Piombò giù dalla canna fumaria preceduta dal fragore di mille rostri che graffiano pareti di gesso. Il suono metallico di una secca schioppettata sparata nell’aria di gennaio annunciò che qualcosa era atterrato sulla pietra del focolare. Lo sbuffo di caligine si dissolse, lasciando via via trasparire i contorni di un’apparizione terrifica. Una sagoma felina, vagamente angelica, accovacciata e pronta al balzo. Fasci di saggina le spuntavano da dietro le spalle come monconi di ali. Due bastoni di legno liscio di sambuco, leggermente arcuati, simili a fodere di katana, si incrociavano dietro gli esili lombi. Le dita lunghe e artigliate, e i tacchi bruniti, immersi nel cratere di cenere spenta che si era appena formato nell’impatto. Un’organza fittamente retata avvolgeva la chioma corvina e il volto, lasciando trasparire il biancore di una maschera anodina. Tutta di nero vestita, tubino aderente, autoreggenti velate.
L’apparizione stette un istante, come per misurare la stanza fiocamente illuminata, prima di allungare una gamba affusolata sul pavimento, e poi l’altra. Il tempo sufficiente, per far notare allo sgomento testimone che non portava le mutande.
Aveva sempre creduto nella Befana, non aveva mai smesso di aspettarla. Per tutti quegli anni, la sera della vigilia, le aveva apparecchiato un posto a tavola. Una porzione di lenticchie riscaldate o un brodino, un pugno di noci e una fetta di pane. Una mezza bottiglia di vino tappata vicino al bicchiere e altre inutili stoviglie sopra il ritaglio di tovaglia di un coperto ogni volta disertato.
La figura si accostò al desco e vi prese posto con un flessuoso gesto dell’anca, per non ribaltare la seggiola impagliata con i manici delle ramazze che portava a tracolla. Agguantò il collo della bottiglia facendo saltare con il pollice il sughero e si riempì il bicchiere.
“Non te l’ho portato il regalo, non hai fatto il bravo.”
Disse mentre, sollevando appena il velo, accostava le mani di un diafano pallore al vermiglio delle labbra sottili. Prese un sorsetto del liquido violaceo.
“Perché sei venuta, allora?”
Abbozzando una smorfia schioccò lievemente la lingua. Qualcosa la fece esitare, forse il sapore acidulo della bevanda, un Friularo dal portamento assurgente. Annuì.
“Per ascoltare la tua confessione, dall’inizio”
L’uomo, strappata una cartina dalla sua bustina, ci rollò una presa di tabacco leccandola, alla fine, lungo la lunghezza. Compì l’operazione meccanicamente, ostentando una flemma poco credibile. Poi, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo e stesse riprendendo un discorso appena terminato, la accese dando la stura, con espressione raggiante, a un soliloquio che sarebbe durato fino all’arrivo dei Re Magi, il mattino dopo, senza capire che ogni parola non detta avrebbe avuto il valore di una moneta di scambio.
Si interruppe soltanto quando la Befana, che aveva vuotato il bicchiere lentissimamente, come a cadenzare il ritmo del racconto, cominciò ad affondare il cucchiaio nella minestra che, da un pezzo, si era ormai raggrumata intorno alla cotica che vi affiorava nel mezzo, consumando infine anche quella, con voracità. Evidentemente le era venuta fame.