Beth Harmon è una bambina orfana, il padre si è dato alla fuga a causa delle eccentricità della madre, la genitrice è morta in un controverso incidente stradale al quale la piccola, di soli nove anni, è miracolosamente scampata. L’America degli anni 50 è lo sfondo di questa avvincente storia incentrata sul gioco degli scacchi. “
Che palle!” direte. E invece no. Non serve essere appassionati di un gioco così astruso e di nicchia per rimanere incollati alla tv fino alle quattro del mattino al ritmo di “
l’ultima puntata e poi spengo”.
Le scenografie sono curate nei minimi dettagli così come sorprendente è la scelta dei costumi, dei colori e della musica.
La narrazione parte dalla prima infanzia di una bambina prodigio che, nell’istituto a cui è stata affidata, familiarizza con il gioco di strategia grazie ad un vecchio e taciturno custode. Come tutte le menti eccelse manifesta disagio per la realtà circostante sviluppando una sorta di escapismo nelle 64 caselle. “
Perché lì la realtà può essere prevedibile, puoi dominarla”. Disagio che si manifesta però, come spesso accade, con tendenze autolesioniste e autodistruttive, sviluppando dipendenza da farmaci e alcool.
Il titolo originale si traduce letteralmente con “
Gambetto di donna” che è l’apertura con cui si dà spazio alla regina e si imposta così un gioco sfrontato e aggressivo. Per quanto la donna fosse relegata a ruoli marginali nella società del tempo e il gioco fosse feudo del mondo maschile, la serie non ha eccessive pretese femministe e propagandiste.
Non è nemmeno la solitudine e la dipendenza l’argomento principe, non è quello il messaggio che vuole trasmettere il romanzo da cui la serie è tratta. Così come non è il reale fulcro la finale mozzafiato contro il temutissimo player russo.
“La Regina degli Scacchi” narra della partita contro la vita, quella che è necessario vincere per riemergere da una condizione di disagio. Descrive la difficoltà che deve affrontare ogni individuo che si trova in un baratro, per ascendere e normalizzarsi. Difficoltà scaturita dal fatto che nella maggior parte dei casi è proprio l’individuo a remare contro se stesso. Beth Harmon non gioca contro il proprio avversario, ella gioca
con il proprio avversario ma contro se stessa. È quella la sua sfida finale. Il premio, la posta in palio, è l’equilibrio e pertanto la sopravvivenza. Vinta l’ultima partita subentra l’armonia dovuta al fatto di non avere più alcun opponente. La scacchiera dunque come elemento di congiunzione e non di separazione, come mezzo per raggiungere uno status trascendentale e non solo il plauso del pubblico. Nel gioco, così come la vita, disciplina, tecnica, attitudine, visione di gioco, sono qualità indispensabili. Ma ciò che determina il successo o la sconfitta è l’istinto, l’adattarsi, l’evolversi grazie alla capacità di saper osservare i fenomeni da diverse prospettive per evitare le scelte sbagliate. (Rivisitazione di un insegnamento di vita impartitomi da
@ariace persona che stimo molto)
Ps piccolo appunto: la Beth Harmon (interpretata da Anya Josephine Marie Taylor-Joy) che abbiamo già visto in “Peaky Blinders”, è dotata di una bellezza fuori dai canoni ordinari, è “particolare”. È un po’ nerd, ha un’espressione meditativa e assorta, indossa eleganti outfit anni ‘50, è appassionata di giochi di ruolo, ha un bel culo, tette giuste, curiosità saffiche ed è anche rossa. In pratica incarna l’ideale di donna per la quale
@Matbeo non si accontenterebbe di sganciare cifre folli. Per una così farebbe quanto di più ardito: la trascinerebbe all’altare. Poi magari mi sbaglio...