Dopo l’ultima esperienza mi sa che dovrò appendere le palle al chiodo per un po’, riuscire a surclassare è pressoché impossibile. Ma mai darsi per vinti. Intanto mi cullo nei ricordi dato che per un po’ non avrò un cazzo da scrivere. Il thread nasce per i racconti no prof, temo di esse scaduto nella categoria “free”. Non sapevo dove altro depositare questo mio vomito.
D’estate si andava e bere al Nero, un bar all’aperto, sull’isola di Nisida. L’ingresso era un imbuto, lo spazio era poco ed i buttafuori facevano un tappo bestiale. Appena entrato mi sono voltato ed una morettina mi fissava sorridente con lo sguardo da cucciola dolce e le mani giunte in preghiera. Sono tornato indietro ed ho sbottato con l’addetto “se lasci fuori le belle ragazze, i clienti che minchia ci vengono a fare qua dentro? Dai falle passare!”. Quel bestione null’altro potette fare che incassare e staccare il gancio di quella corda che delimitava l’ingresso. Lei si è incendiata in un sorriso, io l’ho presa per mano e l’ho tirata dentro insieme all’amica. Subito un abbraccio al collo e “grazie Giulio...ma come non mi hai riconosciuta? sono l’amica di...” Si vabbè, presenta la tua amica al mio compagno di merende e andiamocene a bere. Non avevo un tavolo, eravamo in due e solitamente, in quel numero, mi appoggiavo direttamente al banco del bar. Meno impegnativo, molto più ergonomico. Su quel banco facevo un po’ il cazzo che mi pareva, ero tutto euforico, in un vero e proprio delirio di onnipotenza. Stavo simpatico e brillante, salutavo le solite facce, più che altro loro cercavano il mio saluto, giocavo col ghiaccio, con le cannucce, con i bicchieri, con le bariste, con la cassiera, mi assicuravo che le mie due ospiti dell’ultim’ora avessero sempre un tumbler pieno, rimanendo però distaccato ed impegnatissimo, in quella calca, nelle mie pubbliche relazioni. Lei cercava la conversazione, la sua amica strillava come una scimmia nelle orecchie del mio compare mentre se la ridevano allegramente, ma noi eravamo troppo vicini alle casse acustiche. Ha provato due volte a parlarmi ma era pressoché impossibile comunicare. Cin Cin, bevi stronza, continua pure a bere, che tanto non ti sento. Era una di quelle attention queer, aveva carpito la mia attenzione per opportunismo, consideravo la sua permanenza strumentale, la simbiosi tipica dei tavoli, tu bevi gratis e becchi il pass, io faccio bella figura con un po’ di figa accessoria, insomma non la cagavo anche perché era troppo bona e la consideravo una perdita di tempo. Le sarà stata sul culo la mia sufficienza ed il fatto che da buon egocentrico, facevo più scena io, easy e reduce da una giornata in mare, di lei che era uscita tutta in tiro nel suo abitino scuro e leggero, fasciato sui fianchi e corto sulle cosce. Due drappi di tessuto le coprivano un grosso paio di tette, alte e piene, andandosi ad annodare dietro al collo, la scollatura arrivava quasi all’ombelico, la schiena scolpita era esposta, era mezza nuda, non indossava reggiseno, il chirurgo l’aveva esonerata a vita, la brezza doveva averle inturgidito i capezzoli che si intravedevano con occhio attento. Le cosce erano lunghe ed abbronzate, slanciate dai tacchi abbastanza alti, il sedere non si intuiva perfettamente, il gonnellino era ampio e leggero. Il suo viso era spettacolare, un bel pezzo di fica, una bellissima nativa americana (napoletana), per colorito, taglio d’occhi, labbra e capelli: lisci, lucidi e corvini. Emanava una dolce essenza di agrumi, di Capri, Carthusia per l’esattezza: feci colpo persino indovinandone il profumo. Al terzo tentativo di conversazione, ormai disperato, portai una mano al centro della sua schiena, per avvicinarla delicatamente, per sentire meglio, con l’altra reggevo il bicchiere. Non è stato intenzionale, davvero, lei mi ha assecondato avvicinandosi e portando le sue labbra sulle mie, baciandomi in bocca inaspettatamente. Mi ha preso alla sprovvista, mi ha ciucciato il labbro inferiore e si è messa a ridere con sguardo birichino. Devo aver assunto una bella espressione da ebete. Ho mollato il bicchiere sul banco alla scoperta di tanta dolcezza e mi sono spostato con le spalle al muro, anche per togliermi da quel casino. L’ho stretta col bacino contro il mio per farle sentire il mio pene crescere dall’eccitazione. I baci, da languidi e lenti si facevano intraprendenti ed infoiati. Le lingue si intrecciavano e le mani faticavano a stare ferme. Indossavo un orologio ed il suo gonnellino deve essersi incastrato tra le maglie del bracciale. Me ne ero accorto, ma un po’ ubriaco e balordo, ho pensato bene di portare la mano più su, poco sopra al coccige, trascinandomi il tessuto che le copriva le natiche. Non so dire se lei se ne fosse accorta, ma non se n’è curata, vedevo il mio amico lì, alle sue spalle, ridere con la sua amica ed entrambi ci immortalavano con i cellulari. Ridevo anch’io mentre facevo il dito medio e continuavo a baciarla. Avrei visto solo il giorno successivo gli scatti dell’osceno perizoma che avevo offerto in visione a tutto il locale. Mi sembrava di sentirli: “ecco la classica sciacquetta col pollo pieno di soldi”. Quando non arrivano all’uva, prendono le banane...soprattutto perché soldi, qua, non ce ne stanno...banane avoja!
L’ho trascinata via di lì, siamo usciti con una mezza bottiglia di belvedere, ho preso un telo nella sella dello scooter e passando davanti alla guardiola di Bruno, sul molo, l’ho visto che sorrideva ammiccante e compiaciuto.
-“ma dove stiamo andando?”
-“vieni, ti faccio vedere le stelle!”
Qualche giorno prima Paride aveva recuperato in mare un magnifico Rizzardi in avaria proveniente da Gaeta. Era ormeggiato lì da giorni in attesa di perizia. La musica dance in sottofondo, le luci del porto, Nisida illuminata e le nostre sagome in controluce sul prendisole prodiero. Lei che si liberava del vestito mostrandomi il suo corpo sinuoso ed io che arrotolavo la polo per farne un cuscino. Le sono sgattaiolato tra le cosce, ho scostato gli slip e l’ho tirata giù, sulla mia faccia, per scoprirla tutta madida di umori. Aveva due tette stupende di cui ero riuscito ad agguantare i capezzoli allungando le braccia dal basso. La lingua scorreva a strofinarle il sesso, gonfio, viscido e coperto da un corto pelo. Ha cominciato ad ansimare immediatamente, si reggeva con una mano sul mio torace, seduta sulla mia faccia con la schiena obliqua all’indietro, con l’altra mano raccoglieva i capelli su un lato in un gesto voluttuoso che mi è rimasto impresso. Mentre leccavo e prosciugavo, bevevo il suo piacere, lei intanto accompagnava le saettate con versi sonori, al limite dell’imbarazzante. L’ho stretta più forte, ho cominciato a leccare più avidamente, a premere il suo clitoride, a succhiarlo, a schiacciarlo, facevo scorrere la lingua lungo tutto il solco, partendo dal culo e raccogliendone i fluidi dal sapore dolce e pungente. Si è poi buttata in avanti, a pecora, cavalcioni sul mio volto con le mammelle penzoloni. Le ho infilato due dita dentro ed ho cominciato a ravanare lentamente ma in maniera decisa, sentivo il suo orifizio lubrificato opporre resistenza, le carni aderirmi alle dita, mentre con la bocca continuavo ad offrirle stimoli. Il primo orgasmo deve averlo sentito anche Bruno, ne sono certo, urlava come una cagna, finché non ho rallentato, finché non mi sono fermato, estraendo le dita per lasciarla affannata ed esausta, accasciata sul mio torace. Finalmente libera dal fardello che doveva aver sopportato per tutta la serata. Era il mio turno, non c’era tempo, morivo dalla voglia, ero gonfio e duro da quando mi aveva baciato al bar. Manco mi è passato per la testa di ficcarglielo in bocca e farmi ricambiare il piacere. Scalzo e con le braghe alle caviglie, l’ho invitata a sedersi. Accovacciata in punta di piedi, con le ginocchia piegate e protese come se stesse per pisciarmi addosso, aveva agguantato l’asta con la mano e strofinava la punta del mio membro tra le sue labbra allagate. Ha ripetuto più volte volte quello strofinio, come a voler prendere la mira, prima di lasciarsi cadere impalandosi in un colpo solo. I nostri corpi si sono uniti, eravamo finalmente connessi, le ero dentro e la consapevolezza di averla penetrata, di averle cacciato la minchia in corpo, mi mandava il cervello fuori giri. Il suo verso liberatorio ancora riecheggia nitido nella mia mente, la sua vocale rimbomba, la prima, che ha ripetuto grave, strusciandosi con veemenza. L’ho tirata a me per sentire quei seni gonfi addosso, continuava a baciarmi come un’ossessa mentre il mio pene ne dilatava la fica ad ogni movimento del bacino, ritmato anche da una leggera risacca. I baci si sono poi interrotti, ma non lo strofinio. Percepivo il suo affanno sul mio collo, la abbracciavo stretta, continuava a strusciarsi e ad ansimare, io le torturavo il collo e l’orecchio, il crescendo è sfociato in delirio, si strofinava sul mio addome come se fosse una tavoletta per il bucato, si è abbandonata a questa sua epilessia fino a farmi udire nuove grida, accentuate, puttanesche, teatrali sicuramente, ma di piacere e rivelatrici del suo secondo sconquassante orgasmo. Bruno deve aver sentito anche quello. Sicuro. I suoi umori ormai mi colavano sulle palle. Ero al limite anche io, sapevo di non poter andare molto oltre, ci siamo invertiti, lei a pancia sotto ed io dietro ad ammirarne il culo scultoreo. Spostato di nuovo quel cazzo di perizoma, l’ho infilzata da dietro schiacciandola col mio peso. Con una mano le raccoglievo i capelli dietro la nuca, stretti in un pugno, devo averglieli tirati un pochino facendole reclinare il capo e la schiena all’indietro. Intanto le somministravo colpi secchi, vergate spinte con foga e cattiveria che il suo sedere ammortizzava egregiamente, fino agli ultimi colpi, quelli del formicolio allo scroto, premonitore del piacere, culminati un una ricca ed abbondante sborrata, accuratamente schizzata sul solco delle sue natiche tonde.
Ci siamo ricomposti sfruttando un angolo del telo, ho ripulito io stesso il misfatto. Siamo rimasti a bere, a ridere e a limonare finché non le è squillato il telefono. Era la sua amica. Riunita la combriccola, ci siamo salutati tra sorrisi maliziosi e le ultime parole famose:
-“Non sparire!”
-“Tu chiamami!”
Il pomeriggio successivo, come due drogati in astinenza l’uno dell’altro, eravamo già di nuovo insieme, a godere dei nostri corpi.
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