Come promesso, ecco (mi dispiace per voi) un altro mio editoriale, sperando a distanza di quasi una settimana, di fare un po' di chiarezza sulla questione. Non tanto rispetto ai comportamenti, ma quanto alle reazioni dell'utente medio e ai suoi sentimenti.
Mettiamoci comodi, perché qua c’è bisogno di una chiacchierata lunga, di quelle che di solito si fanno al bar con un caffè corretto o, meglio ancora, con uno spritz bello carico. Perché sto vedendo gente nel panico, in preda a sensi di colpa manco avessero rubato la cassa della parrocchia, altri terrorizzati come se li stessero già aspettando i carabinieri sotto casa con le manette e persino quelli che si vedono già in gabbia a mangiare arance a spicchi. La verità? Siamo di fronte alla solita mancanza di consapevolezza generale. Quella cosa che, quando succede un casino mediatico, fa sì che il 90% delle persone non sappia distinguere tra
scandalo vero e
scandalo cucinato ad arte. Non ci metto solo il popolino, eh: ci finisce dentro pure mezza stampa, opinionisti da salotto, pseudo-femministe last minute e maschietti con la coscienza sporca che cercano disperatamente di “riabilitare la propria immagine” sputando veleno a destra e a manca. Uno spettacolo.
Partiamo dai nostri eroi preferiti: i giornalisti. Quelli che dovrebbero informarci, no? Quelli con la missione nobile della verità, la schiena dritta, l’etica professionale… e poi cosa fanno? Pubblicano dati personali di amministratori e gestori della piattaforma incriminata senza nemmeno citare la fonte. Capito? Nemmeno un link, una prova, un documento. Così, alla buona, tanto per buttare benzina sul fuoco. Se questo è giornalismo....
Ma si sa: lo scandalo vende. E se non c’è lo scandalo, lo si monta. “Non importa se è vero, basta che faccia scalpore.” È la regola numero uno delle redazioni odierne.
Non mi voglio spingere in dinamiche che risulterebbero provocatore, ma mi tocca spendere qualche parola. E qui mi ci fermo un attimo, perché la parte più divertente arriva adesso: le pseudofemministe dell’ultima ora. Quelle che fino a ieri parlavano di tutto fuorché di tutela dei diritti e oggi come per magia diventano opinioniste con il patentino della verità in tasca. La dinamica è sempre la stessa: parte un caso mediatico, loro fiutano l’occasione e zac, salgono sul carro. Una colata di frustrazione spacciata per battaglie sociali. Ma se vai a scavare, scopri che quello che interessa davvero non è la tutela della donna, ma il posto in prima fila nei talk show e i like sui social. E scusate se sono brutale, ma il femminismo vero è un’altra cosa. Qua si parla di marketing personale. Di rebranding. È come se improvvisamente ti riciclassi come “paladino dell’ecologia” solo perché hai comprato la borraccia di metallo su Amazon.
E dall’altra parte ci sono i maschi. Non tutti forse, ma quelli che ho incrociato in tv e sui social, fanno parte di una strana categoria: quelli che all’improvviso, toccati nell’orgoglio, dichiarano pubblicamente di sentirsi schifati di appartenere alla categoria “uomo”. Oh, attenzione: non perché abbiano fatto qualcosa di male, ma per lavarsi la coscienza. È la classica strategia del “se sputo abbastanza veleno sulla mia stessa categoria, magari passo per il buono della storia”. Tentativo patetico di revirgination, come lo chiamo io. Roba da manuale di ipocrisia politica e giornalistica.
Mi piacerebbe che qualcuno, in diretta televisiva, gli chiedesse: “Scusa bello, ma il tuo numero di telefono se lo googliamo su Numbuster o su quei forum rosa di cui non parlate mai, cosa salta fuori?” Sarebbe bello vederli sbiancare in tempo reale. Ecco, lì sì che ci divertiremmo.
Chi è senza peccato, scagli la prima pietra. Duemila anni fa lo dicevano già, eppure la gente continua a non capirlo. Tutti pronti a puntare il dito, ma poi se guardiamo dentro il telefonino di ognuno di loro, non rimane nessuno con le mani pulite. E non parlo di grandi reati, ma di banalità quotidiane che oggi verrebbero spacciate per scandali. Servirebbe un Vittorio Feltri in vena di strapazzare tutti, senza peli sulla lingua, capace di riportare la gente alla realtà. Non per giustificare comportamenti deprecabili, ma per ricordare che certe dinamiche fanno parte della vita, della quotidianità. Non tutto è “crimine”, non tutto è “violenza”, non tutto è “trauma epocale”. Viviamo in un’epoca dove un apprezzamento diventa automaticamente un insulto. Una frase buttata lì viene trasformata in tentativo di diffamazione. Ormai qualsiasi interazione viene letta con la lente del sospetto, come se dietro a ogni parola ci fosse la volontà di distruggere qualcuno. Così si creano polveroni enormi per cose che tutti sanno, che tutti conoscono, che non sono la scoperta del secolo. Si prende un minestrone di fatti, lo si frulla, e lo si serve come scandalo nazionale. Ma la scoperta dell’acqua calda non dovrebbe essere trattata come se fosse la nuova teoria della relatività.
E già che ci siamo: perché nessuno ha il coraggio di parlare delle chat femminili? Quelle dove si commentano uomini, foto, situazioni in modi che se li scrivesse un uomo finirebbero in prima pagina come “offese sessiste”. Vi ricordate l’app TEA? Ne abbiamo parlato qualche post indietro. Ecco, lì dentro le ragazze si sono organizzate meglio dei maschietti. Ma chissà perché quello scandalo è già sparito dai radar. Evidentemente non faceva comodo a nessuno parlarne troppo. O ancora: app come Numbuster, nate per l’antispam telefonico, che vengono usate come veri e propri elenchi pubblici dove circolano contatti, numeri, perfino immagini. Tutto spacciato per tutela, ma che spesso diventa vendetta.
Se a farlo sono le escort o le signore che vogliono “avvisare”, va bene. Se a farlo è un gruppo di uomini, allora diventa mostruoso.
Altro grande classico: la demonizzazione dei social network. Quando serve, diventano il diavolo in persona, la causa di tutti i mali. Però, guarda caso, gli stessi articoli che denunciano i social hanno la sezione commenti piena di materiale che, per toni e contenuti, non è diverso da quello che si leggeva su certi siti “cattivi”. La differenza? Che se succede su Facebook o Instagram va bene, se succede in un forum indipendente no. Ipocrisia istituzionalizzata.
E poi, scusate, ma qua bisogna dirlo: dietro a queste piattaforme non c’era Satana in persona a orchestrare piani malefici. C’erano persone che nel 2005 hanno aperto un sito come se ne aprivano a migliaia. Niente piani segreti, niente complotti globali: solo un progetto partito piccolo che col tempo è cresciuto, ha macinato traffico, banner, affiliazioni, abbonamenti. Si chiama business, non cospirazione. Hanno cavalcato l’onda finché hanno potuto, senza magari avere la preparazione imprenditoriale necessaria. Perché gestire un sito UGC (User Generated Content) non è una passeggiata. Richiede infrastrutture, regole chiare, attenzione legale. Se non sei pronto, prima o poi la baracca ti esplode in mano. E infatti è successo. Ma non raccontiamoci frottole: il funneling, la profilazione, il passaggio da contenuto “soft” a contenuto più spinto per monetizzare… sono le stesse dinamiche che trovi su Instagram con la pubblicità mirata. Solo che se ti appare il prodotto visto un’ora prima su Amazon, nessuno si scandalizza. Quindi: non facciamo finta che siano scoperte sconvolgenti.
State sereni!
E qui arriviamo al punto centrale: state sereni. Nessuno vi viene a bussare alla porta perché avete guardato un contenuto o scritto un messaggio. Non funziona così. Le class action? Porteranno soldi e visibilità agli avvocati, non a voi. Le influencer? Guadagneranno pubblicità gratuita e follower. I giornalisti? Click, like, share e stipendi garantiti. Voi? Un po’ di ansia inutile e un sacco di tempo sprecato.
Ultimo punto, ma fondamentale: ci sono donne consenzienti che partecipano a certe dinamiche senza problemi e ci sono donne deboli che subiscono davvero. Quelle più deboli non parleranno mai, non finiranno nei talk show, non avranno voce. Eppure sarebbero loro a meritare tutela vera. Ma è più comodo concentrarsi su giornaliste, influencer, politiche e personaggi pubblici che sfruttano anche gli scandali negativi per trarne visibilità. Quella sì che è ipocrisia.
In conclusione, non giustifico comportamenti violenti o illegali, ma nemmeno mi faccio fregare dal teatrino dell’indignazione a comando. La verità è che qui c’è un mix di moralismo, business, ipocrisia e ansia sociale. E l’unica cosa che dovremmo fare è accendere il cervello, smettere di farci trascinare dal clamore e ricordarci che non tutto quello che brucia è incendio: a volte è solo fumo.