti tu e le tue analisi! Urlò chiudendo il telefono.


continua
tutto quanto precede questa riga è falso
 
tutto quanto segue questa riga è vero

Solo un uomo (parte seconda)


Adesso mi richiama, avevo deciso poggiando il cellulare sul sedile della macchina.
Adesso mi richiama, mi ripetei più volte, incredulo che il telefono non squillasse.
Ma dopo una ventina di minuti capii che non l'avrebbe fatto.
Infilai la busta con le sue analisi nella cassetta delle lettere di casa sua e tornai alla mia auto.
Non sapevo cosa stesse accadendo. E non me ne importava niente.
Mi sentivo solo sollevato per l'esito della analisi, anche se avrei dovuto ripeterle a distanza di qualche mese. E spossato per la tensione di quelle ultime settimane. Tensione finalmente allentata.
Si fotta anche 'sta stronza.
Una puttana romena di neppure vent'anni. Che cerca di tenermi testa.
Si fotta.
Mi chiamò proprio mentre stavo per accendere la macchina.
Sei ancora sotto, constatò.
Come lo sai? Chiesi.
Ti vedo dalla mia finestra, ridacchiò.
Sto per andare via.
Aspettami.
Sono stanco di aspettare.
Giusto, fece mogia, tu paghi e non aspetti.
Facciamola finita.
Aspettami, scendo subito.
Ok, accettai.
Ci mise un attimo.
Scivolò dentro la mia macchina in tuta e ciabatte. Una giacca a vento sopra, per mitigare il freddo. Ma forse non era abbastanza.
Il taglio malandrino dei suoi occhi mi faceva sempre sussultare, anche se sembrava stremata e particolarmente nervosa. Le guance ancora gonfie per il sonno e gli occhi arrossati come se avesse appena finito di piangere.
Tu mi ami, esordì evidente tremando per il freddo.
No, mi sottrassi a quel tormento.
Sapevo che qualsiasi cosa avessi risposto avrei commesso un errore.
Idiota, mormorò con una smorfia contrita, non voglio che mi sposi. Voglio solo che sei sincero.
Tu mi ami? Controchiesi.
Io si sa, ripeté accennando appena la su aria birichina.
Mi dispiace, confermai.
Ok, accettò rassegnata la mia versione, ci vediamo domani?
Aveva preso un'espressione dura e superiore.
No, precisai, lunedì, se puoi.
Ok, sospirò apparentemente contrariata dalla previsione di quei tempi lunghi.
Scese e si accese una sigaretta aspettando che facessi manovra.
Idiota, mi dicevo, fermati, falla risalire e baciala.
Ma l'orgoglio è una gran brutta bestia.
Pensavo di avere ancora tanto tempo per rimediare alla stronzata che stavo facendo.
Mi fece segno di abbassare il finestrino e mise dentro la testa.
Tu mi ami, dai, fece prendendo la sua irresistibile aria accattivante.
Ok, sorrisi irretito, ok. Ti amo.
Grazie, mormorò tirandosi indietro con un piccolo sospiro.
Ma i suoi occhi tradivano un'ansia imprescindibile. Una specie di terrore di sottofondo. Inspiegabile, per me.
Dio, quanto mi sei mancata! E pensare che per mesi non me ne sono accorto.
Erano ormai le sette passate, questa mattina, non avevo dormito e alle otto avrei dovuto essere al lavoro.
Mi sentivo inutile e affranto. Forse sarebbe stato meglio fare venire l'Helena, provare a dimenticare.
Ma che cazzo stavo dicendo?
Da mesi e mesi non stavo cercando di dimenticare ma di riconoscere.
È vero che andavo meno a puttane, ma quasi tutte le puttane che sceglievo avevano qualcosa che le poteva somigliare. Il sorriso, il taglio degli occhi, la curva delle anche. Qualsiasi cosa, anche marginale. Il come sospirava quando era incerta, la mossa elegante delle sue spalle quando si alzava dal letto. La grana fine della sua pelle sulle guance e sul collo.
Il sorriso, soprattutto il sorriso. Quel modo sghembo e laterale di muovere le labbra quando stava per mentire.
Ed Helena era del tutto diversa. Non era adatta a riconoscere, solo a dimenticare.
Troppo allegra e spensierata, troppo figa.
Dio, quanto mi sei mancata!
Due sere dopo quella specie di confessione d'amore estorta, che somigliava tanto ai prodromi di un addio, mi chiamò Mariana.
Che cazzo stai combinando con la tua amica?
Niente, perché?
Il suo uomo l'ha menata per colpa tua.
Colpa mia? Risposi terrorizzato, io non sapevo neppure che avesse un uomo.
L'uomo, dai, faceva lei evidente, quello che paga.
'Fanculo, sbraitai, non ne sapevo niente.
Mariana taceva capendo forse di aver fatto una cazzata a parlarmene.
E perché, chiesi, l'avrebbe menata per colpa mia?
Mi aveva detto di aver avuto un protettore l'anno prima, ma di essersene liberata da tempo. Che ogni tanto veniva a Bologna per chiederle di tornare a lavorare per lui, ma che lei lo teneva sotto controllo.
Non sapevo più cosa pensare.
Con tutte le domande che hai fatto in giro, spiegò titubante Mariana, si è sparsa la voce che fa tutto senza e quando lui l'ha saputo, l'ha picchiata.
Ma che cazzo vuol dire? Mi inalberai, tu stessa mi hai detto che lei faceva senza. Tutti lo sapevano. Tutti lo dicevano, anche prima che io chiedessi.
Io, fece retromarcia, ho detto che forse lo faceva. Non posso esserne sicura.
Non dire stronzate! Inveii esasperato, quando ne abbiamo parlato sia tu che Viviana mi avete detto che sicuramente lei scopava senza, chiedendo di più.
Non alzare la voce con me! Mi rimproverò isterica.
Io alzo la voce quando mi pare, stronza! Io avevo solo chiesto e voi eravate sicure. E non solo voi. Adesso non cambiare le carte in tavola.
Mariana interruppe la conversazione.
Ma in che casino mi ero messo?
Un uomo? Un uomo che la mena perché si dice che fa senza. Quindi, sicuramente, incazzato perché fa senza con altri, oltre che con lui. Non me ne intendo, ma i fidanzati delle ragazze probabilmente vietano loro di fare bareback, per paura di contagiarsi. O le incoraggiano, nel caso siano solo i loro papponi.
Ero del tutto prostrato.
O forse, si è incazzato perché se si sparge la voce una si sputtana e lavora meno. Oppure lavora solo con quelli che fanno senza. E così rischia di ammalarsi.
E nessuno vuole perdere la gallina dalle uova d'oro.
Provai a chiamarla, ma tutti i suoi telefoni erano spenti.
Sicuramente stava con qualche cliente. A me avrebbe detto che stava dormendo oppure che aveva mal di testa o altre cazzate del genere.
Ma chi se ne frega, dico io. È il tuo mestiere, non c'è bisogno che menti.
Potevi aspettarmi, avrebbe obiettato in modo del tutto incoerente.
Richiamai Mariana.
Scusa, mi scusai.
La ragazza singhiozzava al telefono.
Avevo voluto bene anche a lei e con una certa reciprocità. Ma era passato molto tempo, da allora.
Stanne fuori, mi consigliò, è un casino. Se ti fai vedere ancora il giro, la mena di nuovo. Cerca di capirmi, il problema non è se una fa senza o no, tutte lo facciamo qualche volta. Il problema è che non si deve dire, che non si sparge la voce. Tu, facendo tutte quelle domande tra le sue amiche, hai fatto parlare di lei. E il suo uomo lo è venuto a sapere.
Chi cazzo sarebbe il suo uomo? Mi inalberai di nuovo.
Non il suo ragazzo arabo, fece lei ingenua, è un serbo, io non lo conosco.
Il suo ragazzo arabo? Non mi aveva mai detto di avere un ragazzo arabo.
Un pappone serbo?
Senti, mormorai confuso, forse dobbiamo parlarne. Vediamoci alla pasticceria questa sera.
Ok, accettò, sono lì al lavoro verso mezzanotte.
Ero totalmente affranto. Un ragazzo arabo, un pappone serbo. E chissà quanti altri.
Quel che è sicuro, pensavo, è che non ti entrerò mai più da nessuna parte, senza prima infilarmi un preservativo.
Ancora non avevo capito che non sarei più entrato da nessuna parte di lei.
'Fanculo, ridacchiavo mascherando la delusione, e pretendevi persino che ti amassi.
Avevo ragione quando ti davo della troia, della puttana e della stronza. E te lo ficcavo in culo fino alle palle.
Quel culo tanto stretto che, si diceva, non davi a nessuno.
Altroché fai piano, fammi sentire, sfiorami solo le labbra.
Chiamai subito anche Viviana.
Che stronzo che sei, mi salutò con la solita educazione.
Stronzo io? Inveii, ho passato un mese intero a tormentarmi per il terrore di poter essere ammalato. E io sarei stronzo? Lei è una gran stronza.
Lei ti ama, mormorò quasi colpevole, è un mese e passa che non lavora per stare con te.
See, fischiai incredulo, e come vive?
Con quello che le dai tu, precisò.
Praticamente, dichiari sinceramente, non la pago.
Appunto, fece evidente, quindi ti ama.
See, ridacchiari, e il suo ragazzo arabo, anche, il suo pappone serbo e chissà chi altri. Magari nei prossimi giorni scopro che quel che fa con me lo fa con tutti.
Chi ti ha detto 'ste stronzate?
Mariana.
Non fidarti di quella troia, mormorò, non sa niente di niente. Il suo ragazzo è pakistano e il suo ex pappone è un romeno zingaro.
Quella troia? M'incazzai, ma se è la tua migliore amica. Lavorate sempre insieme e quando vi prendo in due vi baciate e vi leccate la figa come due lesbiche innamorate. E uso un solo preservativo!
Ti dico che non ne sa un cazzo.
Comincio ad arrabbiarmi, annunciai sinceramente.
Nani, ribatté, tu non stai capendo un cazzo. Una come lei, sempre minacciata da un ex magnaccia, deve avere uno, un fidanzato, che la protegge. Lo vuoi fare tu? Te la senti di picchiarti per strada con uno zingaro armato di coltello?
Certo che no, riposi con una punta di inquietudine.
Si fa scopare, fece seria, dal suo ragazzo pakistano in cambio di protezione. È meglio così che avere un magnaccia, lui non le porta via i soldi. Credimi, so come funziona.
Ok, ammisi la mia ignoranza, non voglio indagare.
Ma ama te, aggiunse.
Forse sapendo di farmi del male.
Mi hai detto che faceva senza, mormorai.
Ho detto che si diceva che lo faceva, precisò cauta.
Siete due troie, m'accalorai, tu e la tua amica. Dopo che mi avete detto che faceva scoperto con tutti, ero disperato e ho chiesto anche a tutte le altre.
Bravo scemo, mi dileggiò, e comunque io ho detto che si diceva. Quel che ti ha risposto Mariana non me lo ricordo.
Stasera ci vediamo.
Con lei?
No, con Mariana.
Ok, prese atto con aria vagamente offesa.
Vieni anche tu, proposi, alla pasticceria, verso mezzanotte.
Ho un cliente a quell'ora, mentì.
Ok, mi rassegnai.
Ero tanto sconvolto che ormai non mi interessava più niente.
E comunque, aggiunse viperina, io con quella troia non ci lavoro più, chiaro?
Sono cazzi vostri, decisi, a me interessa solo lei.
Tu non capisci, sospirò.
No, ammisi.
Sono mesi, mormorò, che stanno cercando di rovinarla.
E perché? Chiesi senza entusiasmo, chi?
Tutti, fece lei evidente, quando è arrivata in agosto tutti la volevano e le sue amiche erano invidiose. Hanno cominciato a sparlare. Quelli degli annunci l'hanno aiutata a farsi un nome, e lavorava in casa. E a tutte noi dava fastidio. A battere in strada, doveva tornare.
Capisco, borbottai.
E quando non ha avuto più i soldi per pagare la pubblicità che le facevano, aggiunse, quelli degli annunci hanno cominciato a parlarne male.
'Fanculo, ridacchiai, che mondo di merda.
Scrivevano male di lei sul sito. Qualcuno, amico di qualche altra puttana, per danneggiarla, mise in giro altre voci. Tu non puoi capire.
Storie di zoccole, decisi, meglio starne fuori.
Anche lei lo diceva, e non diceva, con il suo sguardo triste. Stanne fuori.
L'idea di ritrovarmi un magnaccia zingaro armato di coltello sotto casa mi terrorizzava.
Ne riparleremo, mentii chiudendo la conversazione.
E poi, perché non mi chiamava?
Avevamo detto di vederci prima di sera, il giorno dopo. Perché non mi chiamava?
Va bene che forse stava lavorando. Ma tra un cliente e l'altro avrebbe potuto anche farmi uno squillo. Anche solo per sapere come stavo.
Non aveva detto che mi amava?
Stavo da cani.
Un fidanzato forse arabo, forse pakistano. Un magnaccia serbo romeno zingaro armato di coltello. E che la menava. Le sue amiche, si fa per dire, che le tiravano ganci e sparlavano di lei. Che casino! Non potevo fidarmi di nessuno.
Dovevo fidarmi solo del mio istinto. Di quello che il mio istinto mi suggeriva su di lei.
E il mio istinto diffidava.
Nonostante la notte in bianco, trascorsa a tormentarmi nei ricordi, questa mattina decisi di andare a lavorare. Stare a casa mi sembrava anche più pericoloso, perché era evidente che non avrei dormito e che rischiavo un collasso nervoso.
Così, mi feci una doccia e mi preparai.
Mangiai qualcosa e uscii.
Dio, quanto mi sei mancata! Come ho fatto a non accorgermene in tutti questi mesi?
Mi hai fatto del male, questo è sicuro. E io avevo sicuramente ragione, contro tutti i tuoi torti. Ma mi manchi come un arto perduto.
E io, mi chiedevo questa mattina presto andando a lavorare, io ti sono mancato?
Mi pensi qualche volta? Ti capita, come a me oggi, di essere stravolta dal dolore di avermi perso?
Forse no, forse queste sono cose da barbari, sono cose da gente che paga.
La cultura della tua civiltà raffinata e decadente non contempla la nostalgia. Siete fatte per esserci, non per essere assenti.
Forse vi innamorate, ma non vi affezionate.
Dopo la telefonata con Viviana non sapevo che fare.
Avevo lasciato diversi messaggi: chiamami appena puoi; ma perché non mi chiami?; chiamami stronza!; 'fanculo, se non mi chiami ti rompo il culo...
Forse una decina, in crescente tenore di stress.
Ed ero sempre più terrorizzato, all'idea delle conseguenze del mio dubbio agire.
Comunque la mettevamo, qualche colpa ce l'avevo. Quanto meno quella di aver parlato tanto con le sue amiche, sollevando attenzione intorno a noi. Intorno a lei, soprattutto, perché io, alla fin fine, sono solo un cliente per tutte loro. I protagonisti del loro mondo sono altri. Molti a me del tutto sconosciuti.
Mi richiamò Mariana.
Senti, disse titubante, meglio se non ci vediamo questa sera.
Perché? Chiesi ormai al limite dell'esaperazione.
Niente, è che forse è meglio se ti vedi con lei.
Le hanno fatto molto male? Mi preoccupai improvvisamente consapevole che quella che provava dolore vero era lei.
Era lei, quella che soffriva, il soggetto debole di ogni contratto umano.
No, rispose, qualche sberla, dai, se le faceva male non poteva lavorare.
Giusto, sorrisi tra me e me nel constatare tanta empirica efficienza aziendale.
Che cazzo sta succedendo? Chiesi invece.
Niente, rispose ancora cauta, devi capirla. Adesso deve difendersi. Non può stare senza lavorare.
Che cazzo sta succedendo? Urlai sempre più incazzato.
Niente, cercò di calmarmi, solo che sta dicendo in giro che eri tu che volevi fare senza con lei. Che lei non ha mai accettato, ma che tu lo fai con tutte quelle che ci stanno. Ma che lei non ha voluto, perché forse sei ammalato. E lei ci tiene alla sua salute. E ha le analisi, che dicono che è sana.
Stronza! Inveii, gliele ho pagate io quelle analisi urgenti! Mi sono costate una follia. L'ha detto anche con te?
Sì, poco fa, l'ho incontrata al mercato, ero con Viviana.
La tua amica...
Non parlare con quella stronza, mi consigliò, quella puttana di merda con sa un cazzo.
Ok, sorrisi ormai rassegnato a non capire.
Meglio se parli con lei, aggiunse. Non lo fa per cattiveria, credimi, lo fa solo per difendersi. Lei ti vuole bene.
Come al suo fidanzato pakistano, elencai, e al suo magnaccia romeno.
Pakistano? Fece dubbiosa, ma è arabo.
Fa niente, minimizzai.
Meglio se ne parlate, aggiunse.
Grazie, la ringraziai sinceramente. In fondo, quello era un atto di affetto da parte sua.
Quando spensi il telefono, trovai il messaggio di chiamata persa.
Ciao, la salutai, quando tirò su con un sospiro.
Ovviamente, sapeva che ero io.
Tu non vuoi che io torno a casa in Romania, vero? Chiese senza preamboli.
Sinceramente, risposi, non me ne frega niente. Magari, smetti di far danni.
Se non vuoi che vado via, mi ignorò, smetti di parlare con le altre.
Ok, accettai, e tu cancellami dall'elenco abbonati. Non voglio trovarmi sotto casa un pappone zingaro romeno armato di coltello o il tuo fidanzato pakistano.
Chi ti ha raccontato queste stronzate? Rispose indignata dopo un breve silenzio stizzito.
Non importa chi me l'ha detto, sospirai, importa che lo so.
Tu non sai un cazzo, s'inalberò.
Massì, convenni, magari il pappone è bulgaro e il tuo fidanzato croato.
Tu non sai come funziona, testa di cazzo, e comunque non cambia niente.
Hai ragione, ammisi, me lo dicevi sempre di starne fuori. Ora è meglio se ne rimango fuori per sempre.
Questa sera, propose pacata, alla pasticceria.
Ok, accettai.
Travolto dalla stanchezza, appena arrivato a lavorare, questa mattina presi un caffè forte e mi immersi nel lavoro. Quello non mancava.
E mi faceva apparentemente bene. Mi teneva impegnata la testa. Ma ogni tanto l'odore di aceto e di miele dei suoi capelli mi attraversava come una specie di brivido.
E i miei colleghi mi chiedevano se stavo bene con aria preoccupata.
Dio, mi dicevo, quanto mi sei mancata! E quanto mi mancherai, certo. Mi mancherai per tutta la vita.
Non c'entra quello è successo, in quello avevo stramaledettamente ragione. Io ho sempre avuto ragione. È che il desiderio è cieco e insensato. L'amore è sempre un errore.
E io, adesso posso ammetterlo, ti ho amata. Ti ho desiderata per tutto questo tempo. Lo sapevo ma non potevo dirmelo.
Ho scopato con cento puttane, da quando te ne sei andata, e in ognuna ho cercato te.
Ero a pezzi.
Verso le undici, il tempo continuava a scorrere incredibilmente veloce, decisi di fare una pausa. Mi chiusi in ufficio, mi misi comodo in poltrona e provai ad assopirmi per qualche minuto. Ma non appena sembrava stessi per addormentarmi, il ricordo del taglio malandrino dei suoi occhi mi faceva sussultare. E mi tornava l'odore dei suoi capelli nelle narici.
Scesi in farmacia e mi feci dare un ansiolitico, dicendo che avevo dimenticato la ricetta e che ne avevo bisogno.
Presi una ventina di gocce di Valium, sicuro che non sarebbe servito.
Anche quella sera, la sera in cui la vidi per l'ultima volta, ero tanto nervoso che mi ero tirato un paio di canne. E ci avevo bevuto dietro una birra. E non contento, avevo aggiunto una decina di gocce di un sedativo.
Ero un poco fatto, ma abbastanza lucido per affrontarla.
Ovviamente dovetti aspettarla. Odiavo aspettarla, ma ero rassegnato.
E quando arrivò, era con la sua amica Alessandra. La donna con la quale divideva la casa.
Anche lei, sapevo, aveva un fidanzato marocchino. Forse tutto si spiegava e chiudeva in quella semplice cerchia di relazioni.
In ogni caso, non me ne fregava niente. Anzi, cominciavo a sentirmi sollevato.
La delusione, anche se non potevo ammetterla, era liberatoria.
Ci sedemmo ad un tavolino in fondo, con una grossa tazza di cappuccino bollente ciascuno davanti. C'era nessuno quella sera.
Il taglio malandrino dei suoi occhi era stranamente preoccupato, mentre taceva e lasciava parlare la sua amica.
Io sono davvero puttana, diceva la stronza, mica come lei, che è solo una bambina. E so come funziona.
E come funziona? Chiedevo senza interesse.
L'unico mio interesse era fissarla negli occhi.
Occhi che non avevo mai visto tanto tristi.
Mentre la vecchia parlava, lei mi mise discretamente e di nascosto un piede tra le caviglie, come se volesse cercare un contatto che smentiva le altrui parole.
Tu sei vecchio, diceva la puttana che si definiva vera in sottofondo, e non te ne frega niente di ammalarti, ma lei è giovane. Devi smetterla.
Smetterla? Mormoravo.
Dopo che è stata con te, spiegava, ha fatto le analisi.
Io, precisai debolmente, l'ho portata a fare le analisi, perché lei ha scopato senza con altri.
Mi guardava implorante di star zitto, cercando non vista la mia mano sotto il tavolino.
No! alzava il dito per ammonirmi la vecchia stronza, sei tu che, per paura di averla fatta ammalare, le hai fatto fare le analisi.
Ma che cazzo stai dicendo? Mormorai affranto.
No! fece ancora con gesto di monito, e sono tre settimane che sta male, per paura di essere ammalata. Non lavora, non mangia. Ha sempre paura. Lei è qui per guadagnare soldi, non per perdere tempo.
Hai ragione, ammisi, mentre finalmente lei riusciva a prendermi di nascosto due dita tra le sue.
Perdonami, dicevano e non dicevano i suoi occhi velati di malinconia, perdonami. Ma non posso fare diversamente.
Per cui, concluse l'anziana, smetti di cercarla, le fai solo del male.
Ok, annuii, hai ragione.
Mi alzai, lasciando dolorosamente le dita fredde della sua mano.
Per me finisce qui, annunciai, fissandola negli occhi.
Non te ne andare, dicevano e non dicevano, domani ci vediamo. Domani facciamo ancora l'amore. Anche in culo, se vuoi, basta che stiamo insieme. Anche in gola, anche se mi fa schifo e mi viene da vomitare. Anche quando mi stringi il collo e mi soffochi. Non lo diciamo a nessuno. Solo io e te. E ogni tanto comando io, ogni tanto tu. Basta che facciamo ancora l'amore e ci baciamo appena, ogni tanto. Con gli occhi chiusi.
Finisce qui, ribadii girando i tacchi.
Quello che fai con me, diceva un angolo insidioso del mio pensiero, lo fai con tutti.
E uscii con la stretta alla gola e il cuore a mille.
Mi sentivo quasi sollevato.
Dio! Inveivo oggi battendo il pugno sul muro di cemento del mio ufficio, quello portante. Quello con il quale potevo farmi male senza troppo rumore. Dio! Quanto ti ho amata. Dio! Quanto mi sei mancata. Come potrò vivere il resto della mia vita con questo rammarico?
Ormai ero allo stremo. Era quasi ora di andare a pranzo ed ero a pezzi. Non avevo dormito, avevo lo stomaco in subbuglio e in ogni cosa vedevo il suo sorriso colpevole dell'ultima volta che ci eravamo incontrati.
L'ansiolitico non aveva fatto alcun effetto.
Quel sorriso sghembo e laterale, che significava: sto mentendo, ma sto dicendo la verità. A mio modo.
Forse è vero che noi uomini siamo tanto semplici.
Era un po' che non me lo diceva. Forse, alla fine anche lei si era rassegnata.
Forse, il nostro crudele gioco era finito pari.
Che ne so?
Quella sera, l'ultima sera in cui la vidi, tornando a casa presi una ragazza sui viali e la pagai per tutta la notte.
Quando la riaccompagnai a casa era ormai mattina e lei mi disse, cercando di farmi un complimento, che non pensava che uno della mia età potesse scopare tanto a lungo.
La prostata, mi giustificavo mentendo.
In realtà, non avevo scopato con lei quella notte. Ma come potevo spiegare?
Era rimasta colpita che me la tenessi sopra chiedendole di non muoversi.
Aveva detto che non baciava i clienti, ma aveva accettato che ci sfiorassimo le labbra. E dopo più di un'ora di quella cosa strana, aveva ceduto e mi aveva infilato la lingua in bocca, senza che glielo chiedessi.
E si era molto stupita, quando mi ero tirato via infastidito.
E, da quel momento in poi, l'avevo sbattuta con una violenza insospettabile.
Uno della mia età, cazzo di cane.
Non potevo mica farmi mettere in buca da una puttana romena di neanche vent'anni.
Le avevo fatto fare tutto il giro di giostra, avevo pagato.
A parte stringerle la gola. Quello lo facevo solo quando ero innamorato davvero.
Avevo spento il telefono quando l'avevo caricata, per non essere disturbato.
Così, quando lo riaccesi al mattino, trovai il suo messaggio.
Ti sei divertito, almeno?
Ero già arrivato al lavoro. Lo facevo spesso nei mesi precedenti. Passavo notti intere a scopare e poi andavo in ufficio distrutto ma allegro e pieno di idee. Agognando la pausa pranzo, in cui sarei tornato a casa a farmi un sonnellino.
Non come oggi, in ufficio, altrettanto stremato, ma stravolto dai ricordi e prostrato dalla prospettiva di non riuscire ad elaborare la sua perdita definitiva.
Perché mi aveva detto che non sarebbe tornata. Troppo sputtanata a Bologna. E lei, a suo modo, è una che anche se mente sempre, dice sempre la verità.
Ti sei divertito, almeno?
Diceva tutto.
Diceva che sapeva che sarei andato subito a cercare consolazione, senza trovarla.
Era ironico e sarcastico. Diceva che non potevo fare a meno di lei.
Sanciva ancora una volta la sua superiorità.
Non era lavoro, risposi.
Aspettai qualche minuto.
Sono io quella che lavora, scrisse.
Qualsiasi cosa avessi risposto, sarebbe stato un errore.
Pago, decisi di scrivere, e non aspetto.
Credevo che mi avrebbe colpito con la solita sferzante ironia.
Tu si che sai come si trattano le donne.
Ma no.
Dovetti aspettare qualche ora.
Lavoravo, ridevo con gli amici, vivevo.
Ma nel primo pomeriggio, mi arrivò il suo messaggio.
Tu sei mio, diceva.
Suonava quasi come una minaccia.
'Fanculo, ero troppo confuso.
Decisi di non rispondere.
Forse, era la verità. Ma era meglio non pensarci.
In ogni caso, non mi piace piegarmi a nessuna evidenza. Sono protagonista della mia vita.
'Fanculo, decisi, decido io.
Lavorare, mangiare, scherzare con gli amici. Vivere.
Dimenticare.
E mi sentivo quasi sollevato. Funzionava.
Le giornate occupate dagli impegni, i sonnellini pomeridiani, ancora lavoro e poi a puttane tutta la notte.
Per conoscere, certo, e per dimenticare.
Ma qualche sera dopo mi chiamò. Sa che prima delle undici sono in casa per la rituale telefonata a mia moglie.
Ciao, mormorò.
Perché mi chiami, chiesi brutalmente, hai bisogno di soldi?
Era forse la cosa più offensiva che potessi dire.
E l'avevo detta senza pensarci, segno che era davvero quel che volevo dire.
Era come quando lei si stendeva supina e allargava le gambe nell'implicito invito a ristabilire i ruoli.
Volevo salutarti, mi ignorò a fatica.
Forse, anche lei si era rassegnata. E sicuramente le stava costando molto rimanere calma.
Ciao, allora, la ricambiai ironicamente.
Forse stavo esagerando. Ma ero ancora molto arrabbiato con lei. Inconsapevole che mi sarebbe tanto mancata.
Io, mormorò pacata, torno a casa per un po'.
Bene, mi complimentai.
Ero sincero, forse avevamo bisogno entrambi di una pausa.
Io, aggiunse titubante, non tornerò qui.
Mi spiace, risposi cominciando a sentirmi disorientato.
Forse una parte di me credeva che ci sarebbe stato tempo per altre spiegazioni, per rimediare, almeno parzialmente, alle nostre incomprensioni.
Se il caso vorrà, commentai affranto, ci incontreremo ancora.
Sì, rispose con una punta di dolorosa allegria, lo penso anch'io. Anzi, lo spero.
Se ripassi in Italia, la pregai, chiamami.
Certo, disse piano, come potrei non chiamarti?
Non sapevo che dire, per cui, tacqui.
Tu sei mio, bisbigliò prima di chiudere la conversazione.
E quella fu l'ultima volta che sentii la sua voce.
Dio, quanto mi sei mancata!
Oggi, verso le due decisi che non potevo più lavorare e tornai a casa.
Ero totalmente fuori di testa. Non riuscivo a pensare ad altro che a lei.
L'odore dei suoi capelli era una specie di allucinazione olfattiva sempre presente nel mio naso. E vedevo il suo sorriso sardonico in ogni cosa.
Mi stesi, ma era evidente che non avrei potuto dormire.
Che cazzo faccio? Mi chiedevo tenendomi la testa dolorante nella penombra della mia camera da letto.
Stavo meditando di macerare la mia ansia uscendo a passeggiare, quando squillò il telefono.
Era Helena.
Ciao, mi salutò con voce un po' ansiosa, sei libero?
Sì, risposi incerto, sono a casa.
Allora, aggiunse, se posso, salgo, sono qui sotto.
Helena la smorfiosa sotto casa mia? Lei che si sposta solo in taxi pagato da altri o con i clienti? Che squilla per farsi richiamare e usa immancabilmente i miei preservativi e il mio lubrificante.
Doveva essere successo qualcosa. Lo capivo nonostante lo stordimento da notte insonne e l’ottusità conseguente il rammarico stridente che mi ingroppava le viscere.
Che c'è? Avevo chiesto debolmente.
Sto male, confessò candidamente, mi sento sola e ho nostalgia di casa.
Proprio lei, sempre allegra e spensierata. Troppo figa per prenderla sul serio.
Benvenuta nel club, sorrisi nonostante tutto, ti apro.
Salì immediatamente e mi abbracciò stretto, appena entrata.
Sembrava veramente molto tesa.
Esibiva occhiaie profonde e i capelli biondi erano scomposti.
E tu che hai? Chiese staccandosi improvvisamente consapevole del mio nervosismo.
Pene d'amore, confessai vergognoso.
Che fortuna! Esclamò, a me non succede mai. È tanto bello star male per amore.
Se hai bisogno di soldi, dichiari da vero idiota, te li do. E ci vediamo un'altra volta.
Stai male davvero, mormorò offesa.
Continuava a guardarmi incerta. Forse meditando di mandarmi affanculo.
Non voglio soldi, aggiunse torva.
Ok, mi scusai, perdonami, sono totalmente fuori di testa. Dimmi cosa ti è successo.
Niente, fece lei sedendosi sul divano, niente in confronto a quello che è successo a te.
Non posso parlarne, confessai, sono troppo stravolto.
Sembrava disorientata dalla situazione. Di solito, con lei sono molto affettuoso e appassionato.
Del resto, facciamo tutto come se fossimo due fidanzati. Tutto sempre molto tranquillo. Quasi pianificato.
Allora, mormorò con una punta di delusione, è meglio se me ne vado.
Sì, confermai.
Si alzò e prima di aprire la porta si allungò a darmi un breve bacio sulle labbra.
Scusa, disse piano fissandomi con gli occhi chiari.
Dio! Pensai frastornato dal confronto con i suoi occhi neri, quanto mi sei mancata. E quanto mi mancherai. Non riuscirò a pensare ad altro che a te per il resto della mia vita.
Ma Helena mi sembrava davvero affranta. E poi, era gentile e si capiva che aveva bisogno di parlare con qualcuno.
Se era venuta, era perché io ho l'età e l'esperienza per sostituire un genitore lontano.
Un utensile succedaneo.
Mi sentivo da schifo.
Aspetta, la pregai, lasciami fare una doccia, mi sento sporco. Tu mettiti comoda e poi parliamo.
Grazie, sorrise incerta, ma se non ti va, facciamo un'altra volta.
Rimani, avevo insistito, anche se non prometto di essere tanto in forma come buon consigliere.
Il re di coppe, sorrise ricordando i miei insegnamenti di lettura di carte.
Helena è tipicamente nordica, ma ha sangue zingaro. E quando ha saputo che sapevo leggere le carte ha voluto che le insegnassi. Una sua nonna lo sapeva fare.
È sveglia e intuitiva e non dimentica una sola parola di quel che dico.
Esatto, sorrisi senza divertimento, potrei essere un pessimo re di coppe.
Sono anche queste sciocchezze che contribuiscono a sedimentare il rapporto con una puttana.
Mentre mi lavavo, ancora tormentato dal rammarico e dal rancore, lei inaspettatamente mi raggiunse e mi abbracciò. Si bagnò i lunghi capelli ma non sembrava le importasse.
Una come me? Chiese quasi vergognosa stringendomi le spalle.
Annuii pacato.
Che ami più di me? Sorrise aperta e provocante staccandosi per farmi vedere il corpo pieno e sensuale.
Io ti amo? Chiesi lacerato da un'intuizione fulminea.
Forse anche loro, come noi, ci amano tutti per cinque minuti. Altrimenti come farebbero a farsi scopare?
Helena sembrava incerta su come rispondere.
No, ammise infine fingendo un adorabile broncetto, a me mi ami solo quando scopiamo.
Sorrisi incongruente.
Sembra che tutte voi sappiate cosa provo meglio di me, borbottai sentendo la tensione allentarsi.
Beh, rispose seria, siamo puttane.
E allora? Sorrisi divertito.
Tu, mormorò evidente con un'alzata di spalle, non puoi capire. Sei solo un uomo.

tutto quanto precede questa riga è falso

Questa storia è ovviamente frutto della mia fantasia.
Ma se non lo fosse, potrebbe somigliare a qualcosa che è veramente accaduto.
Ovviamente, non è vero, ma se fosse vero, sarebbe l'assemblaggio di almeno quattro storie diverse.
Per cui chi, per puro errore, pensasse di riconoscere la ragazza di cui parlo, quasi sicuramente si sbaglia.
A riprova che, con loro, ci si sbaglia quasi sempre. Siamo solo uomini.
 
è propri vero l'Italia è un paese di Santi, Poeti e Navigatori ma in questo forum direi di PUTTANIERI, POETI e NAVIGATI
 
Complimenti fevdar!
Bello tutto: struttura, flusso, gioco logico vero/falso, la presenza di "ottativo" a inizio testo (bello sgambetto per il lettore superficiale) e soprattutto il contenuto.

Nostalgia.
Argomento complesso, sul quale rifletto più spesso di quanto vorrei e dovrei.

Nostalgia.
Malattia che il punter dovrebbe temere più di quelle sessualmente trasmissibili. Cronica può essere mortale.
Si contrae per gioco, spesso da un soggetto immune o che si renderà conto solo dopo molti anni di non essere immune.
Una volta presa, avvelena.

Nostalgia.
Dolore della memoria.
C'è chi sostiene che la memoria del dolore porti dolore, mentre quella della felicità non porti nulla.
Io penso che la memoria della felicità, se non porta felicità, almeno dà senso alle cose. E' il mio antidoto alla nostalgia: non la guarisce, ma almeno la seda.

E' strano come certe "fantasie" si somiglino. Anche le mie sono più di una e mescolate tra loro, ma somigliano lo stesso alla tua.

Nelle mie "fantasie" ce n'è una in particolare che, sebbene non abbia cambiato la mia vita, ha cambiato me.
A settembre saranno 10 anni che questa fantasia si manifesta.
All'inizio mi sembrava che avesse anche una forma fisica, ma ormai non ne sono più sicuro.
Ora si manifesta solo con forme virtuali: sms, sogni, email, memorie improvvise in auto, chat su forum stranieri, telefonate.
Da 10 anni, senza pause.
Memorie di vite parallele eppure unite, saldamente, da un filo invisibile. Vite a rischio, soprattutto per chi è sotto un regime islamico.
Eppure mi considero fortunato. Pagherei ancora tutta la nostalgia necessaria per quella memoria di felicità, per dare senso alle cose.
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Ogni cosa scritta sopra è frutto di fantasia, anzi di delirio notturno dovuto alla prolungata esposizione a “media shopping” in tv.
 
tutto quanto segue questa riga è vero

Un'inopportuna lacrima crepuscolare

Luce angolare che sfugge dalle persiane semichiuse, mentre seduto sulla tazza, aspiro la prima boccata di Chesterfield della giornata. Rigorosamente imprudente, senza filtro.
Semaforiche impronte di sole sulle piastrelle appena umide di vapore di doccia. Si confondano pure nel colore complementare dei battiscopa, intravisto nel turbinio di pulviscoli.
La cinematica delle viscere, finalmente, a distrarmi.
Il sabato mattina mi sento sempre futurista.
Ho la mente che gira gira, cronostatica e contundente. Come un Luna Park lisergico prima della chiusura.
La piccola traffica in camera da letto. Forse si sta rivestendo. È tardi, ormai le nove.
Dopo la notte immersa nel semicupio dell'amore pagato. Cento monete, una sull'altra, in cambio di carezze e baci che sfrugolano l'io peristaltico del desiderio. Rigurgito di passione a conati.
Se non l'amassi tanto, non glieli darei.
Il sabato mattina mi sento sempre futurista. Verso mezzogiorno divento barocco.
Si è alzata prima, ha fatto una doccia. Le impronte dei suoi piedi nudi sono piccole. Se eruttasse un inopinato Vesuvio a Casalecchio di Reno, rimarrebbero in eterno, fossili sulla ceramica, per la gioia di archeologi e turisti entusiasti nei loro sandali impazienti. Tra un millenio, forse, pesterebbero, tra le altre, anche le mie rovine psichedeliche.
Si chiederebbero come mai, l'uomo ritrovato nella lava solidificata, seduto sulla tazza, avesse piedi tanto minuscoli.
Sento che la piccola si sposta in cucina. Scalda l'acqua per il tè.
Mente del cazzo, ritualmente futurista, del sabato mattina, che copula faticosamente con le idee.
Ci siamo detti ieri sera, mesi fa per la mia mente colloidale e imperturbabile, che avremmo fatto colazione in una pasticceria del centro. Sembrava contenta, le piace il movimento di via Indipendenza. Ma deve aver bisogno di qualcosa di caldo prima, per riprendersi. Forse la sua mente è profilattica.
La piccola russa. Giusto un lieve gorgoglio di gola, che mi tiene immancabilmente sveglio a guardarla nella penombra cilestrina della mia camera da letto. Incerto se abbracciarla di nuovo e stringerla per l'amore che ho guadagnato pagandola. Poca cosa, in fondo. Cento monete, prelevate dal mio borsellino e non ancora travasate nel suo.
Rifletto, di notte sono romantico e un po' scapigliato, e decido immancabilmente per il no.
Mi basta osservarla stesa sulla pancia, il volto allungato sul materasso. La gola tesa, quasi contratta. Le labbra corrucciate e le lunghe ciglia che nascondono i suoi incredibili occhi diagonali.
Che bella la giovinezza. Che tenerezza.
Questa notte si è coperta solo con il lenzuolo e forse aveva un po' freddo. Ogni tanto si spostava nel sonno per avvicinarsi al mio calore.
Poi mi devo essere assopito. Perché a un certo punto ho sentito che mi abbracciava.
Le ho tirato sopra una coperta e lei ha sorriso contenta.
Grazie, ha mormorato. Per riaddormentarsi apparentemente serena.
In fondo, non so niente di lei. Ma ho il sospetto che non dorma mai veramente.
Appena coperta, si è staccata da me per tornare ad allungare il collo sul materasso.
Le labbra sempre corrucciate.
Questo amore è guadagnato davvero per poche monete.
La luce angolare che esonda dalle tapparelle adesso sta lambendo il piatto della doccia.
Quando lo raggiungerà, sarà ora di lasciare il sedile piacevole, ormai caldo delle mie natiche. E affrontare lo spazzolino irsuto e centrifugo. Raggiungerò il lavandino evitando le impronte dei suoi piedi nell'umido delle piastrelle. Ci tengo che eventuali pataturisti del remoto futuro apprezzino la complessità dei nostri resti fossili. Camminerò sulle punte, come un'enorme ballerina classica pelosa e senza tutù.
Catatonia futurista avanguardista e di sinistra. Tra poche ore, verso mezzogiorno, la mia mente sarà barocca. Nel pomeriggio surrealista, ovvio, 'stasera si vedrà.
Qualche volta ho delle cadute razionaliste. Ma cerco di contenerle.
Vossssssh, lo sciacquone.
Frizz, frizz, lo spazzolino.
Ptuuuu, ptuuuu, devo pur sputare 'sto cazzo di bolo al mentolo.
Mi bussa, la piccola.
Il tè, mi sussurra, aprendo appena la porta.
Ti amo, penso ammirando il visino ancora gonfio di sonno.
Ti ho pagata cento monete, ma mi piaci come avessi speso un milione.
Arrivo, razionalizzo prudente mentre lei richiude l'uscio.
E mi reinfilo le braghe stropicciate e la maglietta spizzighettata.
Devo avere anche della scarpe da qualche parte. Poi si vedrà.
M'irroro di Eau d'Issey, così, tanto per fare. E la raggiungo.
Lei, seduta sul divano, sorseggia aspettandomi. Ancora in maglietta.
Le gambotte scoperte incrociate sotto il sedere e un sorriso onnivoro.
Mi viene la tenerezza, sempre, quando la trovo così.
Mi siedo e me la tiro tra le gambe.
Beviamo qualche sorso dalla stessa tazza senza dire niente.
Accende una sigaretta e mi guarda.
Questo è il momento più dolce, sussurra.
Cazzo di cane, quanto hai ragione.
Ti strangolerei di baci, ma forse il budged non è sufficiente. Giusto cento monete.
Sfacciato, la bacio comunque. E lei mi ricambia.
Accidenti, perché sei tanto perfetta? Penso.
Ma non ho parole da dire. Sarà che le ho spese tutte ieri sera.
E poi, la mia mente è futurista, per ora. E la parola si scrive o si proclama.
Sarebbe inopportuna, la parola, per momenti tanto dolci.
La piccola si stiracchia, mi abbraccia, mi sfiora le labbra, mi gratta la nuca, sorride, si prolunga e sbilunga cubista a tirarmi le orecchie. Sbatacchia gli occhioni.
Lo sa che sono tanto belli?
Belli, poi. Che vuol dire belli?
Risorride, mi stringe, si struscia. Mi lecca le labbra. Rabbrividisce.
Per cento monete è regalato.
Mi saetta con la lingua nella bocca.
Sembra quasi sia contenta per davvero.
Il sabato mattina futurista sta evolvendo in minimalismo.
La finestra spalancata c'inonda con la sua luce siderurgica.
Andiamo, propongo disorientato.
Ancora un momento, bisbiglia sorseggiando la tazza di tè ormai intiepidita, si sta tanto bene qui.
Verso le undici ricomincerà a lavorare, probabilmente.
Forse, davvero, il minimalismo ottundente del mio soggiorno è un piacevole intervallo nella sua routine con traffico da cento monete a giro di giostra.
Si struscia e sorride.
Faccio le fusa, ridacchia fingendosi gatta.
E rivoltandomi le viscere del sentimento sopito.
Ma il tempo inesorabile incalza.
Si alza, si infila i calzoni, si mette le scarpe.
Tutto con la calma lenta ed efficiente del cronogramma biologico della giovinezza.
Andiamo, mormora raccogliendo le cento monete che avevo poggiato ieri notte sul tavolo.
Annuisco e mi alzo. Ci devono essere delle scarpe da qualche parte.
Mentre me ne infilo un paio a caso, lei mette le tazze nella lavastoviglie.
Sono tre volte che passa la notte da me e sembra conoscere casa mia meglio di me.
Ripone le ciabatte di mia moglie, che si infila ogni volta con un sorriso impressionista, nella scarpiera in corridoio e mi scruta, incredula che io mi stia ancora allacciando le scarpe.
Bruuuum, veloce, mica tanto, corsa in macchina fino in centro.
Sfrush, sfrush, gimkana metasemantica sotto i portici, alla ricerca della pasticceria perfetta.
E infine, il caldo arcano del cappuccino. Seduti a un tavolo fuori, con paste ancora tiepide stese sul cabaret e suoni disarticolati di vite che passano. Che mi esondano nei padiglioni come un concerto per timpani e tacchi e fruscio di vesti. E voci inconsulte.
Sembra davvero contenta di esistere.
Si guarda intorno divertita del rumore dei passanti. Osserva con sguardo giocoso i vestiti delle ragazze, forse facendo confronti e stabilendo che vincerà sempre lei. E sorride ogni tanto, girandosi a controllare che anch'io sia contento.
Ha premura che non sia felice quanto lei.
Elevo una muta preghiera al dio laico del punter per tanta fortuna.
Oh, signore dei pagatori d'amore! Tu che vegli sulla mia incerta fortuna, fa che almeno talvolta, io possa gioire di tanta tenerezza.
Ormai sto virando al barocco. Non me l'aspettavo, sono appena le dieci.
Forse perché sono stanco. Ho poco dormito, mentre lei russava. E io l'ammiravo polifrenico.
Mangi tu questa? Chiede indicando l'ultima pasta con la frutta.
Faccio segno di no, so che le piace.
La prende e la sbocconcella con aria soddisfatta.
Anche lei sa che con questo, rimane poco al nostro temporaneo addio.
Nove ore è stata con me, cinque dormendo. Ma non fa molta differenza.
Cento monete. Poco più di undici all'ora. Ma le voglio bene come se avessi pagato un milione.
Sdling, pago.
Ribruuummmm, corsa, mica tanto veloce, sono prudente, in macchina. Verso casa sua.
Ssssst, stanco silenzio d'abitacolo automobilistico.
Pciuuu, bacino.
La mia mente futurista è debole, vista l'ora. Macina tempo epilettico e poco efficiente, da anziano che spesso veglia.
La guardo camminare risoluta verso casa, dimenticandomi per un sempre temporaneo.
Mentre la luce di fucina delle undici stampa ombre stereoscopiche sul cemento di periferia.
Sospiro ingranando la marcia automatica della mia rombante ciclotronica ipertecnocratica.
Dominato dalla sua efficienza frusciante di macchina impassibile, percorro viali quasi privi di traffico e strade coreografate di ferri parcheggiati silenti.
Non accendo neppure la radio, affascinato dal concerto di sibili elettronici autoprodotti e marce trionfali di motoscooter che mi sorpassano.
L'amore da cento monete si dimentica in fretta.
Penso, ormai libero dalla sua fascinazione, al pomeriggio surrealista che mi attende.
L'impegno intellettuale di tenersi vivi.
La mente ormai quasi barocca indugia sulla prospettiva del pranzo con gli amici. Che si preannuncia latentemente rococò.
A casa di Paola faremo conversazioni artatamente intelligenti, in attesa di ritrovarci soli, congedati gli amici, a fornicare con impeto tranquillo.
Da gente che si ama senza monete di mezzo.
Truuuump, parcheggio davanti a casa.
Szzzz, questi ascensori sono sempre più silenziosi. Ingranaggi ben oliati in cinetica evoluzione della specie tecnologica.
Mi spoglio e apro il frigo.
Bevo acqua gelida e minerale pensando rincuorato che potrò riposare ancora un'ora. La mia natura di macchina desiderante precariamente sospesa.
Ma la mente barocca comincia a prendere un sopravvento precauzionale. È lei che mi induce a un veloce passaggio in bagno. E poi in camera, deciso a tuffarmi in un'ipnosi inagibile e impermeabile. A scimiottare l'abbandono automatico del vero sonno.
Tanto, Paola verso mezzogiorno mi farà uno squillo.
Entro e faccio un balzo semifuturista da imprevisto frenomantico.
La piccola ha rifatto il letto. Mentre ero in bagno.
E ha tirato le coperte come io non avrei mai saputo fare. Perfette.
Lavoro del tutto inutile, perché lunedì passa la donne delle pulizie.
Che tenerezza, mi dico languido.
Vorrei stendermi per la stanchezza, ma indugio.
Non posso rovinare quest'opera d'arte. I dettagli minuziosi, i contorni tirati, la prospettiva ottusangola..
Un letto rifatto amorevolmente, con premura. Non per rito ma per affetto.
Atto concepito per cancellare le impronte del nostro sonno. Per rinnovare una verginità inopinata e posticcia, reiterabile. Forse il senso stesso dell'amore. Anche quando è pagato.
Questo è un letto che significa, penso lateralmente.
Mi siedo sulla sedia che di solito accoglie i miei vestiti la sera.
E mi accendo una sigaretta, con la mente ormai barocca.
Per trattenere un'inopportuna lacrima crepuscolare.


tutto quanto precede questa riga è falso
 
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