tutto quanto segue questa riga è vero
Solo un uomo (parte prima)
Tutto è cominciato ieri sera.
Avevo finito da poco di cenare e stavo fumando seduto sul divano, con un vecchio cd sul compattino a basso volume e il caffè appena versato nella tazzina che spandeva un aroma invitante.
Ero stanco ma abbastanza sereno. Aspettavo una telefonata di mia moglie.
È durato meno di un giorno. Ma è stato puro delirio. E se ne sono uscito è solo grazie a Helena. Sono salvo solo per via di un caso fortunato e improbabile.
Ero sereno e rilassato. Più tardi avrebbe chiamato anche Paola, forse. È ancora un poco arrabbiata con me e qualche volta emerge il suo lato vendicativo.
Le passerà, pensavo ottativo girando il caffè con il cucchiaino.
E prima di mezzanotte sarei uscito. Solo un rapido giro per i viali, per non perdere di vista il movimento e tenermi informato sull'offerta. Senza fermarmi neppure a contrattare, certo. Giusto una perlustrazione.
Tanto, alle due sarebbe arrivata Helena, come spesso accade il giovedì notte, in questo periodo.
E rimane sempre fino a tardi. Qualche volta dorme da me.
Mi stavo stiracchiando soddisfatto. La vita è fatta anche di questi momenti di autocompiacimento minore. Di aspettativa debole.
Poi, è successo. Non me lo ricordavo quel passaggio.
Nel vecchio cd di mp3, dopo un brano di jazz, si caricò una ballata di Bert Yansch; Lord Franklin.
E il cuore mi è salito in gola.
La canzone non c'entrava niente con lei. Non l'avevamo neppure mai sentita insieme.
Ma con la musica mi era tornata in mente un'immagine.
Un'immagine e un odore.
L'immagine era quella del suo viso mentre si addormentava tra le mie braccia in un fredda notte d'inverno. A casa mia.
E l'odore era quello dei suoi capelli. Tra i quali avevo affondato il viso per la commozione di quell'attimo.
Era un momento difficile. La mattina dopo dovevamo andare insieme a fare le analisi. Ed eravamo molto tesi.
Io l'accusavo di avermi ingannato. Erano giorni interi che l'inseguivo e le sfuggivo.
Che mi chiamava perché voleva spiegarsi. A suo modo, almeno.
Lei neppure capiva la cifra dei miei discorsi, non ne riconosceva l'etica. Pareva totalmente disorientata dai miei ragionamenti.
Vabbé, sembrava rispondere con un sorriso nervoso quando l'accusavo di avermi mentito, che sarà mai? Tu non menti mai?
No, pensavo, io non ti ho mai mentito.
E sembrava che nel suo mondo delle idee, questo non fosse neppure un merito. Che nel suo ambito mentale, mentire fosse una delle tante cose che succedono e di cui non ci si deve proprio stupire.
Quanta saggezza, pensavo con il viso premuto contro la sua chioma. Una saggezza antica, una specie di rassegnazione da civiltà raffinata e decadente. Sul punto di estinguersi per l'arrivo di oscuri barbari. Noi.
Strani marziani che neppure capivano che non era per cattiveria se non voleva dire dove abitava adesso e con chi stava. Che comunque era trascurabile.
Possibile che non fosse chiaro che non importa cosa succede quando non siamo insieme?
Tanto stupidi da non capire che non spiegare era una specie di dimostrazione di affetto. Per preservarci dal dover testimoniare altre miserie.
Stanne fuori, cretino, diceva senza dirlo, alzando appena un sopracciglio.
Nella sua primitiva saggezza, sapeva che c'erano cose che era meglio non sapessi.
Aveva deciso lei quali. Perché era semplicemente suo diritto.
E, quindi, che cazzo vuoi? Sembrava rispondere con il suo solito sorriso teso, ogni volta che cercavo nei dettagli delle sue spiegazioni contraddizioni e vaghe conferme ai miei sospetti.
Io tradito? Ridacchiava con un'alzata stizzita delle spalle.
Lavoro, ammettevo io colpevole e confuso.
E tu, allora? Chiedevano i suoi occhi velati di tristezza.
Dici tu, obiettavo, che ognuno spende i suoi soldi come gli pare.
Appunto, stabiliva ferendomi.
Era stata una notte lunga.
Potevi aspettarmi, aveva mormorato prima di addormentarsi.
Certo, avevo ammesso dandole ragione.
Ma sapendo che aveva torto.
Mentre lei dormiva, ogni tanto le annusavo i capelli. Sapevano di aceto e di miele.
E adesso mi era tornato in mente. La parte più primitiva del mio pensiero invasa dal quel ricordo.
Mi manchi, pensai ieri sera, stravolto dalla nostalgia. Mi manchi da morire.
Non me ne ero mai accorto.
Ogni tanto mi venivi in mente. Di solito quando passo alla pasticceria di Porta Mazzini, dove ci siamo incontrati l'ultima volta, qualche giorno dopo quella notte.
Spensi la sigaretta pervaso da quel nuovo doloroso ricordo.
Come cazzo ho fatto a non accorgermene?
Sono mesi che la penso con straziante nostalgia senza saperlo.
Mesi che le immagini di lei stanno in agguato in ogni cosa che faccio.
Ed è bastato il ricordo di un odore a far riemergere tutto.
Non ho certo buona memoria, ma per un momento mi sembrò che il tempo vissuto insieme fosse distribuito su un piano. Tutto mi era tornato in mente con la stessa chiarezza. Ogni dettaglio.
Questo è un sintomo di schizofrenia, pensai emergendo da quell'attimo di folle prostazione, allo squillo del telefono di casa.
Mia moglie.
Che hai? Mi chiese subito intuitiva mentre balbettavo le solite affettuosità.
Le donne sono magiche.
Stanchezza, mi giustificai.
Totale, travolgente passione, dicevo tra me e me. Passione frustrata.
Oggetto d'amore perduto, depressione. Sono a pezzi. E non lo sapevo.
Perché non me ne sono mai accorto?
Quando avevamo smesso di vederci, mi sentivo quasi esaltato.
Era una prova superata. Cazzo di cane.
Quante volte capita nella vita di un punter di innamorarsi, riamato, di una puttana?
Riamato a suo modo, ovviamente.
Per me era la seconda volta, forse la terza. Ma questa era stata davvero tosta.
Interi pomeriggi a far l'amore guardandoci negli occhi. O fissando i suoi occhi chiusi scommettendo su come sarebbero stati quando li avrebbe aperti.
All'inizio non volevo crederci. Era praticamente una bambina, neanche vent'anni.
Le prime volte, mi guardava con aria di sfida quando le entravo.
Quel che faccio con te, lo faccio con tutti, diceva senza dirlo.
E poi, una volta, ci ritrovammo senza preservativi e lei annuì stendendosi.
Facciamo lo stesso, aveva mormorato.
E io, ok.
Sempre all'idiota ricerca di quell'estremo intrinseco nelle cose.
E dopo, abbracciati, sudati e stanchi, aveva detto che rimaneva.
E io non ero neppure tanto contento, il giorno dopo dovevo essere a lavorare presto.
Ma, intanto, lo avevamo fatto. Perché non un'altra volta?
Così, ancora abbracciati, ero tornato a baciarla e accarezzarla, fino a farla girare per penetrarla da dietro. Con quel poco di tenerezza che mi restava.
E lei aveva girato la testa e mi aveva fissato terrorizzata.
Che cazzo mi stai facendo? Diceva e non diceva trattenendo un piccolo ansito.
Per una volta senza cercare di venirle in gola o di romperle il culo. Di infilarglielo fino all'utero o di stringerle forte la testa per guidare la sua bocca.
Solo per una volta, questa volta, pensavo.
Cazzo mi fai? Chiedeva e non chiedeva fissandomi quasi terrorizzata mentre la stringevo in un abbraccio al quale sembrava quasi sul punto di volersi sottrarre.
Forse l'avevo presa impreparata.
E non aveva detto niente, neppure un gemito. Ma sentivo il suo piacere quasi fosse il mio.
Per settimane intere, dopo, lei venne da me poco volentieri.
Si stendeva sul letto e apriva le gambe in un invito che voleva ristabilire i ruoli.
E mi sorrideva sardonica.
Non me la fai, diceva e non diceva. È successo una volta, ma non succederà mai più.
Io, da vero imbecille, cercavo ancora l'estremo.
E rivendicavo oscuri diritti.
Potevi aspettarmi, diceva già allora.
Erano le quattro spiegavo cercando di penetrarla più forte che potevo.
Potevi aspettarmi, insisteva.
Io pago, obiettavo, e non aspetto.
Bravo, rideva lei, tu sai come si trattano le donne. Ti sei divertito almeno?
Non era lavoro, cercavo di sferzarla.
Perché mi sentivo in qualche modo ferito.
Era umiliante delle volte farsi mettere in buca da una puttana romena di neppure vent'anni.
Sono donna e ho un figlio, diceva seria, ci sono cose che tu non capirai mai.
Ho cinquant'anni e sono uomo, ribattevo, ci sono cose che tu non capirai mai.
Dammi tempo, inveiva, e le capirò. Siete tanto facili voi uomini.
Con lei non scopavo, esercitavo un latente rapporto di forza.
In cui finivo sempre per sentirmi in qualche modo ferito.
Avvertivo la sua superiorità. Il suo sentirsi comunque migliore. Ero io quello che pagava.
Finita la telefonata con mia moglie, ieri sera mi misi al computer innervosito a trovare tracce della sua presenza nel forum.
Quella stronza si era sputtanata e non sarebbe mai tornata.
Dio, quanto mi mancava.
Mi rollai un paio di canne nel tentativo di calmarmi.
Forse Paola avrebbe chiamato. Erano ormai le dieci passate ma spesso mi telefonava anche dopo le undici. Un'amante, col tempo, diventa quasi una moglie surrogatoria. Non si soffre più per i suoi capricci. E per le sue ragioni.
Nonostante mi fossi ripromesso di non farlo, chiamai tutti i numeri che nel tempo mi aveva lasciato la ragazza. Ma erano tutti ormai disattivati.
Forse è in Spagna, pensai, come mi aveva detto una sua conoscente, o chissà.
Ma non tornerà qui a Bologna.
Me l'aveva detto una sera per telefono, prima di partire.
E non credo proprio cambierà idea.
Sicuramente è stata anche un po' colpa mia.
Ha dovuto cambiare aria. Troppo sputtanata.
Forse non avrei dovuto inutilmente indagare tra le sue amiche, ma allora ero totalmente fuori di testa.
Dovevo sapere se, come sospettavo, faceva scoperto anche con altri.
E, purtroppo, i miei sospetti erano fondati. Secondo i miei pochi conoscenti nel giro e le sue amiche, almeno. Amiche si fa per dire.
Anche se lei negava, le testimonianze erano troppe e troppo ben circostanziate.
Non mi importava tanto che lo facesse. Importava che mi avesse mentito. Che mi avesse spergiurato che lo faceva solo con me. E che mi avesse ingannato, facendo rischiare anche me.
Che cazzate che sto dicendo! Certo che mi importava. Mi importava che rischiasse di ammalarsi. Che finisse male.
Perché, alla fine di quel lungo periodo di inseguimenti e sfide affilate, lei aveva deciso che doveva insegnarmi. Prese in mano la situazione.
Ok, così non andiamo da nessuna parte. Lascia fare a me.
Non mi voleva insegnare a fare l'amore. In quello riconosceva che ne sapevo più di lei. Mi voleva insegnare a fare l'amore con lei.
Vuoi davvero farmelo piacere? Chiedeva e non chiedeva. Allora smettila.
Niente bocca, niente culo. Fai come ti dico.
Lo diceva senza dirlo.
Per una volta, sorrideva imbarazzata, proverai piacere nel darmi piacere. Se è quello che vuoi.
Basta bocca, basta spingere tanto. Basta culo.
Quel culo stretto che, a quanto si diceva, non dava a nessuno.
Vienimi dentro e stammi dentro. Piano, non muoverti. Stammi dentro e baciamoci appena.
Lo diceva e non lo diceva.
Mi guidava come si guida un cane. Premiandolo quando fa bene.
Interi pomeriggi allacciati stretti sfiorandoci appena le labbra.
Al lavoro si chiedevano tutti come mai ci andassi tanto poco. Io eludevo, spiegando che ormai eravamo quasi a natale.
Pomeriggio interi. E delle volte anche di notte. Il mio cazzo teso dentro la sua passerina.
I movimenti erano graditi solo se minimali e lenti, mai un gemito, mai un ansito.
Solo gli occhi che si spalancavano ogni tanto per la sorpresa di provare piacere.
Per il resto, li teneva chiusi.
Il piacere come abbandono assoluto.
Una cosa che so ma che faccio fatica a praticare per frenesia.
Forse è vero che gli uomini sono tanto semplici.
Mentre ci pensavo, ieri sera, spensi il computer e fumai le due canne di fila, senza alcun piacere.
Ormai Paola non avrebbe chiamato. 'Fanculo anche ai suoi capricci e alle sue ragioni.
Ero tanto stravolto, che il tempo scorreva velocissimo. Mi scappava di tra le mani.
E non avevo nessuna voglia di uscire e fare il giro perlustrativo.
Alla fine, non mi andava neppure di incontrare Helena.
Avrei voluto solo che lei fosse stata lì.
Anche solo per vedere il suo sorriso sardonico di quando stava elaborando un'evidente menzogna.
O il taglio malandrino dei suoi occhi.
Dio, quanto mi mancava! Come avevo potuto non accorgermente in tutti questi mesi?
Non avevo più fumo, per cui mi stappai nervosamente una birra e mi rollai un paio di sigarette col tabacco.
Chiamai la sua amica Giannina, anche se sapevo che mi avrebbe fatto male.
Ovviamente non rispondeva, come faceva anche lei quasi sempre.
Forse era con un cliente. O forse non voleva parlare con me.
Entrambe le ipotesi mi lasciavano del tutto indifferente.
Perché stavo chiamando Giannina, certo.
Quando chiamavo lei e non rispondeva, mi incazzavo da matti.
Almeno, appena ti liberi, fammi uno squillo, pensavo.
Ma lei no.
Magari chiamava dopo due giorni. E non aveva spiegazioni da dare.
Non mi importava se aveva lavorato. Cazzo di cane, sei una puttana. Scopi per vivere, non me ne frega niente.
Potevi aspettarmi, diceva e non diceva.
Erano le quattro passate, obiettavo.
Avevo ragione, era evidente. Come cazzo facevo ad aspettarla, se neppure mi chiamava?
Provavo e riprovavo a telefonarle, poi uscivo e scopavo la prima che beccavo.
Spesso, insoddisfatto, tornando a casa ne cercavo un'altra.
Ti sei divertito, almeno?
Non era lavoro, rispondevo nel tentativo di ferirla.
Tanto, anche se non ce l'eravamo mai detto, lei lo sapeva che volevo bene solo a lei. Era solo scocciata che spendessi i miei soldi con altre.
E io ingelosito dall'idea che anche con altri facesse quello che faceva con me.
No, sorrideva fissandomi sardonica, solo con te. Fai piano, non ti muovere, baciamoci appena.
Troia, bugiarda, adesso te lo metto nel culo.
Allora non mi ero ancora rassegnato a lasciarla fare. Volevo comandare.
Ok, annuiva sarcastica, tu sai come trattare le donne.
Ti sborro nel culo, puttana.
Siete tanto semplici, voi uomini.
Non potevo farmi umiliare da una prostituta romena di neppure vent'anni.
Come faceva a sentirsi tanto superiore?
Vieni qui, ingoia.
Ci sai fare con le donne, mormorava scatarrando e sputando quello che non aveva bevuto.
Non scopavamo, esercitavamo un evidente rapporto di forza.
Devo dormire, adesso.
Non lo farò mai più, sono uno stronzo. Perdonami.
Lascia stare, è il mio mestiere.
Con me, singultavo offeso, non è mestiere.
Davvero? Sorrideva enigmatica.
È colpa mia, perdonami.
Adesso devo dormire.
Ok, mi rassegnavo.
Ma poi, durante la notte, si svegliava.
La sentivo prepararsi un tè e fumare in soggiorno.
Troppo stanco per alzarmi e farle compagnia, la pensavo nel dormiveglia con un fitta di dolore da possesso mancato.
Fino a quando non tornava a coricarsi e mi abbracciava stretto.
Piano, non muoverti, voglio sentirti.
Immobile, seduta sul mio bacino. Mentre mi stringeva il petto, si mordeva le labbra fissandomi.
Quando mi piace, mormorava, devo chiudere gli occhi.
Sapeva che il suo sguardo mi piaceva immensamente.
Le dispiaceva dispiacermi.
Mai un ansito, mai un gemito.
Ogni tanto spalancava gli occhi per la sorpresa di provare piacere.
E mi sorrideva misteriosa.
Una puttana romena di neppure vent'anni.
La mattina scappavo da casa mia come un clandestino, in silenzio. Lasciavo dolorosamente il letto caldo, inconsapevole del futuro.
Lavoravo, mangiavo, scherzavo con gli amici.
Potevi aspettarmi, diceva e non diceva al telefono quando si alzava verso le due.
Ma ieri notte ti ho aspettata, obiettavo.
Questa mattina te ne sei andato, osservava evidente.
Avevo ragione, certo, tutto mi dava ragione. Ma capivo la sua illogica ragione.
Quando tornavo la sera, trovavo i suoi resti.
Le impronte ancora umide dei suoi piedi sul pavimento del bagno, di fianco alla doccia. Tazze sporche e cicche nei posacenere.
Non mangiava mai. Come cazzo faceva a tenersi su?
Neppure io mangiavo molto in quel periodo. Ero troppo preso.
Giusto, mangiare. Pensai questa notte.
Nonostante non avessi fame, andai a prepararmi un tè con i biscotti. Mi sarebbero venuti su fino a domattina, ma chissenefrega.
Chiamai Helena e la pregai di non venire.
Lei disse ok, ma sembrava un po' irritata.
Del resto, con me finiva la nottata senza troppi problemi. Sa come prendermi e sa cosa mi piace.
Meglio passare due ore a giocare sul letto per cento euro che sbattersi a fare tre pompini in macchina in strada per la stessa cifra, pensavo cinicamente.
Nonostante questo, riflettevo, devo ammettere che anche lei, a suo modo, mi ricambia. Con la differenza che, anche se le riconosco, le sue cifre non m'incantano. Non mi fanno soffrire.
Forse, non si ama senza soffrire, senza avvertirsi mancanti in qualcosa.
Non ti muovere, fammi sentire.
Questa volta ti ho aspettata.
Ti eri addormentato, obiettava ridacchiando.
Non mi ero ancora del tutto rassegnato, allora.
Siete tanto facili, voi uomini.
Non mi andava di prendere lezioni da una puttana romena di neanche vent'anni.
Adesso te lo ficco in gola fino alle palle.
Certo, capo.
Mi guardava torva elaborando oscuramente il modo migliore per farmela pagare.
Non si sottraeva a nessuna delle mie richieste.
Si tirava via dal mio grembo, con il pube glabro ancora umido e si inginocchiava per terra, per facilitarmi le cose.
Fino alle palle, borbottavo stringendole forte la testa.
Serrava gli occhi per lo sforzo di tenermi dentro. E ogni tanto tratteneva un conato.
Tutta dentro, decidevo.
E lei ingoiava tossendo.
Poi, si tirava via con uno scatto che tradiva il nervosismo.
Certo, sorrideva storta, che sai come prenderle le donne.
Scusami, sono uno stronzo, imploravo contrito.
Siete tanto facili, diceva e non diceva il taglio triste dei suoi occhi neri quasi orientali.
Adesso dormiamo, proponevo cercando di abbracciarla.
Travolto non ancora dai sensi di colpa, ma dalla certezza di commettere continuamente errori, per mancanza di comprensione.
Si lasciava avvolgere dai miei arti, ma non si lasciava andare.
Meditava, forse, su come mi avrebbe ferito alla prima occasione.
Ma dopo, passato il livore, si addormentava apparentemente serena.
Un sonno lieve e passeggero, che non durava.
Prima, mi fissava un po' con aria stanca e mi allungava le labbra.
Mi piace come baci, diceva e non diceva strusciando il seno sul mio petto.
Così, quando si svegliava con una piccola scossa, la baciavo di nuovo, con la bocca impastata e l'affare ancora duro e impaziente.
La giravo e, con la poca tenerezza che mi era rimasta, la penetravo piano.
E lei torceva il collo, torceva sempre il collo quando le entravo da dietro, e mi guardava terrorizzata.
Ma che cazzo stai facendo? Diceva.
Diceva e non diceva.
È successo una volta, e solo perché mi hai presa impreparata. Ma non puoi decidere sempre tu.
Si tirava via e si metteva supina. E allargava le gambe, ripristinando la correttezza dei ruoli.
Non hai voluto fare come dicevo, diceva e non diceva il suo sorriso sardonico, allora non andremo da nessuna parte.
La fottevo, la fottevo, la fottevo.
E lei neppure un ansito, mai un gemito.
Gli occhi sempre spalancati a controllare e giudicare.
Siete tanto facili, voi uomini.
Troia, puttana, stronza, inveivo con frustrazione incontrollabile liberandomi della tensione dentro di lei.
Non prima di averla messa a pecora e dopo averle inumidito il buchino dietro.
Quello che faccio con te, diceva e non diceva stringendo forte le lenzuola tra le dita contratte per il dolore, lo faccio con tutti.
A parte il preservativo, mi auguravo cercando inutilmente di ingannarmi.
Profilattico a parte, annuiva con l'aria sardonica di quando stava mentendo forte.
Dio, quanto la odiavo.
Si sentiva che si sentiva superiore.
Quanto mi sei mancata! Come ho fatto a non accorgermene in tutti questi mesi?
Perché, anche se lei mi insegnava - sta fermo, non muoverti - io ero un allievo indisciplinato, sempre preso a strolicare, stravolto da ansie di capire.
Quello che non si poteva capire.
Troia, inveivo alla fine di quegli interminabili pomeriggi passati a guardarci fissi negli occhi e baciarci appena, il mio affare sempre dentro la sua passerina stretta.
Facendo questo mestiere, si vantava, scopo tutto il giorno. Ma sono elastica.
Elastica 'sto cazzo! Ruminavo spingendo più che potevo. Adesso te la rompo.
Ma lei, quando cominciavo con la mia ossessione, sorrideva superiore.
Quello che faccio con te, diceva e non diceva, lo faccio con tutti.
Uscivo da davanti e le entravo dietro senza neppure bagnarla.
Troia, inveivo stringendole il collo.
Il cazzo nel suo culo fino alle palle e i suoi piedi sul petto che cercavano di spingermi via.
Stringeva le lenzuola con le dita adunche e quando si sentiva soffocare tirava fuori la lingua.
Quello che faccio con te, lo faccio con tutti. Basta che pagano.
Questo no, mormoravo.
Anche questo, sussurrava impietosa, basta che pagano.
Questo no, insistevo straziato da una gelosia genetica e inconsapevole.
Questo no, ammetteva tossendo ormai quasi cianotica.
Mi tiravo via e mi rannnicchiavo in un angolo del letto, ancora inconcluso e sporco di merda, mentre lei ansimava per lo sforzo di riprendere a respirare.
Mai un ansito, mai un singhiozzo, mai un lamento.
Solo quegli occhi spalancati di stupore, ogni tanto. Quando dettava lei i tempi del fare l'amore.
Mi hai ingannato, le sussurravo amaro negli ultimi giorni. Ormai rassegnato a lasciarle comandare quel gioco.
Mi permetteva di starle sopra. Sempre senza muovermi.
Ad occhi chiusi, ogni tanto tirava un respiro forte.
Poi li spalancava.
Ogni volta scommettevo su come sarebbero stati.
Spaventati per il piacere, terrorizzati per un orgasmo ormai prossimo, sardonici e impietosi.
Perdevo sempre.
Io ingannato? Obiettava, e tu allora?
Io non ti ho mai mentito.
Sapevo di avere ragione.
Lei alzava le spalle.
Hai scopato con altri senza, l'accusavo.
Solo con te, mentiva.
La mail del mio amico, insistevo.
Io quello non lo conosco.
Ma lui sì.
Solo con te, perorava cocciutamente stringendomi in un abbraccio straziante.
Sapevo di avere ragione. Ma capivo le sue ragioni.
Dovevi aspettarmi, dichiarava in modo del tutto incoerente, quasi rituale.
Erano le quattro passate, rispondevo come fossero le battute di una commedia non ancora mandata del tutto a memoria.
Ti sei divertito, almeno?
Non era lavoro.
Così, lei taceva. E mi faceva tacere.
Dio, pensavo questa notte prostrato sul divano. Sono quasi le quattro e mi sei mancata da matti. Come ho potuto non accorgermene in tutti questi mesi?
Il tempo fluiva svelto come pioggia sul cemento. E faceva lo stesso rumore inutile.
Ma quella sera, la sera in cui si addormentò tra le mie braccia e annusai i suoi capelli conservandone un ricordo indelebile. Quella sera, eravamo tesi da matti.
Erano settimane che la terrorizzavo spiegandole che, con quello che era successo, potevamo entrambi essere sieropositivi. E che lei aveva anche più probabilità di me. Sempre che i miei sospetti e quanto avevo appreso indagando fosse vero.
E tutto lasciava intendere che lo fosse.
E la mattina dopo avevamo un appuntamento alle sette in ambulatorio.
Si addormentò con uno dei suoi lunghi sospiri da ragazzina esausta.
Dopo che le avevo chiesto se voleva fare l'amore. E lei aveva risposto che era troppo nervosa. Che domani, dopo la risposta degli esami. Dopopranzo.
Ok, mi ero arreso.
E lei mi aveva abbracciato stretto, si era scavata un posto tra il mio fianco e il materasso e si era addormentata.
E io, sedato dalla sua provvisoria serenità, l'avevo imitata.
Ma solo mezz'ora dopo, lei si era svegliata. Aveva fatto una specie di piccolo scatto.
E mi ero svegliato anch'io.
Ero troppo imbambolato per fare la scommessa di come sarebbe stato il suo sguardo.
Ma quando aprì gli occhi, erano tristi.
Tu mi ami, aveva mormorato.
Non era una domanda, era l'evidenza di una constatazione.
Aveva ragione, anche se non lo sapevo.
Non avevamo mai parlato d'amore. Questa era una novità. Fino a quel momento, l'amore era fare l'amore.
E io, che avevo crudelmente aspettato quell'occasione di rivalsa da mesi, avevo scosso il capo in un muto diniego.
Tu mi ami! Aveva esclamato indignata. Sicura di avere ragione.
Ma io continuavo a negare. Che senso aveva dirselo?
Che senso aveva chiederselo?
Tu mi ami, tu mi ami, tu mi ami, insisteva irritata cominciando a colpirmi il viso e le spalle.
Cercavo di difendermi tenendole le mani.
Tu mi ami, singhiozzava con le guance rigate dalle lacrime, quando l'ebbi imprigionata.
Lo sguardo ancora una volta terrorizzato e un falso sorriso frustrato.
Dimmi che mi ami, figlio di puttana, implorava con il petto scosso dai singhiozzi, per una volta dimmi la verità. Bastardo! E poi sarei io quella che mente!
Mi spiace, mormoravo ipocrita, colpevole e sempre più disorientato.
Tu mi ami, piagnucolò ancora rassegnata.
Mi dispiace, risposi perfidamente.
La ragazza si girò a darmi le spalle, continuando a lacrimare in silenzio.
Tu mi ami, diceva piano ogni tanto.
E tu? Trovai in coraggio di chiedere.
Taceva piangendo, le spalle frementi per il disappunto.
Quello che faccio con te, diceva e non diceva, lo faccio con tutti.
Basta che pagano, pensai sgrammaticando, basta che pagano.
Sapevo di avere torto. Ma delle volte si preferisce l'errore.
Io, mormorò a un certo punto, si sa.
Si sa 'sto cazzo! Inveii, troia, puttana e stronza. Non hai fatto altro che ingannarmi. Mi hai mentito.
Lei scuoteva le spalle inconsapevole.
E allora? Sembrava dire torcendo il collo. Che differenza farà mai?
Il suo sguardo malandrino era irresistibile, nonostante le palpebre gonfie per il pianto e le guance umide e arrossate.
E tu? Chiese invece.
Io non ti ho mai mentito, borbottai sicuro di avere ragione.
Ma quella spiegazione sembrava senza senso.
Che importa mentire? È una delle tante cose che succedono, perché preoccuparsi?
Tu mi ami, sorrise speranzosa girandosi ad abbracciarmi.
Mi dispiace, tenni duro.
Mi guardava incerta se la stessi prendendo in giro o parlassi sul serio.
Non poteva accettare nessuna delle due ipotesi. Come potevo non amarla?
Non ne avevamo mai parlato, ma era evidente che l'unica idea che potesse accettare era che io l'amavo. Era semplicemente nelle cose.
Lei sapeva di avere ragione.
Tu mi ami, sussurrò titubante.
La fissavo senza rispondere. La cosa si stava facendo seria.
Che importanza aveva dirselo?
Sentivo che stavo commettendo un altro errore. Qualsiasi cosa avessi fatto sarebbe stato un errore.
Dobbiamo dormire, le ricordai.
E lei annuì seria, forse capendo che qualcosa era finito.
Mi strinse con un affetto che non conoscevo. Forse l'affetto della nostalgia preventiva di chi sta per lasciarsi.
Dormiamo, aveva acconsentito.
E io l'avevo guardata di nuovo rilassare i muscoli del viso e respirare piano.
E quando fui sicuro che stava dormendo, immersi ancora una volta il viso nei suoi capelli.
Sapevano di aceto e di miele. Un sapore antico, un sapore saggio.
Indimenticabile.
Era ormai quasi l'alba, questa notte, ed ero ancora prostrato da tutti quei ricordi e dall'amaro che mi lasciavano in gola. Frenetico per il desiderio di fare qualcosa e frustrato dall'inutilità di intraprendere qualsiasi iniziativa.
Quanto mi sei mancata, cazzo di cane, come ho fatto a non accorgermene in tutti questi mesi?
Era quasi l'alba e la mia ansia peggiorava. Forse avrei dovuto dormire.
Ma come potevo dormire con il ricordo del suo viso impresso nella memoria e il retrogusto amaro dell'odore dei suoi capelli nel naso?
Forse non sarei mai più riuscito a dormire.
Che senso ha dormire?
Il tempo è fatto per esserci, non per essere assenti.
E, senza di lei, questo tempo perde senso. Questo tempo è solo assenza.
Stavo da cani.
Verso le sei, preso dallo sconforto, cancellai in modo permanente tutti i suoi numeri dalla memoria del mio cellulare. Deliravo, lo so.
Poi mi ricordai che era anche nei contatti della mia posta elettronica.
Cancellai anche quelli.
Dovevi aspettarmi, rispondeva sempre cercando di sviare le mie domande.
Io ribadivo i miei dubbi, sapendo di avere sacrosanta ragione.
Ancora non sapevo che, di lì a qualche giorno, avrei dovuto aspettarla per sempre.
Mi sei mancata da matti, pensavo cancellando anche le sue foto dalla memoria del cellulare e da tutte le cartelle del computer.
E ti aspetterò per il resto della mia vita.
Obbedendo alla frenesia di quell'ossessione iconoclasta, cercai la molla per i capelli e il nastro che si era dimenticata a casa mia e li bruciai nel posacenere.
Facevano una certa puzza e una fiamma azzurra.
Probabilmente sprigionavano gas velenosi, che mi avrebbero definitivamente intossicato.
Poi mi ricordai del vaso di ciclamini che mi aveva regalato in dicembre. Erano bianchi e avevo detto a mia moglie di averli comprati in un negozio in centro. Che mi sembravano molto belli. Tra l'altro era vero.
Sradicai la piantina e la gettai nella pattumiera. La terra che era rimasta la buttai un po' alla volta nel water, e la dispersi tirando l'acqua.
Poi ruppi in tanti prezzi il vaso di terracotta.
Con quello, mi sembrava di essermi liberato di tutto quanto era stato suo.
Tranne me.
Quel giorno, dopo le analisi, non andai a lavorare, presi un giorno di ferie. Ero troppo teso.
Lei sosteneva di avere un gran mal di testa e voleva dormire, così l'accompagnai a casa sua. Da me non si poteva, doveva venire la donna delle pulizie.
Verso le quattro del pomeriggio, parecchio agitato per la tensione a la paura, andai a prelevare i referti. Aprii il mio. Negativo, certificava.
La chiamai.
Ovviamente, non rispondeva.
Con qualche titubanza, aprii anche il suo. Miracolosamente negativo a tutti i test.
La richiamai.
Possibile che non fosse curiosa di sapere se era malata?
Presi la macchina e andai verso casa sua. Per qualche settimana mi aveva tenuto nascosto che aveva cambiato appartamento. Lo sapevo lo stesso, ma ero furioso per quella menzogna per omissione.
Finalmente rispose.
Allora? Chiese con una punta di ansia.
Stavi lavorando, prima? Elusi.
Stavo dormendo, rispose evasiva, ho un terribile mal di testa.
Negativo, la tranquillizzai, scendi che te le do. Poi me ne vado.
Sembrava incerta.
Avevamo detto..., borbottò.
Lo so cosa avevamo detto, risposi, ma è tardi, tu hai già scopato non so quanti clienti e non mi va.
Stavo dormendo! Protestò alterandosi.
Me ne frega un cazzo, dichiarai sinceramente esasperato, scendi che ti do le analisi.
Fottiti tu e le tue analisi! Urlò chiudendo il telefono.
continua
tutto quanto precede questa riga è falso
Solo un uomo (parte prima)
Tutto è cominciato ieri sera.
Avevo finito da poco di cenare e stavo fumando seduto sul divano, con un vecchio cd sul compattino a basso volume e il caffè appena versato nella tazzina che spandeva un aroma invitante.
Ero stanco ma abbastanza sereno. Aspettavo una telefonata di mia moglie.
È durato meno di un giorno. Ma è stato puro delirio. E se ne sono uscito è solo grazie a Helena. Sono salvo solo per via di un caso fortunato e improbabile.
Ero sereno e rilassato. Più tardi avrebbe chiamato anche Paola, forse. È ancora un poco arrabbiata con me e qualche volta emerge il suo lato vendicativo.
Le passerà, pensavo ottativo girando il caffè con il cucchiaino.
E prima di mezzanotte sarei uscito. Solo un rapido giro per i viali, per non perdere di vista il movimento e tenermi informato sull'offerta. Senza fermarmi neppure a contrattare, certo. Giusto una perlustrazione.
Tanto, alle due sarebbe arrivata Helena, come spesso accade il giovedì notte, in questo periodo.
E rimane sempre fino a tardi. Qualche volta dorme da me.
Mi stavo stiracchiando soddisfatto. La vita è fatta anche di questi momenti di autocompiacimento minore. Di aspettativa debole.
Poi, è successo. Non me lo ricordavo quel passaggio.
Nel vecchio cd di mp3, dopo un brano di jazz, si caricò una ballata di Bert Yansch; Lord Franklin.
E il cuore mi è salito in gola.
La canzone non c'entrava niente con lei. Non l'avevamo neppure mai sentita insieme.
Ma con la musica mi era tornata in mente un'immagine.
Un'immagine e un odore.
L'immagine era quella del suo viso mentre si addormentava tra le mie braccia in un fredda notte d'inverno. A casa mia.
E l'odore era quello dei suoi capelli. Tra i quali avevo affondato il viso per la commozione di quell'attimo.
Era un momento difficile. La mattina dopo dovevamo andare insieme a fare le analisi. Ed eravamo molto tesi.
Io l'accusavo di avermi ingannato. Erano giorni interi che l'inseguivo e le sfuggivo.
Che mi chiamava perché voleva spiegarsi. A suo modo, almeno.
Lei neppure capiva la cifra dei miei discorsi, non ne riconosceva l'etica. Pareva totalmente disorientata dai miei ragionamenti.
Vabbé, sembrava rispondere con un sorriso nervoso quando l'accusavo di avermi mentito, che sarà mai? Tu non menti mai?
No, pensavo, io non ti ho mai mentito.
E sembrava che nel suo mondo delle idee, questo non fosse neppure un merito. Che nel suo ambito mentale, mentire fosse una delle tante cose che succedono e di cui non ci si deve proprio stupire.
Quanta saggezza, pensavo con il viso premuto contro la sua chioma. Una saggezza antica, una specie di rassegnazione da civiltà raffinata e decadente. Sul punto di estinguersi per l'arrivo di oscuri barbari. Noi.
Strani marziani che neppure capivano che non era per cattiveria se non voleva dire dove abitava adesso e con chi stava. Che comunque era trascurabile.
Possibile che non fosse chiaro che non importa cosa succede quando non siamo insieme?
Tanto stupidi da non capire che non spiegare era una specie di dimostrazione di affetto. Per preservarci dal dover testimoniare altre miserie.
Stanne fuori, cretino, diceva senza dirlo, alzando appena un sopracciglio.
Nella sua primitiva saggezza, sapeva che c'erano cose che era meglio non sapessi.
Aveva deciso lei quali. Perché era semplicemente suo diritto.
E, quindi, che cazzo vuoi? Sembrava rispondere con il suo solito sorriso teso, ogni volta che cercavo nei dettagli delle sue spiegazioni contraddizioni e vaghe conferme ai miei sospetti.
Io tradito? Ridacchiava con un'alzata stizzita delle spalle.
Lavoro, ammettevo io colpevole e confuso.
E tu, allora? Chiedevano i suoi occhi velati di tristezza.
Dici tu, obiettavo, che ognuno spende i suoi soldi come gli pare.
Appunto, stabiliva ferendomi.
Era stata una notte lunga.
Potevi aspettarmi, aveva mormorato prima di addormentarsi.
Certo, avevo ammesso dandole ragione.
Ma sapendo che aveva torto.
Mentre lei dormiva, ogni tanto le annusavo i capelli. Sapevano di aceto e di miele.
E adesso mi era tornato in mente. La parte più primitiva del mio pensiero invasa dal quel ricordo.
Mi manchi, pensai ieri sera, stravolto dalla nostalgia. Mi manchi da morire.
Non me ne ero mai accorto.
Ogni tanto mi venivi in mente. Di solito quando passo alla pasticceria di Porta Mazzini, dove ci siamo incontrati l'ultima volta, qualche giorno dopo quella notte.
Spensi la sigaretta pervaso da quel nuovo doloroso ricordo.
Come cazzo ho fatto a non accorgermene?
Sono mesi che la penso con straziante nostalgia senza saperlo.
Mesi che le immagini di lei stanno in agguato in ogni cosa che faccio.
Ed è bastato il ricordo di un odore a far riemergere tutto.
Non ho certo buona memoria, ma per un momento mi sembrò che il tempo vissuto insieme fosse distribuito su un piano. Tutto mi era tornato in mente con la stessa chiarezza. Ogni dettaglio.
Questo è un sintomo di schizofrenia, pensai emergendo da quell'attimo di folle prostazione, allo squillo del telefono di casa.
Mia moglie.
Che hai? Mi chiese subito intuitiva mentre balbettavo le solite affettuosità.
Le donne sono magiche.
Stanchezza, mi giustificai.
Totale, travolgente passione, dicevo tra me e me. Passione frustrata.
Oggetto d'amore perduto, depressione. Sono a pezzi. E non lo sapevo.
Perché non me ne sono mai accorto?
Quando avevamo smesso di vederci, mi sentivo quasi esaltato.
Era una prova superata. Cazzo di cane.
Quante volte capita nella vita di un punter di innamorarsi, riamato, di una puttana?
Riamato a suo modo, ovviamente.
Per me era la seconda volta, forse la terza. Ma questa era stata davvero tosta.
Interi pomeriggi a far l'amore guardandoci negli occhi. O fissando i suoi occhi chiusi scommettendo su come sarebbero stati quando li avrebbe aperti.
All'inizio non volevo crederci. Era praticamente una bambina, neanche vent'anni.
Le prime volte, mi guardava con aria di sfida quando le entravo.
Quel che faccio con te, lo faccio con tutti, diceva senza dirlo.
E poi, una volta, ci ritrovammo senza preservativi e lei annuì stendendosi.
Facciamo lo stesso, aveva mormorato.
E io, ok.
Sempre all'idiota ricerca di quell'estremo intrinseco nelle cose.
E dopo, abbracciati, sudati e stanchi, aveva detto che rimaneva.
E io non ero neppure tanto contento, il giorno dopo dovevo essere a lavorare presto.
Ma, intanto, lo avevamo fatto. Perché non un'altra volta?
Così, ancora abbracciati, ero tornato a baciarla e accarezzarla, fino a farla girare per penetrarla da dietro. Con quel poco di tenerezza che mi restava.
E lei aveva girato la testa e mi aveva fissato terrorizzata.
Che cazzo mi stai facendo? Diceva e non diceva trattenendo un piccolo ansito.
Per una volta senza cercare di venirle in gola o di romperle il culo. Di infilarglielo fino all'utero o di stringerle forte la testa per guidare la sua bocca.
Solo per una volta, questa volta, pensavo.
Cazzo mi fai? Chiedeva e non chiedeva fissandomi quasi terrorizzata mentre la stringevo in un abbraccio al quale sembrava quasi sul punto di volersi sottrarre.
Forse l'avevo presa impreparata.
E non aveva detto niente, neppure un gemito. Ma sentivo il suo piacere quasi fosse il mio.
Per settimane intere, dopo, lei venne da me poco volentieri.
Si stendeva sul letto e apriva le gambe in un invito che voleva ristabilire i ruoli.
E mi sorrideva sardonica.
Non me la fai, diceva e non diceva. È successo una volta, ma non succederà mai più.
Io, da vero imbecille, cercavo ancora l'estremo.
E rivendicavo oscuri diritti.
Potevi aspettarmi, diceva già allora.
Erano le quattro spiegavo cercando di penetrarla più forte che potevo.
Potevi aspettarmi, insisteva.
Io pago, obiettavo, e non aspetto.
Bravo, rideva lei, tu sai come si trattano le donne. Ti sei divertito almeno?
Non era lavoro, cercavo di sferzarla.
Perché mi sentivo in qualche modo ferito.
Era umiliante delle volte farsi mettere in buca da una puttana romena di neppure vent'anni.
Sono donna e ho un figlio, diceva seria, ci sono cose che tu non capirai mai.
Ho cinquant'anni e sono uomo, ribattevo, ci sono cose che tu non capirai mai.
Dammi tempo, inveiva, e le capirò. Siete tanto facili voi uomini.
Con lei non scopavo, esercitavo un latente rapporto di forza.
In cui finivo sempre per sentirmi in qualche modo ferito.
Avvertivo la sua superiorità. Il suo sentirsi comunque migliore. Ero io quello che pagava.
Finita la telefonata con mia moglie, ieri sera mi misi al computer innervosito a trovare tracce della sua presenza nel forum.
Quella stronza si era sputtanata e non sarebbe mai tornata.
Dio, quanto mi mancava.
Mi rollai un paio di canne nel tentativo di calmarmi.
Forse Paola avrebbe chiamato. Erano ormai le dieci passate ma spesso mi telefonava anche dopo le undici. Un'amante, col tempo, diventa quasi una moglie surrogatoria. Non si soffre più per i suoi capricci. E per le sue ragioni.
Nonostante mi fossi ripromesso di non farlo, chiamai tutti i numeri che nel tempo mi aveva lasciato la ragazza. Ma erano tutti ormai disattivati.
Forse è in Spagna, pensai, come mi aveva detto una sua conoscente, o chissà.
Ma non tornerà qui a Bologna.
Me l'aveva detto una sera per telefono, prima di partire.
E non credo proprio cambierà idea.
Sicuramente è stata anche un po' colpa mia.
Ha dovuto cambiare aria. Troppo sputtanata.
Forse non avrei dovuto inutilmente indagare tra le sue amiche, ma allora ero totalmente fuori di testa.
Dovevo sapere se, come sospettavo, faceva scoperto anche con altri.
E, purtroppo, i miei sospetti erano fondati. Secondo i miei pochi conoscenti nel giro e le sue amiche, almeno. Amiche si fa per dire.
Anche se lei negava, le testimonianze erano troppe e troppo ben circostanziate.
Non mi importava tanto che lo facesse. Importava che mi avesse mentito. Che mi avesse spergiurato che lo faceva solo con me. E che mi avesse ingannato, facendo rischiare anche me.
Che cazzate che sto dicendo! Certo che mi importava. Mi importava che rischiasse di ammalarsi. Che finisse male.
Perché, alla fine di quel lungo periodo di inseguimenti e sfide affilate, lei aveva deciso che doveva insegnarmi. Prese in mano la situazione.
Ok, così non andiamo da nessuna parte. Lascia fare a me.
Non mi voleva insegnare a fare l'amore. In quello riconosceva che ne sapevo più di lei. Mi voleva insegnare a fare l'amore con lei.
Vuoi davvero farmelo piacere? Chiedeva e non chiedeva. Allora smettila.
Niente bocca, niente culo. Fai come ti dico.
Lo diceva senza dirlo.
Per una volta, sorrideva imbarazzata, proverai piacere nel darmi piacere. Se è quello che vuoi.
Basta bocca, basta spingere tanto. Basta culo.
Quel culo stretto che, a quanto si diceva, non dava a nessuno.
Vienimi dentro e stammi dentro. Piano, non muoverti. Stammi dentro e baciamoci appena.
Lo diceva e non lo diceva.
Mi guidava come si guida un cane. Premiandolo quando fa bene.
Interi pomeriggi allacciati stretti sfiorandoci appena le labbra.
Al lavoro si chiedevano tutti come mai ci andassi tanto poco. Io eludevo, spiegando che ormai eravamo quasi a natale.
Pomeriggio interi. E delle volte anche di notte. Il mio cazzo teso dentro la sua passerina.
I movimenti erano graditi solo se minimali e lenti, mai un gemito, mai un ansito.
Solo gli occhi che si spalancavano ogni tanto per la sorpresa di provare piacere.
Per il resto, li teneva chiusi.
Il piacere come abbandono assoluto.
Una cosa che so ma che faccio fatica a praticare per frenesia.
Forse è vero che gli uomini sono tanto semplici.
Mentre ci pensavo, ieri sera, spensi il computer e fumai le due canne di fila, senza alcun piacere.
Ormai Paola non avrebbe chiamato. 'Fanculo anche ai suoi capricci e alle sue ragioni.
Ero tanto stravolto, che il tempo scorreva velocissimo. Mi scappava di tra le mani.
E non avevo nessuna voglia di uscire e fare il giro perlustrativo.
Alla fine, non mi andava neppure di incontrare Helena.
Avrei voluto solo che lei fosse stata lì.
Anche solo per vedere il suo sorriso sardonico di quando stava elaborando un'evidente menzogna.
O il taglio malandrino dei suoi occhi.
Dio, quanto mi mancava! Come avevo potuto non accorgermente in tutti questi mesi?
Non avevo più fumo, per cui mi stappai nervosamente una birra e mi rollai un paio di sigarette col tabacco.
Chiamai la sua amica Giannina, anche se sapevo che mi avrebbe fatto male.
Ovviamente non rispondeva, come faceva anche lei quasi sempre.
Forse era con un cliente. O forse non voleva parlare con me.
Entrambe le ipotesi mi lasciavano del tutto indifferente.
Perché stavo chiamando Giannina, certo.
Quando chiamavo lei e non rispondeva, mi incazzavo da matti.
Almeno, appena ti liberi, fammi uno squillo, pensavo.
Ma lei no.
Magari chiamava dopo due giorni. E non aveva spiegazioni da dare.
Non mi importava se aveva lavorato. Cazzo di cane, sei una puttana. Scopi per vivere, non me ne frega niente.
Potevi aspettarmi, diceva e non diceva.
Erano le quattro passate, obiettavo.
Avevo ragione, era evidente. Come cazzo facevo ad aspettarla, se neppure mi chiamava?
Provavo e riprovavo a telefonarle, poi uscivo e scopavo la prima che beccavo.
Spesso, insoddisfatto, tornando a casa ne cercavo un'altra.
Ti sei divertito, almeno?
Non era lavoro, rispondevo nel tentativo di ferirla.
Tanto, anche se non ce l'eravamo mai detto, lei lo sapeva che volevo bene solo a lei. Era solo scocciata che spendessi i miei soldi con altre.
E io ingelosito dall'idea che anche con altri facesse quello che faceva con me.
No, sorrideva fissandomi sardonica, solo con te. Fai piano, non ti muovere, baciamoci appena.
Troia, bugiarda, adesso te lo metto nel culo.
Allora non mi ero ancora rassegnato a lasciarla fare. Volevo comandare.
Ok, annuiva sarcastica, tu sai come trattare le donne.
Ti sborro nel culo, puttana.
Siete tanto semplici, voi uomini.
Non potevo farmi umiliare da una prostituta romena di neppure vent'anni.
Come faceva a sentirsi tanto superiore?
Vieni qui, ingoia.
Ci sai fare con le donne, mormorava scatarrando e sputando quello che non aveva bevuto.
Non scopavamo, esercitavamo un evidente rapporto di forza.
Devo dormire, adesso.
Non lo farò mai più, sono uno stronzo. Perdonami.
Lascia stare, è il mio mestiere.
Con me, singultavo offeso, non è mestiere.
Davvero? Sorrideva enigmatica.
È colpa mia, perdonami.
Adesso devo dormire.
Ok, mi rassegnavo.
Ma poi, durante la notte, si svegliava.
La sentivo prepararsi un tè e fumare in soggiorno.
Troppo stanco per alzarmi e farle compagnia, la pensavo nel dormiveglia con un fitta di dolore da possesso mancato.
Fino a quando non tornava a coricarsi e mi abbracciava stretto.
Piano, non muoverti, voglio sentirti.
Immobile, seduta sul mio bacino. Mentre mi stringeva il petto, si mordeva le labbra fissandomi.
Quando mi piace, mormorava, devo chiudere gli occhi.
Sapeva che il suo sguardo mi piaceva immensamente.
Le dispiaceva dispiacermi.
Mai un ansito, mai un gemito.
Ogni tanto spalancava gli occhi per la sorpresa di provare piacere.
E mi sorrideva misteriosa.
Una puttana romena di neppure vent'anni.
La mattina scappavo da casa mia come un clandestino, in silenzio. Lasciavo dolorosamente il letto caldo, inconsapevole del futuro.
Lavoravo, mangiavo, scherzavo con gli amici.
Potevi aspettarmi, diceva e non diceva al telefono quando si alzava verso le due.
Ma ieri notte ti ho aspettata, obiettavo.
Questa mattina te ne sei andato, osservava evidente.
Avevo ragione, certo, tutto mi dava ragione. Ma capivo la sua illogica ragione.
Quando tornavo la sera, trovavo i suoi resti.
Le impronte ancora umide dei suoi piedi sul pavimento del bagno, di fianco alla doccia. Tazze sporche e cicche nei posacenere.
Non mangiava mai. Come cazzo faceva a tenersi su?
Neppure io mangiavo molto in quel periodo. Ero troppo preso.
Giusto, mangiare. Pensai questa notte.
Nonostante non avessi fame, andai a prepararmi un tè con i biscotti. Mi sarebbero venuti su fino a domattina, ma chissenefrega.
Chiamai Helena e la pregai di non venire.
Lei disse ok, ma sembrava un po' irritata.
Del resto, con me finiva la nottata senza troppi problemi. Sa come prendermi e sa cosa mi piace.
Meglio passare due ore a giocare sul letto per cento euro che sbattersi a fare tre pompini in macchina in strada per la stessa cifra, pensavo cinicamente.
Nonostante questo, riflettevo, devo ammettere che anche lei, a suo modo, mi ricambia. Con la differenza che, anche se le riconosco, le sue cifre non m'incantano. Non mi fanno soffrire.
Forse, non si ama senza soffrire, senza avvertirsi mancanti in qualcosa.
Non ti muovere, fammi sentire.
Questa volta ti ho aspettata.
Ti eri addormentato, obiettava ridacchiando.
Non mi ero ancora del tutto rassegnato, allora.
Siete tanto facili, voi uomini.
Non mi andava di prendere lezioni da una puttana romena di neanche vent'anni.
Adesso te lo ficco in gola fino alle palle.
Certo, capo.
Mi guardava torva elaborando oscuramente il modo migliore per farmela pagare.
Non si sottraeva a nessuna delle mie richieste.
Si tirava via dal mio grembo, con il pube glabro ancora umido e si inginocchiava per terra, per facilitarmi le cose.
Fino alle palle, borbottavo stringendole forte la testa.
Serrava gli occhi per lo sforzo di tenermi dentro. E ogni tanto tratteneva un conato.
Tutta dentro, decidevo.
E lei ingoiava tossendo.
Poi, si tirava via con uno scatto che tradiva il nervosismo.
Certo, sorrideva storta, che sai come prenderle le donne.
Scusami, sono uno stronzo, imploravo contrito.
Siete tanto facili, diceva e non diceva il taglio triste dei suoi occhi neri quasi orientali.
Adesso dormiamo, proponevo cercando di abbracciarla.
Travolto non ancora dai sensi di colpa, ma dalla certezza di commettere continuamente errori, per mancanza di comprensione.
Si lasciava avvolgere dai miei arti, ma non si lasciava andare.
Meditava, forse, su come mi avrebbe ferito alla prima occasione.
Ma dopo, passato il livore, si addormentava apparentemente serena.
Un sonno lieve e passeggero, che non durava.
Prima, mi fissava un po' con aria stanca e mi allungava le labbra.
Mi piace come baci, diceva e non diceva strusciando il seno sul mio petto.
Così, quando si svegliava con una piccola scossa, la baciavo di nuovo, con la bocca impastata e l'affare ancora duro e impaziente.
La giravo e, con la poca tenerezza che mi era rimasta, la penetravo piano.
E lei torceva il collo, torceva sempre il collo quando le entravo da dietro, e mi guardava terrorizzata.
Ma che cazzo stai facendo? Diceva.
Diceva e non diceva.
È successo una volta, e solo perché mi hai presa impreparata. Ma non puoi decidere sempre tu.
Si tirava via e si metteva supina. E allargava le gambe, ripristinando la correttezza dei ruoli.
Non hai voluto fare come dicevo, diceva e non diceva il suo sorriso sardonico, allora non andremo da nessuna parte.
La fottevo, la fottevo, la fottevo.
E lei neppure un ansito, mai un gemito.
Gli occhi sempre spalancati a controllare e giudicare.
Siete tanto facili, voi uomini.
Troia, puttana, stronza, inveivo con frustrazione incontrollabile liberandomi della tensione dentro di lei.
Non prima di averla messa a pecora e dopo averle inumidito il buchino dietro.
Quello che faccio con te, diceva e non diceva stringendo forte le lenzuola tra le dita contratte per il dolore, lo faccio con tutti.
A parte il preservativo, mi auguravo cercando inutilmente di ingannarmi.
Profilattico a parte, annuiva con l'aria sardonica di quando stava mentendo forte.
Dio, quanto la odiavo.
Si sentiva che si sentiva superiore.
Quanto mi sei mancata! Come ho fatto a non accorgermene in tutti questi mesi?
Perché, anche se lei mi insegnava - sta fermo, non muoverti - io ero un allievo indisciplinato, sempre preso a strolicare, stravolto da ansie di capire.
Quello che non si poteva capire.
Troia, inveivo alla fine di quegli interminabili pomeriggi passati a guardarci fissi negli occhi e baciarci appena, il mio affare sempre dentro la sua passerina stretta.
Facendo questo mestiere, si vantava, scopo tutto il giorno. Ma sono elastica.
Elastica 'sto cazzo! Ruminavo spingendo più che potevo. Adesso te la rompo.
Ma lei, quando cominciavo con la mia ossessione, sorrideva superiore.
Quello che faccio con te, diceva e non diceva, lo faccio con tutti.
Uscivo da davanti e le entravo dietro senza neppure bagnarla.
Troia, inveivo stringendole il collo.
Il cazzo nel suo culo fino alle palle e i suoi piedi sul petto che cercavano di spingermi via.
Stringeva le lenzuola con le dita adunche e quando si sentiva soffocare tirava fuori la lingua.
Quello che faccio con te, lo faccio con tutti. Basta che pagano.
Questo no, mormoravo.
Anche questo, sussurrava impietosa, basta che pagano.
Questo no, insistevo straziato da una gelosia genetica e inconsapevole.
Questo no, ammetteva tossendo ormai quasi cianotica.
Mi tiravo via e mi rannnicchiavo in un angolo del letto, ancora inconcluso e sporco di merda, mentre lei ansimava per lo sforzo di riprendere a respirare.
Mai un ansito, mai un singhiozzo, mai un lamento.
Solo quegli occhi spalancati di stupore, ogni tanto. Quando dettava lei i tempi del fare l'amore.
Mi hai ingannato, le sussurravo amaro negli ultimi giorni. Ormai rassegnato a lasciarle comandare quel gioco.
Mi permetteva di starle sopra. Sempre senza muovermi.
Ad occhi chiusi, ogni tanto tirava un respiro forte.
Poi li spalancava.
Ogni volta scommettevo su come sarebbero stati.
Spaventati per il piacere, terrorizzati per un orgasmo ormai prossimo, sardonici e impietosi.
Perdevo sempre.
Io ingannato? Obiettava, e tu allora?
Io non ti ho mai mentito.
Sapevo di avere ragione.
Lei alzava le spalle.
Hai scopato con altri senza, l'accusavo.
Solo con te, mentiva.
La mail del mio amico, insistevo.
Io quello non lo conosco.
Ma lui sì.
Solo con te, perorava cocciutamente stringendomi in un abbraccio straziante.
Sapevo di avere ragione. Ma capivo le sue ragioni.
Dovevi aspettarmi, dichiarava in modo del tutto incoerente, quasi rituale.
Erano le quattro passate, rispondevo come fossero le battute di una commedia non ancora mandata del tutto a memoria.
Ti sei divertito, almeno?
Non era lavoro.
Così, lei taceva. E mi faceva tacere.
Dio, pensavo questa notte prostrato sul divano. Sono quasi le quattro e mi sei mancata da matti. Come ho potuto non accorgermene in tutti questi mesi?
Il tempo fluiva svelto come pioggia sul cemento. E faceva lo stesso rumore inutile.
Ma quella sera, la sera in cui si addormentò tra le mie braccia e annusai i suoi capelli conservandone un ricordo indelebile. Quella sera, eravamo tesi da matti.
Erano settimane che la terrorizzavo spiegandole che, con quello che era successo, potevamo entrambi essere sieropositivi. E che lei aveva anche più probabilità di me. Sempre che i miei sospetti e quanto avevo appreso indagando fosse vero.
E tutto lasciava intendere che lo fosse.
E la mattina dopo avevamo un appuntamento alle sette in ambulatorio.
Si addormentò con uno dei suoi lunghi sospiri da ragazzina esausta.
Dopo che le avevo chiesto se voleva fare l'amore. E lei aveva risposto che era troppo nervosa. Che domani, dopo la risposta degli esami. Dopopranzo.
Ok, mi ero arreso.
E lei mi aveva abbracciato stretto, si era scavata un posto tra il mio fianco e il materasso e si era addormentata.
E io, sedato dalla sua provvisoria serenità, l'avevo imitata.
Ma solo mezz'ora dopo, lei si era svegliata. Aveva fatto una specie di piccolo scatto.
E mi ero svegliato anch'io.
Ero troppo imbambolato per fare la scommessa di come sarebbe stato il suo sguardo.
Ma quando aprì gli occhi, erano tristi.
Tu mi ami, aveva mormorato.
Non era una domanda, era l'evidenza di una constatazione.
Aveva ragione, anche se non lo sapevo.
Non avevamo mai parlato d'amore. Questa era una novità. Fino a quel momento, l'amore era fare l'amore.
E io, che avevo crudelmente aspettato quell'occasione di rivalsa da mesi, avevo scosso il capo in un muto diniego.
Tu mi ami! Aveva esclamato indignata. Sicura di avere ragione.
Ma io continuavo a negare. Che senso aveva dirselo?
Che senso aveva chiederselo?
Tu mi ami, tu mi ami, tu mi ami, insisteva irritata cominciando a colpirmi il viso e le spalle.
Cercavo di difendermi tenendole le mani.
Tu mi ami, singhiozzava con le guance rigate dalle lacrime, quando l'ebbi imprigionata.
Lo sguardo ancora una volta terrorizzato e un falso sorriso frustrato.
Dimmi che mi ami, figlio di puttana, implorava con il petto scosso dai singhiozzi, per una volta dimmi la verità. Bastardo! E poi sarei io quella che mente!
Mi spiace, mormoravo ipocrita, colpevole e sempre più disorientato.
Tu mi ami, piagnucolò ancora rassegnata.
Mi dispiace, risposi perfidamente.
La ragazza si girò a darmi le spalle, continuando a lacrimare in silenzio.
Tu mi ami, diceva piano ogni tanto.
E tu? Trovai in coraggio di chiedere.
Taceva piangendo, le spalle frementi per il disappunto.
Quello che faccio con te, diceva e non diceva, lo faccio con tutti.
Basta che pagano, pensai sgrammaticando, basta che pagano.
Sapevo di avere torto. Ma delle volte si preferisce l'errore.
Io, mormorò a un certo punto, si sa.
Si sa 'sto cazzo! Inveii, troia, puttana e stronza. Non hai fatto altro che ingannarmi. Mi hai mentito.
Lei scuoteva le spalle inconsapevole.
E allora? Sembrava dire torcendo il collo. Che differenza farà mai?
Il suo sguardo malandrino era irresistibile, nonostante le palpebre gonfie per il pianto e le guance umide e arrossate.
E tu? Chiese invece.
Io non ti ho mai mentito, borbottai sicuro di avere ragione.
Ma quella spiegazione sembrava senza senso.
Che importa mentire? È una delle tante cose che succedono, perché preoccuparsi?
Tu mi ami, sorrise speranzosa girandosi ad abbracciarmi.
Mi dispiace, tenni duro.
Mi guardava incerta se la stessi prendendo in giro o parlassi sul serio.
Non poteva accettare nessuna delle due ipotesi. Come potevo non amarla?
Non ne avevamo mai parlato, ma era evidente che l'unica idea che potesse accettare era che io l'amavo. Era semplicemente nelle cose.
Lei sapeva di avere ragione.
Tu mi ami, sussurrò titubante.
La fissavo senza rispondere. La cosa si stava facendo seria.
Che importanza aveva dirselo?
Sentivo che stavo commettendo un altro errore. Qualsiasi cosa avessi fatto sarebbe stato un errore.
Dobbiamo dormire, le ricordai.
E lei annuì seria, forse capendo che qualcosa era finito.
Mi strinse con un affetto che non conoscevo. Forse l'affetto della nostalgia preventiva di chi sta per lasciarsi.
Dormiamo, aveva acconsentito.
E io l'avevo guardata di nuovo rilassare i muscoli del viso e respirare piano.
E quando fui sicuro che stava dormendo, immersi ancora una volta il viso nei suoi capelli.
Sapevano di aceto e di miele. Un sapore antico, un sapore saggio.
Indimenticabile.
Era ormai quasi l'alba, questa notte, ed ero ancora prostrato da tutti quei ricordi e dall'amaro che mi lasciavano in gola. Frenetico per il desiderio di fare qualcosa e frustrato dall'inutilità di intraprendere qualsiasi iniziativa.
Quanto mi sei mancata, cazzo di cane, come ho fatto a non accorgermene in tutti questi mesi?
Era quasi l'alba e la mia ansia peggiorava. Forse avrei dovuto dormire.
Ma come potevo dormire con il ricordo del suo viso impresso nella memoria e il retrogusto amaro dell'odore dei suoi capelli nel naso?
Forse non sarei mai più riuscito a dormire.
Che senso ha dormire?
Il tempo è fatto per esserci, non per essere assenti.
E, senza di lei, questo tempo perde senso. Questo tempo è solo assenza.
Stavo da cani.
Verso le sei, preso dallo sconforto, cancellai in modo permanente tutti i suoi numeri dalla memoria del mio cellulare. Deliravo, lo so.
Poi mi ricordai che era anche nei contatti della mia posta elettronica.
Cancellai anche quelli.
Dovevi aspettarmi, rispondeva sempre cercando di sviare le mie domande.
Io ribadivo i miei dubbi, sapendo di avere sacrosanta ragione.
Ancora non sapevo che, di lì a qualche giorno, avrei dovuto aspettarla per sempre.
Mi sei mancata da matti, pensavo cancellando anche le sue foto dalla memoria del cellulare e da tutte le cartelle del computer.
E ti aspetterò per il resto della mia vita.
Obbedendo alla frenesia di quell'ossessione iconoclasta, cercai la molla per i capelli e il nastro che si era dimenticata a casa mia e li bruciai nel posacenere.
Facevano una certa puzza e una fiamma azzurra.
Probabilmente sprigionavano gas velenosi, che mi avrebbero definitivamente intossicato.
Poi mi ricordai del vaso di ciclamini che mi aveva regalato in dicembre. Erano bianchi e avevo detto a mia moglie di averli comprati in un negozio in centro. Che mi sembravano molto belli. Tra l'altro era vero.
Sradicai la piantina e la gettai nella pattumiera. La terra che era rimasta la buttai un po' alla volta nel water, e la dispersi tirando l'acqua.
Poi ruppi in tanti prezzi il vaso di terracotta.
Con quello, mi sembrava di essermi liberato di tutto quanto era stato suo.
Tranne me.
Quel giorno, dopo le analisi, non andai a lavorare, presi un giorno di ferie. Ero troppo teso.
Lei sosteneva di avere un gran mal di testa e voleva dormire, così l'accompagnai a casa sua. Da me non si poteva, doveva venire la donna delle pulizie.
Verso le quattro del pomeriggio, parecchio agitato per la tensione a la paura, andai a prelevare i referti. Aprii il mio. Negativo, certificava.
La chiamai.
Ovviamente, non rispondeva.
Con qualche titubanza, aprii anche il suo. Miracolosamente negativo a tutti i test.
La richiamai.
Possibile che non fosse curiosa di sapere se era malata?
Presi la macchina e andai verso casa sua. Per qualche settimana mi aveva tenuto nascosto che aveva cambiato appartamento. Lo sapevo lo stesso, ma ero furioso per quella menzogna per omissione.
Finalmente rispose.
Allora? Chiese con una punta di ansia.
Stavi lavorando, prima? Elusi.
Stavo dormendo, rispose evasiva, ho un terribile mal di testa.
Negativo, la tranquillizzai, scendi che te le do. Poi me ne vado.
Sembrava incerta.
Avevamo detto..., borbottò.
Lo so cosa avevamo detto, risposi, ma è tardi, tu hai già scopato non so quanti clienti e non mi va.
Stavo dormendo! Protestò alterandosi.
Me ne frega un cazzo, dichiarai sinceramente esasperato, scendi che ti do le analisi.
Fottiti tu e le tue analisi! Urlò chiudendo il telefono.
continua
tutto quanto precede questa riga è falso