In Amazzonia col 19
Stava M. accasciato da certi suoi pensieri che quasi mai lo abbandonavano. Quel giorno, per togliersi di dosso quelle ambasce per almeno una mezz'ora, prese per buona e conveniente la risoluzione d'incontrare una signorina: per buona, perché gli pareva un modo divertente e affatto nuovo per distrarsi; per conveniente, perché valutava gli sarebbe venuta a costare meno delle visite specialistiche e delle medicine di cui s'imbottiva di solito per sentirsi un poco meglio. E poi quella mattina, proprio quella mattina, quella mattina precisa precisa, s'era svegliato con un formicolio sulla punta del cazzo che non sapeva come farsi passare in altro modo. Ancora in pigiama, allargava l'elastico stracotto dei pantaloni e se lo guardava e se lo rigirava per le mani e quello stava sempre lì e sembrava gli dicesse "ti prego, ti scongiuro, ficcami da qualche parte almeno oggi o non ti darò pace né oggi né domani né dopodomani e quanti altri giorni pensi ancora di campare".
M. non amava uscire di casa se non per andare al lavoro e al lavoro ci andava perché obbligato ad andarci altrimenti ne avrebbe fatto volentieri a meno. Prende un annuncio, prende il telefono e prende un appuntamento. Piano s'infila i vestiti, si abbottona il gilettino di lana a motivi scozzesi e si richiude dietro la porta. Il nome della via non gli suona nuovo, non perché sia già andato lì da una puttana (che anzi dall'andare a puttane sinora si era sempre trattenuto) ma perché a fare il messo comunale la città la si impara a conoscere a fondo e alla fine si può dire di conoscerla meglio di chiunque altro, meglio dei tassisti, meglio dei colleghi dell'ufficio toponomastica, meglio anche di chi la città l'ha costruita.
L'ultima occhiata che tollera è quella del portiere del suo stabile: ogni altra, di lì in poi, gli pesa come una patente d'anormalità. Non è per via della sua tonda e pingue pancia che lo precede di mezzo metro almeno e che lo obbliga, per compensazione, a flettere il busto all'indietro e a guardar tutto dall'alto in basso spostando la punta del mento; non è neanche a causa dell'andatura incerta che gli impone la sua gamba offesa, che neanche è di quelle belle andature fluide, circolari, che hanno taluni che sembrano dover caracollare a terra da un momento all'altro ma che ripigliano l'equilibrio ad ogni passo e che lui è arrivato persino ad invidiare nella sventura: è di quelle rigide e sforzate dacché l'articolazione del ginocchio, calcificata tre decenni prima, lo costringe a tirare avanti la gamba tutta distesa dopo ogni movimento di quella sana.
Più che altro – rifletteva – gli pesano gli sguardi dei passanti sul suo di sguardo, e le facce sbigottite, talvolta atterrite, che vede coll'occhio buono perché l'altro è una palluccia dall'apparenza vitrea (ma di quei vetri opachi e zigrinati che si usano mettere alla finestra del cesso) ma consistente come una pappa gelatinosa. Dell'iride e della pupilla è rimasta solo una chiazza appena appena più scura ma ben definita e le poche volte che se lo guarda da sé, allo specchio, quand'è meno triste e gli rivien voglia di esserlo (dato che le abitudini si rincorrono sempre, anche le spiacevoli), si stupisce ancora di quanto somigli all'occhio di un pesce cotto in forno.
"Ar pesce nun je piace d'esse pescato" diceva sottovoce il dirigente ogni volta che M. usciva di stanza per le consegne di giornata e così si tirava dietro i ridolini di mezzo ufficio, attento però a non farsi sentire dall'interessato. L'interessato lo sentiva eccome perché, se è vero che ci vedeva a metà e camminava a scatti, a sentire ci sentiva benissimo ma non gli andava di far polemiche e meno ancora gli andava di restar chiuso lì dentro a far polemiche e a fare l'offeso perché offeso lo era già nel corpo e c'era poco da fare. S'erano tutti stupiti il suo primo giorno di lavoro vedendo chi era stato fatto messo comunale e un vocio di sottofondo domandava e si domandava collettivamente come avrebbe fatto uno che ci legge poco e che cammina peggio a consegnare per tempo a chi di competenza quello che c'era da consegnare e a far firmare al posto giusto quello che c'era da far firmare.
A M. piaceva dire che a fargli girare la città da una parte all'altra non ci pensavano le sue gambe ma la municipalizzata dei trasporti e che, se pure un occhio era andato, all'altro dieci decimi ci aveva o quasi e che per appuntare una penna non gli serviva la vista bifocale che mica doveva tirare alle quaglie con la carabina o far saltare con la fionda la coda alle lucertole. E poi... e poi... e poi... chissenefrega dei colleghi e di quello che pensano: la legge lo protegge, la legge gli ha dato un posto e lui se le tiene stretto quale che sia che non ci si diverte ad essere orbi e zoppi e non lo si sceglie... anche se "'sto posto m'è costato un occhio" ogni tanto diceva per farsi simpatico agli altri e "non prendetemi sottogamba" aggiungeva facendo un disinvolto occhiolino... vien da sé, con l'occhio buono.
Neanche a sera M. si toglieva gli occhiali scuri cosicché, mentre il tram scorticava il bordo delle rotaie, qualche difficoltà la aveva a distinguere a che altezza si trovasse. Faceva conto, soprattutto, sulla memoria e sulla routine per calcolare la distanza percorsa e quella restante, e sui semafori e sulle insegne maggiori perché tutto il resto galleggiava nel nero nevrastenico di un quartiere in disperante coda per rincasare all'unisono. M. fretta non ne aveva ed era uscito per tempo, anzi con buon anticipo, rispetto all'ora con cui s'era annunciato alla puttana. Per quel che lo concerneva, poteva metterci anche un millennio e mezzo a tornare a casa sua che tanto ad aspettarlo non c'era anima viva: né una moglie, né un figlio, né un gatto o un canarino o un pescetto rosso. Di tenere un pesce, poi, per carità... non c'era neanche da parlarne. Gli sarebbe parso di avere un parente sotto vetro a guardarlo come lui guarda il mondo: male, di sbieco e con muto rancore.
Un'ora e cinquanta di percorrenze, tre cambi di mezzi, otto piedi calpestati, cinque "mi scusi" detti, tre "nun fa gnente" e tre insulti ricevuti, nessun sorriso, nessun controllo del biglietto: meglio così che l'esenzione gli era scaduta già da un pezzo e, pur di non uscire di casa, non l'aveva rinnovata ancora. Non che temesse una contravvenzione perché gli spettava di diritto di non pagare ed il resto è solo formalità burocratica. Sarebbe bastato tanto poco a far ricredere un controllore, per quanto severo e fiscale: un passo nella sua direzione e un'alzatina degli occhiali e via... altro che multa! pure le scuse gli avrebbe fatto il tizio... e allora si sarebbe sentito una volta di più un membro rispettato della società anche se, forse, avrebbe preferito esserlo in virtù di qualche merito personale e non per quelle sue manchevolezze, congenite alcune e sopravvenute altre, per le quali c'era poco da farsene un vanto.
M. giunse non senza impaccio al civico indicatogli, traversò il portone, scese pian piano, una gamba alla volta, la mezza rampa di scale che dava aria al seminterrato e s'avvicinò cauto ad una porta (semichiusa o semiaperta a seconda di come si preferisca guardarla). Ci ticchettò sopra con l'anello che portava al medio e questa gli fu aperta da Carmen che ristette due secondi a squadrarlo da capo a piedi ma, non trovando lì per lì nulla che la inquietasse in particolare, gli fece cenno di entrare e accomodarsi. Fu in quel momento, quando l'uomo le sfilò lemme lemme affianco nel corridoio, che notò una prima, una seconda, una terza peculiarità cui all'istante non aveva fatto caso ed erano l'incertezza del passo, la spaventosa rotondità ventrale e il suo procedere a tastoni nonostante la lampadinetta da 20 volt dell'applique (compagna di un'altra lampadinetta morta da tempo) rischiarasse il giusto necessario.
Nella cameretta di Carmen (letto, comò, seggiola con funzione di comodino) M. prese a togliersi la sciarpa srotolandosela da attorno al collo, e nel mentre guardava la posizione dei mobili: gli davano sicurezza. Si rendeva conto di aver avuto difficoltà all'ingresso e se ne vergognava, ma non riusciva comunque a rimproverarsi. Colpa del pavimento, di quel maledetto seminato alla veneziana che tanto piaceva negli anni '50 perché le porcherie in terra le camuffa bene ma che non offre linee dritte da seguire... "che avrà pensato di me la ragazza? che penserà di me?"... e la mano prese a tremargli tanto da non riuscire ad afferrare la stecca degli occhiali per levarseli di dosso e quando la afferrò pure gli occhiali presero a tremolargli vistosamente sulla gobba del naso e la stecca gli dava noia all'attaccatura dell'orecchio e sembrava incastrata a quel foglio di cartilagine sporgente. Ci rinunciò e se li tenne.
Carmencita pareva smarrita, perplessa, spaventata anche e se ne restava a quattro passi da lui impettita, con le manine cicciotte legate una all'altra e poggiate sull'inguine. Chissà perché, M. se le era immaginate tutte donne di polso quelle che fanno quel mestiere lì e invece la meticcetta india tutto sembrava fuorché di polso. "Allora?" le disse ma Carmen non gli rispondeva e se lo guardava paurosa e M. ringraziava allora l'impaccio che gli aveva fatto tenere gli occhiali ed entrambi bestemmiavano in cuor loro la situazione in cui erano e ognuno ne faceva una colpa all'altro. "Quanto vuoi?"... "Sinquenta" fece Carmencita guardando finalmente dabbasso. M. se ne sentì sollevato (dell'essersi scaricato di quello sguardo) e all'istesso tempo gravato d'oppressione... possibile mai una cifra del genere? no, non se l'immaginava possibile lui che per pigliarla in busta paga gli toccava girare un giorno e mezzo con la borsa a tracolla e pagarci su le trattenute. "Giuro che una confezione di Raspuzin Beta mi costa tre volte di meno e la pago a mezzi con la mutua e dentro ci stanno dodici fialette e ci sto a posto per quasi due settimane" fece all'indirizzo di Carmencita. "Eh?" venne di rimando dal fior di Colombia.
"Niente... dicevo che... vabbè, tieni" e tirò fuori dal portafogli venti, dieci, dieci e cinque euro e se lo rimise in tasca. Armeggiò nel taschino e fece cadere sonoramente sopra al taglio maggiore una manciata di monete che, sommata, faceva la cifra tonda... diceva fra i denti digrignati che era cavar sangue dai sassi ma Carmencita non lo capiva. Era tornata ad osservarlo, restando col capo reclinato, e le si vedevano le pupille fatte a mezzi dalle palpebre truccate. Da sotto il gonnello (un'ibridazione fra veste da camera e da campagna) le sporgevano all'infuori le cosce brozzolose cui si attaccavano due forti polpacci e due piedoni calzati nelle infradito di plastica turchina taiwanese (che era di miglior qualità di quella cinese, o così almeno le avevano detto sulla spiaggia dove le aveva comperate per non scottarsi la pianta benché callosa e tozza molto). Sulla prima falange dell'alluce e così per le altre dita, ma via via sempre più radi spuntavano lunghi peli neri che il contrasto col colore vivace della calzatura esaltava oltremaniera.
Tanto amabilmente paffute aveva le guanciotte che la sua giovane testolina aveva le sembianze di una rosada o di una decana del comizio come M. le aveva viste sui banchi dell'Esquilino quando s'era convinto a curarsi il mal di testa con lo zenzero grattugiato e se l'era andato a cercare fresco: larga sotto e stretta sopra. Un po' c'era rimasto male di non aver trovato la ragazza delle foto, una venere caraibica con due mammelle giganti e le labbra chiarificate su una pelle cioccolatosa, e si forzava a credere che fosse lei stessa in gioventù ma avvedendosi che giovane lo era anche adesso aveva presto rinunciato a cercare le somiglianze. Tel quel... così com'è... questo c'aveva e questo si teneva... nonostante la pancia, premendo sulla vestaglia e rilassandosi la stoffa al centro per breve tratto, lasciasse percepire che proprio lì in mezzo c'era, fra l'adiposa sedimentazione del cibo, l'ombelico, tondo su tondo, semisfera piccola rigirata entro una semisfera grande... perché da qualche minuto, da quando era entrato in quella casa, aveva ricominciato ad avvertire quel formicolio leggero ma insistente sulla punta del cazzo che l'aveva tormentato in mattinata.
Lo rasserenò pensare che ad entrare a casa di sconosciuti il lavoro, per forza di cose, ce l'aveva abituato. Si sedette di peso sul bordo del letto, a metà, e questo gli fece conca attorno... "scusa ma non ce la faccio a stare in piedi tanto"... spostò a forza di braccia la gamba offesa, tirò via il cappello e, concentrandosi sul gesto, riuscì a togliersi gli occhiali. L'occhio di pesce fece stendere a Carmencita le palme delle mani in avanti come a preservare la sua persona da un pericolo incombente. Cominciò a muoverle ruotandole asincrone a semicerchio attorno al fulcro del polso blaterando frattanto agitata "no se puede... no se puede señor... no no..." e il cuore le sballonzolava nel corpetto stretto stretto e il fiato le mancava e lo sguardo le si era fatto terreo... "yo no puedo... disculpame señor... disculpame... discu..." e un terror panico le stringeva la gola disseccata dall'affanno. "Ma che c'hai, 'na sincope? nun te sturbà... nun me collasserai mica?"... le faceva M., preoccupato più delle spiegazioni che avrebbe dovuto dare ai paramedici in caso di mancamento della signorina che della buona salute della stessa.
Quel che M. non sapeva è che nel villaggio di Carmencita, quand'ella era bambina, una pestilenza fece tanti morti quanti poteva benedirne ogni giorno il prete. Non se n'era mai capita la causa. Si sapeva soltanto che a quelli che venivano infettati si gonfiava il ventre come agli annegati rimasti in acqua per tre giorni e in tre giorni precisi se ne andavano e certi vermicelli bianchi e fini, quasi trasparenti, cominciavano a mangiarseli da dentro quando ancora potevano biascicare le novene tenendo il rosario in mano. Al terzo giorno, una paralisi li prendeva tutti alle braccia e alle gambe che s'irrigidivano, e allora restavano stesi come tante bamboline di legno a guardare con fissità il soffitto delle capanne loro, tutte di frasche e foglie di palma, e il diavolo se li portava in poche ore così: gonfi, pietrificati, con l'espressione attonita e spenta. Che se li portasse via il diavolo lo dicevano tutti ma lo pensavano in pochi. Era credenza comune dei villaggicoli che si trattasse della vendetta di una divinità irata, di un dio degli antenati o della foresta, di una potestà atavica che davanti al prete non la si poteva nominare perché i preti sono uomini di città e gli uomini di città certe cose non le capiscono o non le vogliono capire.
E se gli uomini di città fingono sempre di non capire le credenze degli uomini della foresta impenetrata, che per loro son verità palpabili al pari del fiume, del giaguaro e delle formiche, come può Carmencita spiegare le sue paure al pingue signore che le ha occupato il letto? come fa a dirgli quanto il suo addome enfio, il suo arto bloccato, il suo occhio senza luce le ricordino le decine di morenti della sua infanzia? anzi: non soltanto le ricordano quelli... Carmencita è fatta convinta che quella stessa malattia l'ha già preso e se lo sta portando fra i più, lo sta trasportando senza farsene accorgere affianco a suo padre, affianco al padre del padre, assieme ai familiari suoi defunti per riunire il clan totemico cui il suo spirito appartiene per diritto – o per dovere – di nascita. Ha paura Carmencita: ha paura dei ricordi, ha paura che la divinità che in quei giorni lontani era parsa dimenticarsi di lei torni a reclamare anche il suo, di spirito. Non teme i germi che non vede e non conosce, non teme il contagio su cui tribolano i medici... o almeno non quel tipo di contagio: teme la contiguità delle anime, fluttuanti nei corpi e nelle cose come gas in un involucro teso... e si tiene lontana da M.
M., che è uomo di città, che non è stato partorito in un giaciglio di verdi e larghe foglie, che non ha mai dormito in un'amaca, che non ha dato la caccia alla scimmia sui rami alti con la cerbottana piumata, non capisce, non capisce proprio la reazione della puttana. Non è un bell'uomo,ovvio; è anzi ben lontano dall'esserlo, e anche questo è acclarato. Il suo aspetto può destare sorpresa, in tanti genera disgusto ma il terrore, il terrore che legge in faccia a quella figlia amerinda no, quello proprio non se lo spiega. E gli pare scortesia. Acciuffa sciarpa, occhiali e cappello, si rizza a forza di gomiti, sciancheggia di qualche passo, raccoglie gli spiccioli dal comò, s'infila in tasca le banconote accartocciate come un cespo d'insalata e prende la porta. Dovendo passare nelle vicinanze di Carmencita, questa gli si discosta tenendosi lontana sempre della stessa identica distanza. A riguardar la scena dall'alto, come affacciandosi nanerottoli dalla plafoniera sul soffitto, parrebbe un gioco di calamite e di magnetismo contrastante, il loro. Uno sfila e l'altra si defila. Posto piede nel corridoio, M. sente sbattere con fragore la porta alle sue spalle e dare un paio di mandate a chiave. Sente anche parole di cui non afferra il significato, quasi suoni scomposti: è Carmencita che recita gli scongiuri tribali che le aveva insegnato, a suo tempo, la nonnina.
M. distende le braccia ai suoi lati, prima una poi l'altra, per toccare con la punta delle dita i muri del disimpegno tappezzati di vecchia carta cremisi... benché al tatto egli non possa avvertire il colore dei parati. Non trova l'interruttore per far luce e neanche schiaffeggia le pareti all'altezza del suo ombelico (altezza cui solitamente sono posti tutti gli interruttori in tutti gli angoli inciviliti del pianeta) che di tempo ne ha scialacquato fin troppo: ha soltanto una gran voglia di andar via da quella casa e gli sembrerebbero secondi male investiti quelli spesi nella palpazione delle verticali dell'appartamento. Il tragitto fra la camera di Carmencita e il portoncino che dà sulle scale comuni è brevissimo per chi conosce a menadito la disposizione dei mobiletti sconocchiati, per chi vede e per chi cammina con andatura consueta; a M., che in quella casa mai era stato prima e che pure si strascica nel buio accecato una gamba inerte, ritrovare l'uscio costa invece gran fatica e qualche apprensione ed è con piglio d'eroe che stringe la maniglia e si tira addosso il portone e stringe ancora il corrimano e tira sopra agli scalini la gran pancia, la gamba guasta e l'occhio cieco, rumoreggiando per tutto il caseggiato con lo sbattimento della suola rialzata sul marmetto da quattro soldi.
Ritrova l'andito condominiale in piano con la strada e dunque la strada. Serra il cappotto, stringe la sciarpa attorno al gozzo e inforca gli occhiali mentre la caotica folla delle creature si urta e cozza con brutta dissonanza tutt'attorno e pensa a quanto aveva fatto bene a tenersi lontano dalle puttane tutta la vita e a quanto sono gente strana e che non buscano una lira se non s'accontentano di quelli che capitano loro in casa che non tutti si nasce belli e perfetti e che magari qualche qualità la si ha comunque fra certi difettucci fisici o almeno un portafoglio pieno dovrebbe compensarli quei difettucci e che sarebbe il mestiere loro quello di non farci caso invece di castigarli col rifiuto e con lo schifo; che poi io pure da signore mi sono comportato che non gliel'ho detto mica che non era quella delle foto, che un sacco di tempo mi aveva fatto sprecare e che doveva pagarmelo quel tempo buttato e siccome anch'io dovevo pagare lei potevamo pure aggiustarci a scopare aggratis come sarebbe stato giusto.
Nel frattempo, nella sua stanza semisotterra Carmencita, ginocchia a terra e gomiti sul letto, questo cantilenava a labbra contratte: "Spirito adirato, quietati e lascia a noi che ti portiamo rispetto il respiro e la forza di pescare il pesce dalle carni grasse e di cacciare il tondo pecari con braccio e passo sicuro; rinsacca i denti aguzzi del predatore e se sete di sangue hai ancora, cercane silenzioso dai nemici del grande fiume e fra quanti non abitano il verde sterminato e la terra che s'inonda una volta l'anno poiché noi siamo il tuo popolo e il tuo popolo è il tuo mondo. Dunque saziati degli altri, paralizza le membra loro con la scarica dell'anguilla, schiaccia loro la testa come fa il tucano con la noce e lascia che dalle viscere straziate volino agli antenati le entità che vuoi riunire acciocché noi che osserviamo la sacralità dell'animale possiamo vivere e vivendo prosperare perché ben sai che, quando invochiamo il santo spagnolo, in realtà è la protezione del totem che imploriamo contro le avversità e quando ci segniamo è altro legno che quello della croce quello in cui ci riconosciamo tutti".
M. spazientito, deluso, rattristato oltre il solito, guardava a sinistra e a destra quanta gente gli passeggiasse vicino e, trovando il loro numero di sopravanzo, risolse di rattrappirsi al più presto in fondo al primo tram. Aveva tutta una città da attraversare di nuovo. Riguardò a sinistra, riguardò (inutilmente) a destra e tagliò le tre corsie della Prenestina mentre la sua testina, per via dell'andatura disarticolata, disegnava nell'aria una curva sinusoidale; sotto un pino che ombreggiava la luce già fioca del lampione, s'infilò abbastanza svelto nell'apertura fra due tratti di guard rail per acchiappare il tramvai grosso, verde e vecchio che sopravveniva nell'altro senso, incurante di quello che lo schiacciò all'istante senza avere tempo di scampanellare: la sua pesante scarpa ortopedica rimase infissa nello spacco fra rotaia e asfalto mentre il mezzo si portava dietro la gamba tranciata, il corpo ruzzoloni col ventre aperto e la testa frantumata dal peso di una ruota da cui era esploso fuori un occhio... quello a posto. Niente di quanto rimasto era buono per l'espianto. A pochi metri, in un seminterrato uguale a tanti, un visetto indio era subito tornato a sorridere.